Iniziamo col presentare il professor J. Mearsheimer, docente al Department of Political Science University of Chicago
[Cominciamo la pubblicazione a puntate del saggio che ha messo a rumore l'America.
Ne sono autori John J. Mearsheimer, docente al Department of Political Science University of Chicago e Stephen M. Walt, docente alla John F. Kennedy School of Government Harvard University.
Il loro studio è stato pubblicato sul sito di Harvard, ma con la seguente avvertenza: «gli autori di questa bozza sono i soli responsabili delle opinioni ivi espresse. L'Università di Harvard e l'Università di Chicago, in quanto istituzioni accademiche, non prendono posizione sulle opinioni espresse dai ricercatori, e pertanto il presente articolo non deve essere interpretato come rappresentativo della posizione ufficiale delle suddette istituzioni»].
La traduzione è di Sebastiano Suraci, che ringraziamo.
La politica estera degli USA estende la propria influenza in ogni angolo del pianeta.
Questo è vero in particolar modo nell'area mediorientale, una regione che presenta croniche instabilità e riveste enorme importanza strategica.
Recentemente, il tentativo dell'Amministrazione Bush di trasformare tale regione in una comunità di democrazie ha favorito l'insorgere di una tenace ribellione in Iraq, ha causato la rapida ascesa del prezzo del petrolio ed ha ispirato gli attacchi terroristici a Madrid, Londra ed Amman. Considerate quindi le importanti conseguenze di tale politica, tutti i Paesi dovrebbero essere consapevoli di quali sono le forze che la indirizzano.
L'interesse nazionale americano dovrebbe essere l'obiettivo primario della politica estera.
Nei passati decenni, invece, e specialmente dai tempi della «Guerra dei Sei Giorni» nel 1967, il motivo dominante della politica USA in Medio Oriente è stato il suo rapporto con Israele.
La combinazione del fermo e deciso supporto allo Stato ebraico e lo sforzo per portare la democrazia nella regione mediorientale hanno infiammato il mondo arabo ed islamico e messo a repentaglio la sicurezza nazionale americana.
Questa situazione non ha precedenti nella storia politica americana.
Perché gli Stati Uniti hanno deciso di trascurare la propria sicurezza per promuovere gli interessi di un altro Stato?
Si potrebbe assumere che il legame fra i due Paesi è fondato su importanti interessi strategici o su primari valori etici.
Come mostriamo nel seguito nessuna di queste due argomentazioni può giustificare il livello di supporto materiale e diplomatico che gli USA forniscono ad Israele.
Invece, la spinta propulsiva sulla politica estera USA in tale regione è quasi interamente dovuta alla politica interna, e specialmente alle attività della «lobby ebraica».
Altri gruppi di potere sono riusciti in passato a deviare la politica estera americana verso posizioni a loro favorevoli, ma nessuna lobby è mai riuscita a farla divergere così tanto dalla direzione che l'interesse nazionale americano suggerirebbe, riuscendo allo stesso tempo a convincere l'opinione pubblica che gli interessi di USA ed Israele sono pressoché coincidenti.
Nelle pagine che seguono, dimostriamo come la lobby sia riuscita in questo scopo e come la loro attività abbiano influenzato le azioni dell'America in tale regione.
Data l'importanza strategica del Medio Oriente e le potenziale conseguenze su altri Paesi, sia gli americani che gli stranieri dovrebbero capire ed interessarsi dell'influenza della lobby sulla politica USA.
Alcuni lettori troveranno sgradevole questa analisi, ma i fatti riportati sono pressoché assodati nel mondo accademico.
Infatti il nostro lavoro si basa estensivamente sul lavoro di studiosi e giornalisti israeliani, ai quali va riconosciuto il grande merito di aver portato alla luce tali questioni.
Ci siamo inoltre avvalsi dei contributo di importante organizzazioni umanitarie, rispettate da Israele e dalla Comunità Internazionale.
Similmente, i nostri rilievi sull'impatto della lobby si fondano sulle testimonianze degli stessi membri della lobby, e di politici che hanno lavorato con loro.
I lettori potranno non accettare le nostre conclusioni, ma i fatti su cui esse si basano non sono opinabili.
Il Grande Benefattore.
Sin dai tempi della Guerra d'Ottobre del 1973 (la Guerra del Kippur, ndt), Washington ha fornito ad Israele una mole di aiuti tale da rendere insignificante il supporto fornito a qualunque altro Stato. Esso (Israele, ndt) è stato dal 1976 in poi il maggior beneficiario degli aiuti economici e militari diretti forniti annualmente dagli USA, e dal dopoguerra in poi ha ricevuto complessivamente più aiuti di qualsiasi altro Paese.
Tale somma ammonta ad oltre 140 miliardi di dollari equivalenti del 2003.
Israele riceve circa 3 miliardi di dollari in aiuti diretti ogni anno, ovvero circa un quinto dell'intero budget USA per il sostegno ai Paesi stranieri.
In termini pro-capite, gli Stati Uniti sostengono ogni cittadino israeliano con circa 500 dollari l'anno.
Questa generosità risulta particolarmente sorprendente in quanto Israele è attualmente un ricco Stato industriale con un reddito pro-capite pari a quello della Corea del Sud o della Spagna.
Israele riesce inoltre ad ottenere accordi molto speciali con Washington.
Gli altri Paesi beneficiari degli aiuti americani ricevono le somme in rate quadrimestrali, mentre Israele riceve l'intero ammontare all'inizio dell'anno fiscale, guadagnando così un ulteriore interesse.
Inoltre molti degli Stati che ricevono sostegno militare dagli USA sono costretti ad utilizzare le somme ottenute per acquisti da fornitori americani, mentre Israele può impiegare il 25% dei fondi che riceve a sostegno la propria industria bellica.
Israele è l'unico beneficiario che non ha l'obbligo di rendicontare le proprie spese, cosa che rende praticamente impossibile impedire che le somme ricevute siano spese per obiettivi a cui gli Stati Uniti si oppongono, come ad esempio la costruzione di insediamenti nella West Bank.
Inoltre, gli USA hanno fornito ad Israele circa 3 miliardi di dollari per sviluppare armamenti come il caccia Lavi, che al Pentagono non serviva, dando a Israele libero accesso ai più sofisticati armamenti USA, come l'elicottero BlackHawk ed i jet F16.
Infine, gli Stati Uniti hanno fornito ad Israele informazioni di intelligence che negano agli alleati della NATO, ed hanno sempre chiuso un occhio riguardo allo sviluppo di armamenti nucleari da parte dello Stato ebraico.
In aggiunta a questo, Washington ha sempre fornito ad Israele un forte appoggio diplomatico.
Fin dal 1982, gli Stati Uniti hanno posto il veto a ben 32 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU critiche verso Israele, un numero maggiore della somma di tutti i veti mai posti dagli altri membri di tale Consiglio.
Gli USA hanno anche bloccato il tentativo dei Paesi arabi di porre l'arsenale atomico israeliano sotto il controllo dell'AIEA (Atomic International Energy Agency).
Gli Stati Uniti inoltre vengono in aiuto di Israele in tempo di guerra, e si schierano sistematicamente a loro fianco nei negoziati di pace.
L'Amministrazione Nixon ha rifornito Israele durante la Guerra del Kippur, e l'ha protetto dalla minaccia di un intervento sovietico.
Washington è stata profondamente coinvolta nei negoziati successivi a tale guerra e nel lento processo «passo-a-passo» che ne seguì, proprio come giocò un ruolo chiave nei negoziati precedenti e successivi agli accordi di Oslo del 1993.
Ci furono talvolta delle divergenze tra i rappresentati americani ed israeliani in entrambe
le occasioni, ma gli Stati Uniti coordinarono costantemente le proprie posizioni con Israele
e supportarono la loro linea negoziale.
Per questo, un rappresentate americano a Camp David nel 2000 più tardi disse:
«troppo spesso, ci comportavamo … come gli avvocati di Israele»
Come argomentato nel seguito, Washington ha lasciato mano libera ad Israele nella gestione dei territori occupati (la West Bank e la Striscia di Gaza), anche quando le loro iniziative erano contrarie alla linea politica USA.
Inoltre, l'ambizione dell'Amministrazione Bush di trasformare il Medio Oriente - cominciando con l'invasione dell'Iraq - è almeno in parte dettata dal desiderio di rafforzare il ruolo strategica di Israele.
Al di là delle alleanze in tempo di guerra, è difficile pensare ad un'altra situazione in cui uno Stato ha fornito ad un altro un simile livello di aiuto militare e diplomatico, per un periodo tanto lungo.
Il supporto che l'America fornisce ad Israele è, in breve, unico.
Questa straordinaria generosità sarebbe giustificabile se Israele fosse una risorsa vitale e strategica per gli USA, oppure se fosse fondata su basi etiche di primaria importanza.
Ma nessuna di queste due spiegazioni è convincente.
Secondo il sito web dell’American Israeli Public Affaire Committee (AIPAC), «gli Stati Uniti ed Israele hanno dato vita ad una speciale partnership strategica per affrontare le crescenti minacce in Medio Oriente…Questo sforzo congiunto porta significativi vantaggi ad entrambi gli Stati».
Tale argomento è un «credo politico» per i sostenitori di Israele ed è continuamente richiamato sia dai politici israeliani che da quelli americani pro-Israele.
Israele poteva rappresentare una risorsa strategica durante la Guerra Fredda: svolgendo la funzione di «rappresentante» degli USA dopo la Guerra dei Sei Giorni (1967), Israele contribuì a contenere l’espansione sovietica nella regione, ed inflisse umilianti sconfitte a Paesi dell’orbita sovietica come l’Egitto e la Siria.
Israele talvolta contribuì a proteggere altri alleati degli Stati Uniti (come ad esempio Re Hussein di Giordania) e la sua forza militare costrinse Mosca a notevoli sforzi per sostenere i propri partner in difficoltà.
Israele inoltre fornì agli Stati Uniti importanti informazioni di intelligence riguardo alle potenzialità della Russia.
Il ruolo strategico di Israele durante quel periodo non deve però essere sovrastimato.
Il sostegno ad Israele fu costoso, e complicò le relazioni degli USA con il mondo arabo.
Ad esempio, la decisione di fornire ad Israele 2.2 miliardi di dollari in aiuti militari urgenti durante la Guerra del Kippur causò l’embargo petrolifero da parte dell’OPEC, cosa che ebbe notevoli ripercussioni negative su tutte le economie occidentali.
Inoltre, l’esercito israeliano non riuscì a proteggere gli interessi americani nella regione.
Ad esempio, gli Stati Uniti non poterono fare affidamento su Israele quando la rivoluzione iraniana del 1979 fece nascere preoccupazioni sulla sicurezza delle forniture petrolifere nel Golfo Persico, e furono costretti a creare una propria Forza di Intervento Rapido.
Anche se Israele rappresentò una risorsa strategica ai tempi della Guerra Fredda, la prima Guerra del Golfo fece emergere il fatto che Israele, dal punto di vista strategico, stava diventando un peso.
Gli Stati Uniti non poterono usare le basi israeliane durante la guerra per il timore di spaccature nella coalizione anti-Iraq, e dovettero impiegare importanti risorse (per esempio le batterie di missili Patriot) per assicurarsi che Tel Aviv non facesse nulla che potesse compromettere l’alleanza anti Saddam.
La storia si è ripetuta nel 2003: benché Israele fosse ben felice che gli Stati Uniti muovessero guerra all’Iraq, Bush non poté chiedere il loro aiuto senza scatenare l’opposizione araba.
Così Israele rimase nuovamente nelle retrovie.
Dagli anni ‘90, e specialmente dopo l’11 settembre, il supporto USA nei confronti di Israele è stato giustificato dall’assunto che entrambi gli Stati sono minacciati dai gruppi terroristi islamici e da una serie di «Stati canaglia» che appoggiano questi gruppi e che cercano di procurarsi armi di distruzione di massa.
Questa analisi implica che Washington dovrebbe lasciare ad Israele carta bianca nel gestire i palestinesi, senza fare pressioni sullo Stato ebraico riguardo a concessioni finché tutti i terroristi palestinesi non sono morti o in galera.
Inoltre, questa teoria implica anche che gli Stati Uniti dovrebbero intervenire contro Paesi come la Repubblica Islamica dell’Iran, l’Iraq di Saddam Hussein e la Siria di Bashar al Assad. Israele è quindi considerato un alleato fondamentale nella guerra contro il terrorismo, perché i suoi nemici sono i nemici dell’America.
Anche se questi ragionamenti sembrano convincenti, in realtà Israele è un fardello nella guerra al terrorismo e nel tentativo più ampio di confrontarsi con gli «Stati canaglia».
Tanto per cominciare, il «terrorismo» è una tattica utilizzata da un’ampia schiera di gruppi politici: non è un avversario unico.
Le organizzazioni terroristiche che minacciano Israele (per esempio Hamas, Hezbollah) non rappresentano un pericolo per l’America, eccetto se questa li attacca (come in Libano nel 1982).
Inoltre, il terrorismo palestinese non è costituito da attacchi gratuiti contro Israele o contro «l’Occidente», ma rappresenta la risposta alla campagna di colonizzazione israeliana della West Bank (Cisgiordania, ndt) e della Striscia di Gaza.
Ancora più importante, affermare che gli Stati Uniti ed Israele sono uniti contro un’unica minaccia terroristica rovescia la relazione causa-effetto: piuttosto, gli Stati Uniti subiscono la minaccia terroristica proprio perché sono stretti alleati di Israele.
Il supporto per Israele non è l’unica causa del terrorismo anti-americano, ma ne rappresenta una motivazione importante, e rende più difficile la vittoria nella guerra al terrore.
Non c’è dubbio, infatti, che molti leader di Al Quaeda, incluso Bin Laden, sono motivati dalla presenza di Israele a Gerusalemme e dalle condizioni in cui versa il popolo palestinese. Secondo la commissione che ha indagato sull’11 settembre, Bin Laden voleva esplicitamente punire gli Stati Uniti per le loro politiche in Medio Oriente, incluso il supporto ad Israele, ed ha anche cercato di organizzare gli attacchi in modo da sottolinearlo.
Inoltre, il supporto incondizionato che gli Stati Uniti forniscono ad Israele rende più semplice agli estremisti come Bin Laden raccogliere il favore delle masse ed attirare nuove reclute.
Sondaggi di opinione confermano che le popolazioni arabe sono profondamente ostili al supporto americano nei confronti di Israele, ed il Comitato Consultivo sulle politiche per gli arabi ed i musulmani del Dipartimento di Stato ha riscontrato che «i cittadini di questi Paesi sono sinceramente addolorati dalla situazione palestinese e dal ruolo che gli Stati Uniti svolgono».
Per quanto riguarda i cosiddetti «Stati canaglia» del Medio Oriente, questi non rappresentano una minaccia diretta agli interessi vitali degli Stati Uniti, a parte l’alleanza con Israele stesso. Sebbene esistano alcuni motivi di contesa con questi regimi, il livello di preoccupazione che Washington manifesta nei confronti dell’Iran, dell’Iraq Baathista e della Siria non sarebbe sicuramente così elevato se l’America non avesse così stretti legami con Israele.
Anche se questi Stati si dotassero di armi nucleari - cosa ovviamente non desiderabile - dal punto di vista strategico non sarebbe un dramma per gli Stati Uniti.
Né l’America né Israele potrebbero subire un ricatto nucleare, perché l’eventuale Stato ricattatore non potrebbe porre in essere la sua minaccia senza esporsi ad una devastante rappresaglia.
Il pericolo poi che uno «Stato canaglia» fornisca tali armi a gruppi terroristi è similmente remoto, in quanto tale Stato non potrebbe esser certo che il traffico rimanga segreto, rischiando quindi una violenta rappresaglia in seguito.
Inoltre, gli stretti legami con Israele rendono più difficile per gli Stati Uniti gestire questi Stati. L’arsenale nucleare israeliano rappresenta uno dei motivi principali per cui gli Stati vicini desiderano dotarsi di armi nucleari, e le minacce ad essi rivolti non fanno altro che aumentare tale desiderio.
E poi Israele non rappresenta una risorsa quando si tratta di muoversi contro tali Stati, in quanto non può prender parte ai combattimenti.
In breve, considerare Israele come il principale alleato nella guerra contro il terrorismo e contro i vari regimi mediorientali ha l’effetto di sovrastimare l’aiuto che Israele può fornire in tali questioni e di ignorare che la politica di Israele rende più difficoltosi gli sforzi USA.
Supportare in maniera acritica Israele inoltre indebolisce la posizione USA al di fuori del Medio Oriente.
Presso gli altri Paesi è infatti diffusa l’opinione che gli Stati Uniti siano troppo schierati a favore di Israele e che la tolleranza dimostrata nei confronti della repressione israeliana dei territori occupati è moralmente inaccettabile e controproducente ai fini della guerra al terrorismo.
Nell’aprile del 2005, ad esempio, 52 ex diplomatici britannici hanno inviato al Primo ministro Tony Blair una lettera dicendo che il conflitto israelo-palestinese ha «avvelenato le relazionifra l’Occidente ed il mondo arabo» ed ammonendo che le politiche di Bush e Sharon erano «di parte ed illegali»
Un’ultima ragione per mettere in discussione il valore strategico del rapporto con Israele, è che esso non agisce come un alleato leale.
Alti dirigenti israeliani ignorano spesso le richieste americani e rinnegano le promesse fatte ai maggiori leader nel nostro Paese (ad esempio il recente impegno di fermare la costruzione di colonie e di astenersi dagli «assassinii mirati» dei leader palestinesi).
Inoltre Israele ha fornito importanti tecnologie USA a potenziali avversari come la Cina, in quello che l’Ispettore Generale del Dipartimento di Stato ha definito «un sistematico e crescente sistema di cessioni non autorizzate».
Secondo il «General Accounting Office» degli Stati Uniti, Israele ha condotto nei confronti degli USA le azioni di spionaggio più aggressive rispetto a tutti gli altri alleati.
In aggiunta al caso di Jonathan Pollard, che fornì ad Israele importanti informazioni riservate nei primi anni ‘80 (informazioni che Israele pare abbia girato ai sovietici in cambio di visti di ingresso per gli ebrei russi), una nuova controversia è emersa nel 2004, quando fu accertato che un alto ufficiale del Pentagono (Larry Franklin) passò informazioni riservate ad un diplomatico israeliano, presumibilmente aiutato da due membri dell’AIPAC.
Israele non è certo l’unico Paese che svolge azioni di spionaggio contro gli Stati Uniti, ma la sua ostinazione in tal senso getta ulteriori dubbi sul suo valore strategico.
Una debole giustificazione morale.
A parte il presunto ruolo strategico, i sostenitori di Israele affermano che esso merita il sostegno incondizionato da parte degli Stati Uniti perché
1) è debole e circondato da nemici;
2) è una democrazia, forma preferibile di governo dal punto di vista morale;
3) gli ebrei, in passato, hanno sofferto a causa di molte persecuzioni e quindi devono essere trattati
in maniera speciale;
4) la condotta morale di Israele è stata moralmente superiore a quella dei suoi avversari;
Ad un esame attento, però ciascuno di questi argomenti è poco convincente.
C'è un forte argomento morale per difendere il diritto di Israele ad esistere, ma tale diritto non è in pericolo.
Una visione obiettiva della condotta di Israele non offre alcuna base morale per privilegiarlo rispetto ai Palestinesi.
Supportare il perdente?
Israele è spesso rappresentato come debole ed indifeso, un David ebraico circondato da un ostile Golia arabo.
Questa immagine è stata coltivata con cura dai leader israeliani e dai commentatori simpatizzanti, ma invece è l'esatto opposto di questa tesi ad avvicinarsi alla verità.
Contrariamente a quanto si crede, i sionisti hanno avuto l'esercito più numeroso, meglio equipaggiato e meglio guidato durante la guerra d'indipendenza del 1947-49, e le forze di difesa israeliane vinsero facilmente contro l'Egitto nel 1956 e contro Egitto, Siria e Giordania nel 1967, prima che gli aiuti americani arrivassero su larga scala.
Queste vittorie offrono una prova eloquente del patriottismo israeliano, della loro abilità organizzativa e forza militare, ma allo stesso tempo rivelano che Israele era tutt'altro che indifeso fin dai sui primi anni.
Attualmente, Israele è la più grande potenza militare del Medio Oriente.
Le sue forze convenzionali sono superiori a quelle dei vicini, ed è l'unico Stato dotato di armi nucleari.
Egitto e Giordania hanno firmato trattati di pace con Israele, ed anche l'Arabia Saudita si è dichiarata disponibile in tal senso.
La Siria ha perso il suo alleato sovietico, l'Iraq è stato devastato da tre guerre disastrose, e l'Iran è lontano centinaia di miglia.
I palestinesi hanno a malapena una forza di polizia, e non è pensabile che il loro esercito possa minacciare Israele.
Secondo una ricerca del prestigioso «Jaffee Center for Strategic Studies», presso l'Università di Tel Aviv: «il bilancio strategico favorisce decisamente Israele, il quale ha continuato ad aumentare il divario qualitativo fra le proprie capacità militari e quelle dei vicini».
Se l'idea di supportare il debole rappresentasse un interesse primario per l'America, gli Stati Uniti dovrebbero schierarsi con gli avversari di Israele.
Aiutare una Democrazia?
Il supporto americano è spesso giustificato dalla tesi secondo cui Israele è un baluardo della democrazia circondato da dittature ostili.
Questo ragionamento sembra convincente, ma non può giustificare l'attuale livello di aiuti americani.
Dopo tutto, ci sono molte democrazie nel mondo, ma nessuna di queste riceve il generoso sostegno che gli Stati Uniti forniscono ad Israele.
Gli USA hanno sovvertito governi eletti democraticamente in passato, e sostenuto dittatori quando questo era ritenuto nel loro interesse; inoltre attualmente hanno buone relazioni con numerose dittature.
Pertanto il fatto che Israele sia una democrazia non giustifica né spiega il livello di supporto che riceve dagli USA.
L'argomento della «democrazia condivisa» inoltre è indebolito da alcuni aspetto dell'assetto democratico israeliano, che sono contrari ai valori di base dell'America.
Gli Stati Uniti sono infatti una democrazia liberale in cui i cittadini di ogni razza, religione o gruppo etnico godono degli stessi diritti. Al contrario, Israele è stato esplicitamente fondato come Stato ebraico e la cittadinanza è basata sui legami di sangue.
Considerata questa idea di cittadinanza, non c'è da sorprendersi che 1,3 milioni di arabi israeliani siano trattati come cittadini di seconda classe, oppure che recentemente una commissione governativa israeliana abbia sentenziato che Israele si comporta in maniera «noncurante e discriminatoria» nei loro confronti.
Ugualmente, Israele non permette ai palestinesi che sposano cittadini israeliani di ottenere la cittadinanza, e non danno allo sposo straniero il diritto a vivere in Israele.
L'organizzazione israeliana per i diritti civili B'tselem ha definito questa restrizione «una legge razzista che determina il diritto a vivere qui secondo criteri razzisti».
Questo può essere comprensibile considerando i principi fondatori di Israele, ma non è compatibile con l'idea americana di democrazia.
Lo status democratico di Israele è inoltre indebolito dal rifiuto di riconoscere ai palestinesi il diritto ad uno Stato dignitoso ed indipendente.
Israele controlla la vita di 3,8 milioni di palestinesi a Gaza ed in Cisgiordania, mentre prosegue a colonizzare delle terre dove i palestinesi hanno abitato da lungo tempo.
Israele è formalmente democratico, ma ai milioni di Palestinesi che controlla sono negati pieni diritti politici, pertanto l'argomento della «democrazia condivisa» è fortemente indebolito.
Compensazione per le passate persecuzioni
Una terza giustificazione morale si basa sulla passata persecuzione degli ebrei ad opera dell'Occidente cristiano, in particolare il tragico evento dell'olocausto.
Dal momento che gli ebrei sono stati perseguitati per secoli e possono sentirsi sicuri soltanto all'interno del loro Stato, molto credono che Israele meriti un trattamento speciale da parte degli Stati Uniti.
Non c'è dubbio che gli ebrei abbiano sofferto molto a causa dello spregevole retaggio dell'antisemitismo, e che la creazione dello Stato di Israele sia stata una risposta adeguata ad una lunga serie di criminali persecuzioni.
Ma la creazione di Israele ha anche comportato ulteriori crimini contro un popolo largamente innocente ed indifeso: i Palestinesi.
La storia di questi eventi è nota.
Quando il movimento Sionista ebbe luce, nel tardo 19 secolo, erano presenti soltanto circa 15.000 ebrei in Palestina.
Nel 1893, ad esempio, gli arabi costituivano circa il 95% della popolazione, e benché sotto dominazione ottomana, abitavano quelle terre da ben 1300 anni.
Anche quando Israele fu fondato, gli ebrei erano circa il 35% della popolazione e possedevano il 7% delle terre.
La leadership sionista non era interessata alla creazione di uno Stato bi-nazionale e non avrebbe mai approvato una divisione permanente della Palestina.
Tale divisione fu inizialmente accettata come primo passo, ma si trattò di una manovra tattica che non rispecchiava le intenzioni reali.
Come David Ben Gurion disse verso la fine degli anni 30, «dopo la creazione di un potente esercito a sostegno dello Stato, rinnegheremo la divisione e ci espanderemo su tutta la Palestina».
Per raggiungere tale obiettivo, i sionisti dovevano deportare un grande numero di arabi fuori dai territori dove sarebbe sorto Israele.
Non c'era alcuna alternativa.
Ben Gurion era ben consapevole del problema, e scrisse nel 1941 che «era impossibile immaginare uno spostamento di massa [della popolazione araba] senza una brutale coercizione».
Oppure come disse lo storico israeliano Benny Morris: «l'idea del trasferimento è antica quanto il moderno movimento sionista, e lo ha accompagnato nella sua evoluzione durante l'ultimo secolo».
L'occasione si presentò nel 1947-48, quando gli ebrei costrinsero 700.000 palestinesi all'esilio.
I rappresentanti israeliani hanno sempre sostenuto che gli arabi se ne andarono perché i loro leader dissero loro di andarsene, ma un'attenta ricerca (condotta principalmente da storici israeliani come Morris), ha demolito questo mito.
Infatti la maggior parte dei leader arabi raccomandò alla gente di rimanere nelle proprie case, ma la paura di una morte violenta per mano dei sionisti convinse molti arabi a scappare.
Dopo la guerra, Israele impedì il ritorno dei profughi palestinesi.
Il fatto che la creazione dello Stato di Israele implicava un crimine morale ai danni dei palestinesi era ben noto ai leader israeliani.
Infatti Ben Gurion disse a Nahum Goldmann, presidente del World Jewish Congress, «se fossi un leader arabo non farei mai accordi con Israele. Questo è naturale: abbiamo occupato il loro Paese. Noi veniamo da Israele, ma ciò accadeva duemila anni or sono, e loro cosa c'entrano? C'è stato l'antisemitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma loro che colpa
ne hanno? Loro vedono solo questo: noi siamo arrivati ed abbiamo rubato la loro terra. Perché dovrebbero accettarlo?».
Da allora, i leader israeliani hanno ripetutamente cercato di rinnegare l'ambizione dei palestinesi di avere uno Stato.
Il primo ministro Golda Meir arrivò a dire che «non esiste qualcosa chiamato Palestina», ed anche il primo ministro Yitzhak Rabin, che nel 1993 firmò gli accordi di Oslo, si oppose alla creazione di uno Stato palestinese indipendente.
Le pressioni da parte degli estremisti ed il crescente livello della popolazione palestinese hanno costretto i leader israeliani a ritirarsi da alcuni dei territori occupati e a cercare dei compromessi territoriali, ma nessun governo israeliano ha concesso ai palestinesi un proprio Stato.
Anche l'offerta a quanto pare generosa del primo ministro Ehud Barak a Camp David nel luglio del 2000 prevedeva uno Stato palestinese disarmato e smembrato in una serie di «Bantustans», di fatto sotto il controllo israeliano.
I crimini europei contro gli ebrei forniscono una evidente giustificazione morale al diritto di Israele ad esistere.
Ma la sua sopravvivenza non è in pericolo - anche se alcuni estremisti islamici fanno delle deplorevoli ed irrealistiche allusioni alla «cancellazione di Israele dalla mappa geografica» - e la tragica storia degli ebrei non obbliga gli Stati Uniti ad aiutare Israele qualunque cosa esso faccia.
«Israele buono» contro gli «arabi malvagi»
L'ultima argomentazione morale dipinge Israele come un Paese che ha cercato con ogni mezzo la pace e che ha dimostrato molta moderazione anche quando provocato.
Le azioni degli arabi, al contrario, sono considerate pervase da grande malvagità.
Questa argomentazione, ripetuta senza sosta dai leader israeliani e dagli americani che li appoggiano - come Alan Dershowitz - è un altro mito.
In termini di comportamento reali, la condotta di Israele non è moralmente distinguibile da quella dei suoi avversari.
La ricerca accademica israeliana mostra che i primi sionisti erano ben poco amichevoli nei confronti dei palestinesi.
Gli arabi opposero resistenza all'invasione sionista, cosa comprensibile visto che i sionisti cercavano di creare il proprio Stato sul territorio arabo.
I sionisti reagirono violentemente, e nessuna parte mostrò superiorità morale durante quel periodo. Le stesse ricerche mostrano che la creazione di Israele, nel 1947-48, comportò atti di pulizia etnica comprese esecuzioni, massacri e rapimenti da parte degli ebrei.
Inoltre, negli anni seguenti la condotta di Israele nei confronti degli arabi e dei palestinesi fu spesso brutale, cancellando ogni validità all'ipotesi di una sua superiorità morale.
Fra il 1949 ed il 1956, ad esempio, l'esercito israeliano uccise fra 2.700 e 5.000 «spie» arabe, la maggior parte delle quali era disarmata.
Tale esercito inoltre fece molti raid al di fuori dei confini contro i propri vicini nei primi anni 50, e benché queste azioni fossero dipinte come difensive, erano i realtà parte di un piano di espansione di Israele.
Le ambizioni espansionistiche inoltre portarono Israele ad unirsi a Francia ed Inghilterra nell'attacco all'Egitto del 1956, ed Israele si ritirò dalle terre conquistate solo a causa di forti pressioni USA.
L'esercito israeliano uccise centinaia di prigionieri di guerra egiziani sia nella guerra del 1956 che in quella del 1967, e deportò fra 100.000 e 260.000 palestinesi fuori dalla Cisgiorndania (appena conquistata) ed espulse 80.000 siriani dalle alture del Golan.
Fu anche complice nel massacro di 700 innocenti palestinesi nel campo profughi di Sabra e Shatila dopo l'invasione del Libano nel 1982, ed una commissione di inchiesta israeliana dichiarò l'allora ministro della difesa Sharon «personalmente responsabile» di tali atrocità.
Soldati israeliani hanno torturato molti prigionieri palestinesi, ed hanno sistematicamente umiliato e tormentato i civili palestinesi, usando spesso la forza contro di loro in numerose occasioni.
Durante la prima Intifada (1987-1991), ad esempio, l'esercito israeliano distribuì manganelli ai suoi soldati raccomandando loro di spezzare le ossa ai palestinesi.
L'organizzazione svedese «Save the Children» ha stimato che «fra 23.600 e 29.900 bambini palestinesi hanno dovuto sottoporsi a cure mediche per lesioni da percosse nei primi due anni dell'intifada, e circa un terzo di essi presentava fratture ossee. Circa un terzo di tali bambini aveva meno di dieci anni».
La reazione di Isreale alla seconda Intifada (2000-2005) è stata ancora più violenta, portando [il giornale, ndt] Ha'aretz a dichiarare che «l'esercito israeliano è diventato una macchina per uccidere la cui sorprendente efficienza incute terrore».
L'esercito sparò un milione di proiettili nei primi giorni della rivolta, cosa ben lontana da una reazione proporzionata.
Da allora l'esercito ha ucciso 3-4 persone (la maggior parte delle quali innocenti passanti) per ciascun israeliano caduto; il rapporto fra i bambini ammazzati è ancora più alto (5.7 a 1).
Gli israeliani hanno ucciso anche molti pacifisti, inclusa una ragazza americana di 23 anni schiacciata da un Bulldozer nel marzo 2003.
Questi fatti riguardanti la condotta di Israele sono stati ampiamente documentati da numerose organizzazioni umanitarie - anche israeliane - e non sono messi in dubbio dagli studiosi obiettivi. Questo è il motivo per cui quattro ex-ufficiali dello Shin-Bet (il servizio segreto civile israeliano) hanno condannato la condotta di Israele durante la seconda Intifada.
Uno di essi ha dichiarato che «ci stiamo comportando in maniera ignobile» ed un altro ha definito la condotta di Israele «manifestamente immorale».
Ma Israele non ha il diritto di fare tutto ciò che ritiene per proteggere i propri cittadini?
Il terrorismo non giustifica il continuo sostegno da parte degli USA?
Nemmeno questo argomento, però, rappresenta una giustificazione morale.
I palestinesi hanno utilizzato il terrorismo contro gli occupanti israeliani, ed il loro desiderio di attaccare civili innocenti è deprecabile.
Il loro comportamento, però, non è sorprendente in quanto i palestinesi ritengono di non aver alcun altro modo per ottenere concessioni.
Come il primo ministro Ehud Barak una volta ammise, se fosse nato palestinese «avrebbe aderito ad una organizzazione terroristica».
Infine, non dovremmo dimenticare che i sionisti utilizzarono anch'essi il terrorismo quando erano in una posizione debole e volevano ottenere il loro Stato.
Fra il 1944 ed il 1947, molte organizzazioni sioniste usarono attentati terroristici per spingere gli inglesi fuori dalla Palestina, causando la morte di molti civili.
I terroristi israeliani uccisero anche il mediatore delle Nazioni Unite conte Folke Bernadotte nel 1948, perché non erano d'accordo con la sua proposta sullo status internazionale di Gerusalemme.
Nè gli esecutori di questi atti erano tutti estremisti: ai leader del piano omicida fu concessa un'amnistia, ed uno di essi fu eletto alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt].
Inoltre, Shamir ha apertamente dichiarato che «né l'etica israeliana, né la tradizione escludono il terrorismo come strumento di lotta».
Infatti il terrorismo «ha svolto un ruolo importante nella nostra guerra contro gli occupanti britannici».
Se l'uso del terrorismo da parte dei palestinesi oggi è moralmente censurabile, allo stesso modo lo era a suo tempo quello israeliano; pertanto non è possibile giustificare il supporto agli israeliani in base alla tesi che la loro condotta morale passata sia stata moralmente superiore.
Israele forse non si è comportata in maniera peggiore di altri Paesi, ma sicuramente la sua condotta non è stata migliore.
E quindi se né le argomentazioni strategiche, né quelle morali possono giustificare il sostegno americano ad Israele, come possiamo spiegarcelo?
La spiegazione consiste nella ineguagliata potenza della lobby israeliana.
Se non fosse per la capacità della lobby di manipolare il sistema politico americano, le relazioni fra Israele e gli Stati Uniti sarebbero molto meno profonde rispetto a quelle attuali.
Che cos'è la lobby?
Con il termine «lobby» indichiamo un'ampia coalizione di individui ed organizzazioni che lavorano attivamente per indirizzare la politica estera americana in una direzione favorevole ad Israele. Questa definizione non implica che «la lobby» sia un unico movimento con una leadership centralizzata, o che i suoi componenti non si trovino in disaccordo su certi temi.
Il nucleo della lobby è formato da ebrei americani che nelle loro attività quotidiane cercano di fare in modo che la politica estera americana promuova gli interessi di Israele.
Le loro attività vanno oltre il semplice voto per i candidati pro-israeliani, ed includono articoli giornalistici, contributi finanziari e supporto per le organizzazioni pro-Israele.
Ma non tutti gli ebrei americano fanno parte della lobby, visto che Israele non riveste particolare importanza per molti di loro.
Un sondaggio del 2004 rivela, infatti, che circa il 36% degli ebrei americani risulta «non molto» o «per niente» legato ad Israele.
Gli ebrei americani inoltre hanno opinioni divergenti su alcune politiche israeliane.
Molte delle organizzazioni chiave della lobby, come l'AIPAC oppure la «Conferenza dei Presidenti delle Maggiori Organizzazioni Ebraiche (CPMJO) » sono capeggiate da estremisti che generalmente supportano le politiche espansionistiche del partito israeliano Likud, compresa la sua ostilità nei confronti degli accordi di pace di Oslo.
La maggioranza degli ebrei americani, invece, è più favorevolmente disposta a fare concessioni ai palestinesi ed alcuni gruppi - come la Jewis Voice for Peace - si battono per ottenerle.
Al di là di queste differenze, sia gli estremisti che i moderati sono favorevoli al costante supporto fornito dagli USA ad Israele.
Come conseguenza, i leader ebrei americani spesso si consultano con i dirigenti israeliani, in modo da poter massimizzare la propria influenza negli Stati Uniti.
Un attivista di una delle maggiori organizzazioni ebraiche ha scritto: «è consuetudine per noi dire: 'Questa è la nostra opinione sull'argomento, ma dobbiamo vedere cosa ne pensano gli israeliani'. Noi come comunità lo facciamo di continuo».
C'è inoltre una forte consuetudine che impedisce di criticare la politica israeliana, ed i leader ebrei americani raramente sostengono chi fa pressioni su Israele.
Infatti Edgar Bronfman, presidente del «World Jewish Congress», fu accusato di slealtà quando scrisse una lettera al presidente Bush nel 2003 raccomandandogli di fare pressioni su Israele affinché frenasse la costruzione del controverso muro di sicurezza.
I critici dichiararono che «sarebbe disdicevole per il presidente del 'World Jewish Congress' cercare di convincere il presidente degli Stati Uniti a contrastare delle politiche promosse dal governo israeliano».
Similmente, quando il presidente dell'Israel Policy Forum, Seymour Reich, consigliò al Segretario di Stato Condoleezza Rice di fare pressioni su Israele affinché riaprisse un importante punto di transito sul confine della Striscia di Gaza nel novembre 2005, i critici lo accusarono di «comportamento irresponsabile» e dichiararono che «non c'è spazio nel movimento ebraico
per discussioni contrarie alle politiche di sicurezza di Israele».
Per difendersi da questi attacchi, Reich disse che «la parola 'pressione' non è nel mio vocabolario quando si parla di Israele».
Gli ebrei americani hanno dato vita ad un numero impressionante di organizzazioni per influenzare la politica estera americana, delle quali la più importante e potente è l'AIPAC.
Nel 1997 la rivista Fortune chiese ai membri del Congresso ed ai loro staff quali fossero le lobby più potenti a Washington.
L'AIPAC risultò al secondo posto, dietro l'Associazione dei Pensionati (AARP) ma davanti a potenti lobby come la AFL-CIO e la National Rifle Association.
Uno studio del National Journal del marzo 2005 ha fornito conclusioni simile, piazzando l'AIPAC al secondo posto (vicina all'AARP).
La lobby include inoltre primari esponenti del movimento Cristiano Evangelico come Gary Bauer, Jerry Falwell, Ralph Reed, e Pat Robertson, ed inoltre Dick Armey e Tom DeLay, leader di maggioranza nella Camera dei Rappresentanti.
Credono che la rinascita di Israele sia una parte di una profezia biblica, supportano le sue politiche espansionistiche, e pensano che fare pressioni su Israele sia contrario alla volontà di Dio.
Inoltre fra i membri della lobby ci sono esponenti neoconservatori come John Bolton, il precedente editore del Wall Street Journal, Robert Bartley, l'ex Segretario all'Educazione William Bennet, l'ex ambasciatore alle Nazioni Unite Jeanne Kirkpatrick e l'opinionista Gorge Will.
Le fonti del Potere.
Gli Stati Uniti hanno una forma articolata di governo che offre molte strade per influenzare il processo politico.
Come conseguenza, i gruppi di interesse possono agire in molti modi - cercando di influenzare i rappresentanti eletti ed i membri dell'esecutivo, facendo campagne di contributi, votando nelle elezioni, plasmando la pubblica opinione.
Inoltre, particolari gruppi di interesse dispongono di un enorme potere quando si concentrano su una questione rispetto alla quale la maggioranza della popolazione è indifferente.
I politici hanno la tendenza ad accontentare chi si preoccupa di tali questioni, anche se sono in pochi, dal momento che pensano che la popolazione non li penalizzerà.
Il potere della lobby ebraica deriva dalla sua ineguagliata abilità nel gioco della politica.
Nelle sue attività di base, non si comporta diversamente dalla lobby degli agricoltori, da quella dei lavoratori metalmeccanici o del tessile, oppure dalle altre lobby etniche.
Quello che la distingue è la sua straordinaria efficacia.
Non c'è nulla di censurabile nel fatto che gli ebrei americani ed i loro alleati cristiani tentino di influenzare la politica americana verso gli interessi di Israele.
Le attività della lobby non rappresentano una cospirazione come quella descritta nei Protocolli dei Savi di Sion.
Per la maggior parte, le persone e le organizzazioni che formano la lobby fanno esattamente le stesse attività degli altri gruppi di interesse, soltanto molto meglio.
Inoltre, i gruppi di interesse pro-arabi sono deboli o non esistono, cosa che rende il compito della lobby ancora più facile.
Strategie per il successo.
La lobby persegue due principali strategie per promuovere il supporto americano nei confronti di Israele.
Primo, esercita una significativa influenza a Washington, facendo pressioni sia sul Congresso che sul Governo.
Qualunque siano le opinioni di un politico, la lobby cerca di far apparire il sostegno ad Israele la scelta politica vincente.
Secondariamente, la lobby cerca di fare in modo che Israele sia dipinto favorevolmente nei confronti dell'opinione pubblica, ripetendo i miti su Israele e la sua fondazione, e pubblicizzando le idee politiche israeliane.
L'obiettivo è quello di impedire che le critiche ad Israele ottengano una vasta eco nell'arena politica.
Il controllo del dibattito politico è essenziale per garantire il supporto americano, in quanto una libera discussione delle relazioni israelo-americane potrebbe portare gli Stati Uniti ad adottare politiche diverse.
Influenzare il Congresso.
Una pilastro centrale dell'efficacia della lobby è la sua influenza sul Congresso, luogo in cui Israele è virtualmente immune da ogni critica.
Questa è già una condizione degna di nota, in quanto il Congresso non è quasi mai «timido» nei confronti di questioni controverse. Che si tratti di aborto, salute, discriminazioni, welfare, c'è sempre un acceso dibattito al Capitol Hill.
Quando si tratta di Israele, invece, i potenziali critici se ne stanno in silenzio è non c'è praticamente alcun dibattito.
Una delle ragioni del successo della lobby al Congresso è che alcuni suoi membri sono Cristiani Sionisti come Dick Armey, che affermò nel settembre 2002 che «la mia priorità numero uno in politica estera è quella di proteggere Israele».
Si potrebbe pensare che la priorità numero uno per un membro del Congresso sia quella di «proteggere gli Stati Uniti», ma non è ciò che Armey ha affermato.
Vi sono anche diversi senatori e membri del congresso ebrei che cercano di influenzare la politica estera americana in favore di Israele.
Il personale pro-israele che lavora al Congresso è un'altra sorgente del potere della lobby, come disse Morris Amitay, già capo dell'AIPAC: «ci sono molte persone che lavorano a Capitol Hill…che sono ebrei e vedono certe questione con occhio favorevole ad Israele… Sono tutte persone che possono decidere per i senatori… E' possibile ottenere molto a questo livello».
E' la stessa AIPAC, comunque, che rappresenta il «cuore» dell'influenza della lobby sul Congresso.
Il successo dell'AIPAC è dovuto alla sua abilità a ricompensare i parlamentari che supportano i loro programmi, e di punire quelli che vi si oppongono.
I soldi sono un elemento essenziale per le elezioni americane (come il recente scandalo riguardante gli oscuri affari del lobbyista Jack Abramoff ci ricorda), e l'AIPAC fa in modo che i propri candidati «amici» ricevano un forte supporto finanziario dalla miriade dei comitati politici pro-israeliani.
Per quanto riguarda i candidati che sono considerati ostili ad Israele, l'AIPAC fa in modo che i finanziamenti vadano ai loro oppositori.
L'AIPAC inoltre organizza campagne di stampa ed incoraggia i giornali ad appoggiare candidati pro-Israele.
Non vi sono dubbi sull'efficacia di tali tattiche.
Per fare un esempio, nel 1984 l'AIPAC contribuì alla sconfitta del senatore Charles Percy dell'Illinois, il quale, secondo un importante membro della lobby, «si era dimostrato insensibile e perfino ostile ai nostri interessi».
Thomas Dine, al vertice dell'AIPAC in quel periodo, spiegò cosa era successo: «tutti gli ebrei d'America, da costa a costa, si sono coalizzati per estromettere Percy. Ed i politici americani, quelli che adesso occupano posizioni pubbliche, e quelli che aspirano a farlo, hanno capito il messaggio».
L'AIPAC mette in campo la propria reputazione alla stregua di un formidabile avversario, scoraggiando così i candidati ad opporsi ai suoi programmi.