Alcune parti tratte dal fondamentale libro :
Silvio Waldner , La deformazione della natura , edizioni AR , 1997
http://www.stormfront.org/forum/show...ic-428489.html
"Lo studio della storia come funzione delle variazioni razziali intervenute nelle popolazioni che abitano un determinato ambiente geografico (`storia genetica') è diventato, dopo il 1945, impercorribile o quasi.
Il primo tentativo di tracciare un compendio di storia universale su basi razziali fu fatto dal Gobineau, nei voll. II-VI dei suo Essai sur l'inégalité des races humaines. Questa parte della sua opera, anche se certamente sorpassata alla luce delle scoperte archeologiche ed etnologiche compiute dalla metà del XIX secolo a oggi, mantiene un'indubbia efficacia suggestiva per chi sia interessato alla rappresentazione di una 'storia genetica'. Negli anni Trenta, Hans F. K. Gunther produsse due eccellenti opere riferentisi alla Grecia e a Roma , poi ristampate negli anni Sessanta. Sull'argomento, il Mythus des XX. Jahrhunderts di Alfred Rosenberg contiene alcuni spunti felici e qualche riferimento tuttora valido - spunti e riferimenti tuttavia insufficienti a costituirne uno studio sistematico. Dopo la guerra, l'importanza di questa dimensione della storia è sottolineata da un autore americano, Revilo Olivier , il quale tuttavia non perviene ad alcuna conclusione chiara.
A titolo illustrativo, si danno qui tre esempi poco conosciuti di 'storia genetica'.
AFRICA NORD OCCIDENTALE
a. Africa nord-occidentale. Il `Maghreb' - grosso modo la parte settentrionale della Tunisia, dell'Algeria, del Marocco - in tempi preromani, romani e bizantini, sino alla fine del secolo VII, poté a buon diritto essere visto come una specie di "Spagna oltre Gibilterra". Le popolazioni della Penisola Iberica e del Maghreb erano affini, sia culturalmente che razzialmente (sottorazza occidentale, o mediterranea, della razza europea), e i contatti dall'una parte all'altra dello stretto di Gibilterra rimanevano frequenti. Dopo l'occupazione romana e fino ai tempi del Basso Impero, l'Africa nordoccidentale espresse uomini sia di pensiero che d'arme di primissima qualità e costituì una parte importante del mondo romana A cambiare radicalmente il 'paesaggio' ìntervenne nel VII secolo l'islamizzazione. Se è vero che l'Islàm rese un servìgio prezioso all'Europa dissolvendo il cristianesimo levantino, così creando una barriera che si rivelò anche genetica fra i Balcaní e il Medio Oriente, è pure vero che esso privò irreversibilmente il Continente di quello che era stato il suo genuino prolungamento africano. L'effetto immediato dell'islamizzazione fu, soprattutto a Tunisi ma anche nel resto della regione, l'arrivo in massa di Levantinì (a dìfferenza dell'Andalucía, dove l'immigrazione di Levantini non risultò mai massiccia), con conseguente sfiguramento della cultura locale e un principio di degradazione razziale. Questa fu una situazione che si mantenne, di massima, fino alla metà del XIV secolo. Fino allora, per gli emiri del Maghreb il centro di attenzione era stato la Spagna, ove la costante pressione di Castìglianì, Aragonesi e Portoghesi costringeva i musulmani sulla difensiva, ponendoli sotto costante minaccia di espulsione; v'era quìndì necessità di un costante appoggio a quella testa di ponte dell'Islàm in Europa costituita dall'Andalucía. La fine di questa situazione sopraggiunse verso la metà del secolo XIV, allorché l'islam nordafricano compì un ultimo sforzo per riacquistare l'iniziativa nella Penisola Iberica. Sconfitti in modo risolutivo nella sanguinosissima battaglia di Las Navas de Tolosa, sulla Sierra Morena, i Maghrebini si ritirarono definitivamente in Africa. Dopo di che, abbandonato l'Islàm andaluso al suo destino, gli sforzi 'missionari' deglì emìri del Maghreb si diressero esclusivamente verso il `Sudan', l'Africa nera, provocando la conseguente immissione dì turbe dì Negri nel Nord Africa, soprattutto in Marocco, come schiavi e come conversi. Si completò e perfezionò dunque il processo di snaturamento razziale dell'Africa nord-occidentale, prima levantinizzata, poi negrizzata. Al giorno d'oggi quelle terre sono irreversíbilmente - irreversibilmente perché geneticamente - parte del `Terzo Mondo'.
Si calcola che in Algeria e in Marocco probabilmente meno del 15% degli abitanti siano discendenti (più o meno `puri') della popolazione aborigena europide. (Costoro sono gli unici a rivelare capacità di `fare' e qualità organizzative: troppo pochi, però, per riuscire a operare una decantazione morfologica del `paesaggio' di quella regione).
b. L'India. Non si intende, ìn questa sede, tratteggiare il fenomeno della decadenza dell'India vedica, fatto molto bene documentato e, secondo il Gúnther, dovuto non tanto al meticciato (che pure, entro certi limiti, vi si verificò) quanto alla quasi totale scomparsa dell'aristocrazia indoeuropea, in conseguenza del differenziale di natalità fra gli Indoeuropei e gli aborigeni sottomessi. Piuttosto, si vuole ricordare il fatto che, parallelamente alla Sumeria, nella valle dell'Indo si formò nel III millennio a. C. una Kultur di altissimo livello (i cui centri principali furono Mohenjo-Daro e Harappa), che impiegò fra l'altro anche una scrittura propria non ancora decifrata. Coloro che la svilupparono appartenevano alla razza europea, nella sua variante occidentale o mediterranea. Questa luminosa civiltà scomparve in modo totale, così da perdersene perfino il ricordo, per effetto del meticciato con le razze scure dell'Indostan; salvo poi essere scoperta per vie esclusivamente archeologiche nel XIX secolo. Secondo una ipotesi genealogica, i moderni Sikh dell'India nord-occidentale sarebbero lontani discendenti, metìcciati con gli aborigeni indostani, dei fondatori della civiltà dell'Indo. I Sikh, anche fisicamente ben più vigorosi e meglio dotati degli australoidi scuri dell'India, compongono circa il 5% della popolazione indiana e sono gli autori quasi esclusivi (circa il 90%) di quella che può definirsi la Leistungffilzigkeit in India; donde, naturalmente, le loro tendenze separatistiche e la poca simpatia che portano per i loro 'compatrioti' dalla pelle più scura. Se effettivamente i Sikh traessero origine dai civilissimi abitanti di Mohenjo-Daro e Harappa ciò dimostrerebbe fino a quale punto (ossia al punto di farle dimenticare completamente la sua passata grandezza) un pur limitato incrocio con razze di natura possa degradare una stirpe originalmente di elevatissima qualità - e al contempo confermerebbe quanto si è sostenuto più sopra riguardo al meticcio, diventato membro di un' `aristocrazia' rispetto alla massa di natura pura.
c. Il Mediterraneo orientale.
Già fra i secoli XII e XIII venne operato un genuino 'esperimento coloniale' europeo nel Libano e in Palestina, come conseguenza della prima Crociata.
Se gli eventi politìco-mìlìtari delle Crociate sono fra i meglio documentati di tutto il Medioevo, relativamente poco si può reperire sulla dimensione razziale ('storia genetica') di questi stessi eventi: scarne informazioni, lasciate di massima dal cronista Jacob de Vitry, sono riportate da Rudolf Portner. Dal meticciato fra Europei e Siri, Arabi, Armeni, discendono in gran parte gli attuali Libanesi e Palestinesi, che hanno la reputazione di costituire i gruppi etnici più dotati fra gli Arabi. Ma sta di fatto che per moltissimo tempo quei cosiddetti poidains furono visti sia da Europei che da Levantini puri come elementi particolarmente infidi, ladreschi, spregevoli.
EUROPEI E PALEOEUROPEI
Una parola va detta a proposito delle commistioni intervenute attraverso i millenni in tutta Europa fra le diverse sottorazze europee. Non è certo che i risultati di quelle mescolanze siano stati necessariamente positivi: è del tutto possibile che se ogni sottorazza europea fosse rimasta a sé, intatta, sarebbe stato meglio - ma si tratta di una eventualità che, astratta dall'articolazione ed esclusa dal ritmo degli eventi storici, rimane quindi di impossibile determinazione e valutazione. In compenso si può affermare con certezza e fondamento che, essendosi gli incroci operati fra esemplari umani tra loro molto affini, i risultati (debbano questi essere riguardati come positivi o negativi) non possono essere stati particolarmente decisivi per la `fisionomia' europea dell'Europa.
I Paleoeuropei sono quei gruppi che, con termine piuttosto vago e generico, vengono anche spesso designati come discendenti dell' `uomo di Cro-Magnon', dal luogo nella Francia sud-occidentale in cui furono scoperti i primi resti scheletrici a loro attribuibili. Si tratta, all'ingrosso, degli Europei dai capelli e occhi scuri, che costituiscono il substrato generalizzato di tutta la popolazione e rappresentano i discendenti del più antico Homo sapiens in Europa, qui presente da decine di migliaia di anni.
Al 'Cro-Magnon' si deve l'eliminazione dallo spazio geografico europeo dello scimmiesco Homo neanderthalensis (una specie di Australiano) e di altri tipi boscimanoidi che allignavano un po' dappertutto in Europa all'alba dei tempi (non c'è traccia conosciuta di meticciato). Quando si tenga in mente che il Paleoeuropeo era di massima un elemento pacifico, poco guerriero, dedito all'agricoltura e retto da istituzioni matriarcali, non si può fare a meno di concludere che egli agì guidato da un infallibile istinto della sua anima, da una sicurissima consapevolezza biologica.
Gli Indoeuropei - da identificarsi all'ingrosso con l'Europeo biondo con gli occhi azzurri - hanno avuto un centro di diffusione identificabile nell'attuale Russia meridionale da dove, fra la metà del V e la metà del III millennio a. C., in ondate successive si spinsero nel resto dell'Europa, sottomettendo i Paleoeuropei e fondando principati in tutto il Continente. Gente guerriera e patriarcale, essi hanno impresso all'Europa le sue stigmate culturali definitive, non escluse le lingue parlate che, con poche eccezioni, sono lingue indoeuropee.
Non a torto alcuni circoli culturali e politici d'Europa scorgono nel `mito indoeuropeo' - ossia nel riconoscersi nella comune matrice culturale indoeuropea - il più valido punto di partenza per la riscossa dell'Europa (e, più in generale, della razza bianca) dalla sua attuale umiliazione."
Silvio Waldner usaiberosudafr.rtf
http://www.archiviostorico.info/Sezi...berosudafr.pdf
Usa Iberoamerica Sud Africa: tre messe a punto
http://www.archiviostorico.info/inde...o_pdf=1&id=277
Atlantide, Mu, Lemuria, Gondwana, Iperborea | Silvano Lorenzoni
http://www.centrostudilaruna.it/atla...iperborea.html
http://www.centrostudilaruna.it/venetipreromani.html
Adesso alcune parti tratte dall'altrettanto essenziale libro (nel suo genere assolutamente unico!):
Silvano Lorenzoni , Il Selvaggio. Saggio sulla degenerazione umana , Ghénos , 2005
http://www.centrostudilaruna.it/invo...eterogena.html
" (...) 2. Mediterranei e ainu
Avendo indicato come i mediterranei e gli ainu potrebbero essere stati le componenti ’superiori’ che, per meticciato con quelle ‘inferiori’ pigmoidi hanno dato origine al mondo selvaggio quale noi lo conosciamo; vale la pena di soffermarsi sull’argomento della natura di questi due tipi umani, dal punto di vista culturale e storico. Non si scorge in essi alcun tratto di inabilità intellettuale: dotati di acuta intelligenza, gli uni sono venuti a formare parte della popolazione europea - in certe zone essi sono preponderanti - e gli altri fanno parte importante della sostanza razziale dei giapponesi, senza che alcuno ne abbia risentito minimamente dal punto di vista intellettuale. In compenso in ambedue si possono forse scorgere dei caratteri di ’stanchezza’, di lunarità, che da alle loro manifestazioni culturali un’aura di crepuscolarità. Inoltre, non sembra che questi tipi umani abbiano mai visto nel meticciato un fatto particolarmente esiziale, a differenza di quanto poté essere il caso, fino a tempi recenti, di altri tipi europidi e mongoloidi. - Questa loro ‘fragilità’ sembra essere confermata dal fatto che le loro lingue e le loro specificità culturali, salvo sopravvivenze sotterranee e sincretistiche, nonché le loro strutture politiche, ebbero la tendenza a sfasciarsi irreversibilmente sotto spinte esterne anche apparentemente lievi. Gli ultimi ainu ancora riconoscibili come tali - Giappone settentrionale e isola di Sachalin -, già prima del loro assorbimento da parte della popolazione giapponese, erano stati acquisiti, culturalmente e linguisticamente, dall’ecumene nord-est-siberiano: non c’è traccia di quella che pure dovette essere una loro propria forma culturale e linguistica. Qualcosa di analogo toccò ai mediterranei, sui quali ci si dilungherà subito.
Il tipo mediterraneo fu la sostanza genetica portante di quell’affascinante e crepuscolare ‘mondo indo-mediterraneo’ che si estendeva dalle Colonne d’Ercole all’Indo, identificato da Vittore Pisani (10) ancora nell’anteguerra e poi studiato in dettaglio, nella sua parte europea centrata nei Balcani, da quella brillante archeologa che fu Marija Gimbutas (11). Esso era caratterizzato da tratti culturali specifici (12) e in esso venivano parlate lingue appartenenti a una superfamiglia parimenti specifica alla quale appartennero le lingue iberiche e liguri, l’etrusco, il pelasgo della Grecia pre-ellenica, svariate lingue dell’Asia Minore, il sumero, l’elamita dell’Iran e il harappiano dell’Indo (del quale le moderne parlate dravidiche sono un residuo) (13). E civiltà mediterranee, tutte lunari e crepuscolari, furono quelle dei megaliti, quella arcaica dei Balcani, quelle egizia, sumera, elamita, harappiana, spesso rivelatesi come centri statici di civiltà in un contesto di popolazioni selvagge (principalmente quella harappiana) (14). Esse furono tutte travolte facilmente dagli indoeuropei.
Qualcosa di analogo si può osservare per le civiltà americane e per quella polinesiana, anch’esse civiltà di alto livello ma di estrema fragilità (si è già menzionato che questo era stato osservato da Julius Evola [15]) e che furono travolte con estrema facilità e in modo irreversibile dalla colonizzazione europea. Si può ipotizzare che esse avessero l’ainu come ’sostanza genetica portante’, almeno per quel che riguarda le loro classi dirigenti.
Ma fra ainu e mediterranei si possono forse rintracciare delle continuità culturali, soprattutto dallo studio di alfabeti arcaici e misteriosi. Una difficoltà, viceversa, potrebbe essere posta dalla spiccata solarità delle religioni americane, di contro alla lunarità mediterranea. (Se invece nei facitori di megaliti in Melanesia [16] si vogliono vedere degli ainu o degli ainu-mongoloidi, il loro culto del serpente avvicinerebbe queste genti ai mediterranei).
Nell’Europa del VII - VI millennio a.C. erano generalizzati una notevole quantità di alfabeti, imparentati fra di loro e non ancora decifrati, usati dai costruttori di megaliti e dalla civiltà dei Balcani, con propaggini in Asia minore e nel Medio Oriente (è probabile che la scrittura cuneiforme sumera derivasse da questo tipo di grafie; e quindi anche le lettere fenicie) (17); e al medesimo filone appartenne la scrittura dell’Indo (18). (Si tratta di un tipo di scrittura cosiddetto ‘nucleare’, completamente diversa da ogni altra già interpretata, sia essa fonetica o geroglifica.) - Dei parallelismi perfetti sono stati trovati fra la scrittura dell’Indo e quella polinesiana, parimenti non ancora decifrata (19). In Polinesia, fino al secolo XIX, c’era una scrittura generalizzata, appannaggio di una classe sacerdotale che la utilizzava per testi liturgici, e che andò perduta con la scomparsa di quella classe come conseguenza della colonizzazione e del missionarismo monoteista, confessionale e laico (20). La sua varietà più conosciuta è il rongo-rongo dell’Isola di Pasqua (21), della quale rimangono le tracce più abbondanti, su legno, in quanto là essa fu usata fino a più tardi. Nel resto degli arcipelaghi, le iscrizioni su foglie di palma sono andate quasi interamente perdute.
È quindi tutt’altro che fuori luogo ipotizzare una continuità culturale e quindi anche razziale fra il Mditerraneo arcaico e l’Oceano Pacifico, attraverso il tramite dell’Asia meridionale. - Difficile invece fare ipotesi per quel che riguarda le Americhe. In Perù (ma anche nella Colombia meridionale), fino al secolo XVI fu usata la scrittura a corde annodate, i cosiddetti quipu (22); ma secondo una tradizione orale peruviana essi avrebbero sostituito, in un imprecisato ma remoto passato, un’altra scrittura, ancora più arcaica, sul conto della quale la tradizione ha poco da dire, salvo che era scritta su un qualche tipo di pergamena. Anche gli irochesi dell’America settentrionale usavano una ’scrittura’ tipo quipu, a base di rosari di conchiglie multicolori. E ci sarebbe dell’evidenza che delle scritture del genere erano in uso in Messico (prima dell’adozione della scrittura geroglifica) e, nel IV - III millennio a.C., anche in Polinesia, in Bengala, in Cina, in Mongolia e perfino in Tibet (dove, nel VII secolo d.C. esse furono abbandonate in favore dell’alfabeto sanscrito).
Come si vede, un’interpretazione non stereotipa - da establishment - dei fatti empirici non solo rivela un panorama del tutto nuovo sull’andamento cronologico della preistoria e della protostoria; ma potrebbe anche aprire degli affascinanti nuovi campi di ricerca che a tutt’oggi sono praticamente vergini.
3. Gli indoeuropei e la ‘razza nordica’
Si è già parlato degli indoeuropei (o indogermani) come dell’ultima manifestazione della ‘luce del Nord’ (23). La loro provenienza artica (dedotta, già agli inizi del Novecento, dal tedesco Krause e dall’indiano Tilak sulla base delle indicazioni astronomiche date dalle loro tradizioni religiose) è perfettamente assodata. La Russia meridionale fu un loro centro secondario di irraggiamento, come lo fu più tardi l’Europa nord-occidentale (né si può escludere che, in parte, l’Europa settentrionale sia stata da loro raggiunta direttamente dall’Artide [24]).
Una determinata corrente di pensiero, che fu predominante nell’anteguerra, della quale il principale esponente fu Hans F. K. Günther, identificava senz’altro la popolazione indoeuropea con la ‘razza’ nordica (ma sarebbe stato e sarebbe più esatto dire: il tipo nordico della razza europide), passando poi alla conclusione che ancora adesso il tipo nordico sarebbe ‘l’umano per eccellenza’. Questo, non nel senso di una superiore intelligenza (differenze di ‘quoziente intellettivo’ non ne sono state riscontrate, né allora né adesso, fra i principali tipi genetici europidi o nord-est asiatici, né il Günther suggerì mai niente del genere), ma in ragione di certe proprietà caratteriali che renderebbero il tipo nordico (identificato con quello indoeuropeo), nel modo più naturale, un signore e un dominatore. - L’identificazione in questione era (ed è) per lo meno esagerata; ma è assodato che il tipo nordico doveva essere molto frequente, se non proprio predominante, fra gli indoeuropei arcaici e predominante, se non proprio esclusivo, nelle loro classi dirigenti. Ne segue che la percentuale di sangue indoeuropeo in una determinata popolazione doveva (e deve) essere strettamente correlazionata alla proporzione di elementi nordici in essa riscontrabile, concentrati prevalentemente nelle sue classi dirigenti. Quando lo studioso-principe della fenomenologia storica della deindoeuropeizzazione - in Europa meridionale e in Asia, accompagnata dal riemergere del substrato pre-indoeuropeo inizialmente sottomesso -, Hans F. K. Günther (25), prende come indicatore di questa tendenza la diminuzione della percentuale di individui di tipo nordico, egli adotta un’ipotesi di lavoro sicuramente valida.
Le cose, però, si potrebbero essere messe altrimenti nei tempi contemporanei/moderni. Già negli anni Trenta Julius Evola (26) osservava che i popoli nordici contemporanei “presentavano qualità fisiche, di carattere, di coraggio, di resistenza (…) ma atrofia dal lato spirituale” (27), per poi soggiungere che la facilità con cui quelle popolazioni avevano accettato il cristianesimo prima e il protestantesimo dopo non deponeva certo a loro favore - e difatti, fatta la splendida eccezione dei sassoni, le genti germaniche (le più nordiche esistenti) resistettero alla cristianizzazione molto meno che certe popolazioni delle Alpi o del Baltico, che sangue nordico ne avevano meno. (Quanto al protestantesimo, per dovere di esattezza, va fatta la puntualizzazione che il mondo nordico per eccellenza - la Germania settentrionale e la Scandinavia meridionale - si fermò al luteranesimo. Portatore del calvinismo - la forma finale del protestantesimo - fu piuttosto quel tipo misto mediterraneo-nordico, con netta predominanza del tipo mediterraneo, che faceva e fa la base della popolazione dell’isola inglese.)
Già ai tempi suoi, Hans F. K. Günther era stato contestato, in certe sue conclusioni, da altri studiosi tedeschi che avevano indicato come, in Germania, le caratteristiche ‘asiatiche’ della componente alpina della popolazione avessero dato alla nazione tedesca delle qualità di stabilità psicologica che non le furono se non utili (28). E a una conclusione analoga arrivò, forse suo malgrado, lo stesso Günther (29) riguardo ai romani prischi (un misto 2/3 nordico, 1/3 alpino), ai quali la componente alpina avrebbe dato una tempra di stabilità e un’inclinazione all’operosità e alla sistematicità, abbinata a un forte senso pratico, che se appiattì la loro mitologia, li rese idonei a successi militari e politici che mai più ebbero l’uguale.
È probabile che adesso anche le residue genti nordiche, trascinate dal gorgo della decadenza che è caratteristico dei nostri tempi, abbiano preso la via del tramonto e che poco possano servire come riferimento per rovesciare il vedico Kali Yuga (fine del ciclo storico-cosmologico). I nordici, o parzialmente tali, sono addirittura divenuti, forse, un pericolo, in quanto qualche volta (vedi il mondo americanofono) hanno messo e mettono le loro residuali qualità animiche (fino a tanto che ancora le avranno) al servizio dell’accelerazione della decadenza (30).
(9) Cfr. Vittorio Marcozzi, Uomo, cit. (10) Vittore Pisani, L’unità culturale indo-mediterranea anteriore all’avvento di semiti e indoeuropei, Scritti in onore di Alfredo Trombetti, Torino, 1938.
(11) Marija Gimbutas, Old Europe in “Journal of indo-european studies” I, 1973 e Il linguaggio della dea, Neri Pozza, Vicenza, 1997 (originale 1989).
(12) Per quel che riguarda il lato religioso, di ottima consulta è Alain Daniélou, Siva et Dionysos, tr. it. Ubaldini, Roma, 1980.
(13) Cfr., per esempio, Carleton Coon, Razas, cit. Secondo questo autore ci sarebbero delle convergenze fra le lingue ‘mediterranee’ (per quel che se ne può ancora sapere) e quelle caucasiane/alarodiche (georgiano ecc., ma anche basco). Se questo fosse vero, si potrebbero ipotizzare anche analogie razziali a livello arcaico; ma le convergenze suggerite dal Coon sono ben lontane dall’essere dimostrate.
(14) Come un gruppo razziale intellettualmente superiore ma non eccessivamente aggressivo possa perpetuarsi in ambiente degradato può forse essere esemplificato da due casi tratti da quello che adesso è il mondo islamico. Nei paesi del Medio Oriente, un tempo mediterranei e poi semitizzati, rimangono delle minoranze cristiane che hanno caparbiamente rifiutato l’islamizzazione (l’islam è una forma particolarmente involuta di monoteismo) e che sono l’unica parte di quelle popolazioni che ’serva a qualcosa’ (circa 10% in Siria, quasi 20% in Mesopotamia, 50% nel Libano, 5 - 10% in Egitto). C’è da credere che si tratti della parte razzialmente meno semitizzata della popolazione. - In Algeria e in Marocco forse il 10 - 12% della popolazione, arroccata nella parte più alta dell’Atlante, pure ormai islamizzata, ha rifiutato l’arabizzazione. Questi discendenti, ancora più o meno puri, di quella che un tempo doveva essere la popolazione maggioritaria dell’Africa del Nord, sono, anche lì, gli unici che ’servano a qualcosa’.
(15) Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Mediterranee, Roma, 1969 (originale 1934).
(16) Cfr. Alphonse Riesenfeld, The megalythic civilizations of Melanesia, Bril, Leiden, 1950.
(17) Cfr. Patrick Ferryn et Ivan Verheyden, Chroniques des civilisations disparues, Laffont, Paris, 1976 e anche Harald Haarmann, On the nature of european civilization and its script, “Studia indogermanica lodziensia” (Lodz), vol. II, 1998.
(18) Harald Haarmann, cit.
(19) Cfr. Thomas Barthel, Pre-contact writing in Oceania, in Thomas Sebeok (a cura di) Current trends in linguistics, vol 8 (Oceania), Den Haag-Paris, 1971; Robert von Heine-Geldern, Die Osterinselschrift, in “Orientalischer Literaturzeitung”, N. 37, 1938 e id., The Easter Island and the Indus Valley scripts, in “Anthropos”, N.33, 1938.
(20) Cfr. Robert Suggs, Island …, cit.
(21) L’ipotesi fatta da un autore americanofono, Steven Fischer (Rongorongo, Clarendon Press, Oxford [Inghilterra], 1997) a proposito della scrittura pascuana è sufficientemente ridicola per potere essere riportata: i pascuani, fino ad allora analfabeti, venuti in contatto per la prima volta con degli europei - spagnoli - nel 1770 e avendoli visti scrivere, avrebbero intuito al volo che la scrittura aveva delle interessanti possibilità ‘magiche’ e, sui due piedi, avrebbero proceduto a svilupparne una di propria.
(22) Cfr. Clara Miccinelli e Carlo Animato, Quipu, ECIG, Genova, 1989.
(23) Sull’argomento, indispensabile è la sintesi di Jean Haudry, Gli indoeuropei, Edizioni di Ar, Padova, 2001 (originale 1982).
(24) Cfr. Jean Haudry, Indoeuropei, cit. e anche Lothar Kilian, Zum Ursprung der Indogermanen, Habelt, Bonn, 1983.
(25) Hans F. K. Günther, Rassenkunde Europas, cit.; Lebensgeschichte des hellenischen Volkes, Franz von Bebenburg, Pähl, 1965; Lebensgeschichte des römischen Volkes, Franz von Bebenburg, Pähl, 1966.
(26) Julius Evola, Sintesi di dottrina della razza, Ar, Padova, 1994 (originale 1941).
(27) Julius Evola, Rivolta, cit.
(28) Cfr. l’introduzione all’edizione italiana di Rassenkunde Europas, cit.
(29) Hans F. K. Günther, Lebensgeschichte des römischen Volkes, Franz von Bebenburg, Pähl, 1966.
(30) In riguardo, di utile consulta è Silvio Waldner, La deformazione della natura, Ar, Padova, 1997. "
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14 Words! - Holuxar