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    Post La lobby israeliana e la politica estera USA

    Iniziamo col presentare il professor J. Mearsheimer, docente al Department of Political Science University of Chicago
    [Cominciamo la pubblicazione a puntate del saggio che ha messo a rumore l'America.
    Ne sono autori John J. Mearsheimer, docente al Department of Political Science University of Chicago e Stephen M. Walt, docente alla John F. Kennedy School of Government Harvard University.
    Il loro studio è stato pubblicato sul sito di Harvard, ma con la seguente avvertenza: «
    gli autori di questa bozza sono i soli responsabili delle opinioni ivi espresse. L'Università di Harvard e l'Università di Chicago, in quanto istituzioni accademiche, non prendono posizione sulle opinioni espresse dai ricercatori, e pertanto il presente articolo non deve essere interpretato come rappresentativo della posizione ufficiale delle suddette istituzioni»].
    La traduzione è di Sebastiano Suraci, che ringraziamo.




    La politica estera degli USA estende la propria influenza in ogni angolo del pianeta.
    Questo è vero in particolar modo nell'area mediorientale, una regione che presenta croniche instabilità e riveste enorme importanza strategica.
    Recentemente, il tentativo dell'Amministrazione Bush di trasformare tale regione in una comunità di democrazie ha favorito l'insorgere di una tenace ribellione in Iraq, ha causato la rapida ascesa del prezzo del petrolio ed ha ispirato gli attacchi terroristici a Madrid, Londra ed Amman. Considerate quindi le importanti conseguenze di tale politica, tutti i Paesi dovrebbero essere consapevoli di quali sono le forze che la indirizzano.
    L'interesse nazionale americano dovrebbe essere l'obiettivo primario della politica estera.
    Nei passati decenni, invece, e specialmente dai tempi della «Guerra dei Sei Giorni» nel 1967, il motivo dominante della politica USA in Medio Oriente è stato il suo rapporto con Israele.
    La combinazione del fermo e deciso supporto allo Stato ebraico e lo sforzo per portare la democrazia nella regione mediorientale hanno infiammato il mondo arabo ed islamico e messo a repentaglio la sicurezza nazionale americana.
    Questa situazione non ha precedenti nella storia politica americana.
    Perché gli Stati Uniti hanno deciso di trascurare la propria sicurezza per promuovere gli interessi di un altro Stato?
    Si potrebbe assumere che il legame fra i due Paesi è fondato su importanti interessi strategici o su primari valori etici.
    Come mostriamo nel seguito nessuna di queste due argomentazioni può giustificare il livello di supporto materiale e diplomatico che gli USA forniscono ad Israele.




    Invece, la spinta propulsiva sulla politica estera USA in tale regione è quasi interamente dovuta alla politica interna, e specialmente alle attività della «lobby ebraica».
    Altri gruppi di potere sono riusciti in passato a deviare la politica estera americana verso posizioni a loro favorevoli, ma nessuna lobby è mai riuscita a farla divergere così tanto dalla direzione che l'interesse nazionale americano suggerirebbe, riuscendo allo stesso tempo a convincere l'opinione pubblica che gli interessi di USA ed Israele sono pressoché coincidenti.
    Nelle pagine che seguono, dimostriamo come la lobby sia riuscita in questo scopo e come la loro attività abbiano influenzato le azioni dell'America in tale regione.
    Data l'importanza strategica del Medio Oriente e le potenziale conseguenze su altri Paesi, sia gli americani che gli stranieri dovrebbero capire ed interessarsi dell'influenza della lobby sulla politica USA.
    Alcuni lettori troveranno sgradevole questa analisi, ma i fatti riportati sono pressoché assodati nel mondo accademico.
    Infatti il nostro lavoro si basa estensivamente sul lavoro di studiosi e giornalisti israeliani, ai quali va riconosciuto il grande merito di aver portato alla luce tali questioni.
    Ci siamo inoltre avvalsi dei contributo di importante organizzazioni umanitarie, rispettate da Israele e dalla Comunità Internazionale.
    Similmente, i nostri rilievi sull'impatto della lobby si fondano sulle testimonianze degli stessi membri della lobby, e di politici che hanno lavorato con loro.
    I lettori potranno non accettare le nostre conclusioni, ma i fatti su cui esse si basano non sono opinabili.





    Il Grande Benefattore.
    Sin dai tempi della Guerra d'Ottobre del 1973 (la Guerra del Kippur, ndt), Washington ha fornito ad Israele una mole di aiuti tale da rendere insignificante il supporto fornito a qualunque altro Stato. Esso (Israele, ndt) è stato dal 1976 in poi il maggior beneficiario degli aiuti economici e militari diretti forniti annualmente dagli USA, e dal dopoguerra in poi ha ricevuto complessivamente più aiuti di qualsiasi altro Paese.
    Tale somma ammonta ad oltre 140 miliardi di dollari equivalenti del 2003.
    Israele riceve circa 3 miliardi di dollari in aiuti diretti ogni anno, ovvero circa un quinto dell'intero budget USA per il sostegno ai Paesi stranieri.
    In termini pro-capite, gli Stati Uniti sostengono ogni cittadino israeliano con circa 500 dollari l'anno.
    Questa generosità risulta particolarmente sorprendente in quanto Israele è attualmente un ricco Stato industriale con un reddito pro-capite pari a quello della Corea del Sud o della Spagna.
    Israele riesce inoltre ad ottenere accordi molto speciali con Washington.
    Gli altri Paesi beneficiari degli aiuti americani ricevono le somme in rate quadrimestrali, mentre Israele riceve l'intero ammontare all'inizio dell'anno fiscale, guadagnando così un ulteriore interesse.




    Inoltre molti degli Stati che ricevono sostegno militare dagli USA sono costretti ad utilizzare le somme ottenute per acquisti da fornitori americani, mentre Israele può impiegare il 25% dei fondi che riceve a sostegno la propria industria bellica.
    Israele è l'unico beneficiario che non ha l'obbligo di rendicontare le proprie spese, cosa che rende praticamente impossibile impedire che le somme ricevute siano spese per obiettivi a cui gli Stati Uniti si oppongono, come ad esempio la costruzione di insediamenti nella West Bank.
    Inoltre, gli USA hanno fornito ad Israele circa 3 miliardi di dollari per sviluppare armamenti come il caccia Lavi, che al Pentagono non serviva, dando a Israele libero accesso ai più sofisticati armamenti USA, come l'elicottero BlackHawk ed i jet F16.
    Infine, gli Stati Uniti hanno fornito ad Israele informazioni di intelligence che negano agli alleati della NATO, ed hanno sempre chiuso un occhio riguardo allo sviluppo di armamenti nucleari da parte dello Stato ebraico.
    In aggiunta a questo, Washington ha sempre fornito ad Israele un forte appoggio diplomatico.
    Fin dal 1982, gli Stati Uniti hanno posto il veto a ben 32 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU critiche verso Israele, un numero maggiore della somma di tutti i veti mai posti dagli altri membri di tale Consiglio.
    Gli USA hanno anche bloccato il tentativo dei Paesi arabi di porre l'arsenale atomico israeliano sotto il controllo dell'AIEA (Atomic International Energy Agency).




    Gli Stati Uniti inoltre vengono in aiuto di Israele in tempo di guerra, e si schierano sistematicamente a loro fianco nei negoziati di pace.
    L'Amministrazione Nixon ha rifornito Israele durante la Guerra del Kippur, e l'ha protetto dalla minaccia di un intervento sovietico.
    Washington è stata profondamente coinvolta nei negoziati successivi a tale guerra e nel lento processo «passo-a-passo» che ne seguì, proprio come giocò un ruolo chiave nei negoziati precedenti e successivi agli accordi di Oslo del 1993.
    Ci furono talvolta delle divergenze tra i rappresentati americani ed israeliani in entrambe
    le occasioni, ma gli Stati Uniti coordinarono costantemente le proprie posizioni con Israele
    e supportarono la loro linea negoziale.
    Per questo, un rappresentate americano a Camp David nel 2000 più tardi disse:
    «
    troppo spesso, ci comportavamo … come gli avvocati di Israele»



    Come argomentato nel seguito, Washington ha lasciato mano libera ad Israele nella gestione dei territori occupati (la West Bank e la Striscia di Gaza), anche quando le loro iniziative erano contrarie alla linea politica USA.
    Inoltre, l'ambizione dell'Amministrazione Bush di trasformare il Medio Oriente - cominciando con l'invasione dell'Iraq - è almeno in parte dettata dal desiderio di rafforzare il ruolo strategica di Israele.
    Al di là delle alleanze in tempo di guerra, è difficile pensare ad un'altra situazione in cui uno Stato ha fornito ad un altro un simile livello di aiuto militare e diplomatico, per un periodo tanto lungo.
    Il supporto che l'America fornisce ad Israele è, in breve, unico.
    Questa straordinaria generosità sarebbe giustificabile se Israele fosse una risorsa vitale e strategica per gli USA, oppure se fosse fondata su basi etiche di primaria importanza.
    Ma nessuna di queste due spiegazioni è convincente.

    Secondo il sito web dell’American Israeli Public Affaire Committee (AIPAC), «gli Stati Uniti ed Israele hanno dato vita ad una speciale partnership strategica per affrontare le crescenti minacce in Medio Oriente…Questo sforzo congiunto porta significativi vantaggi ad entrambi gli Stati».
    Tale argomento è un «credo politico» per i sostenitori di Israele ed è continuamente richiamato sia dai politici israeliani che da quelli americani pro-Israele.
    Israele poteva rappresentare una risorsa strategica durante la Guerra Fredda: svolgendo la funzione di «rappresentante» degli USA dopo la Guerra dei Sei Giorni (1967), Israele contribuì a contenere l’espansione sovietica nella regione, ed inflisse umilianti sconfitte a Paesi dell’orbita sovietica come l’Egitto e la Siria.
    Israele talvolta contribuì a proteggere altri alleati degli Stati Uniti (come ad esempio Re Hussein di Giordania) e la sua forza militare costrinse Mosca a notevoli sforzi per sostenere i propri partner in difficoltà.
    Israele inoltre fornì agli Stati Uniti importanti informazioni di intelligence riguardo alle potenzialità della Russia.
    Il ruolo strategico di Israele durante quel periodo non deve però essere sovrastimato.
    Il sostegno ad Israele fu costoso, e complicò le relazioni degli USA con il mondo arabo.
    Ad esempio, la decisione di fornire ad Israele 2.2 miliardi di dollari in aiuti militari urgenti durante la Guerra del Kippur causò l’embargo petrolifero da parte dell’OPEC, cosa che ebbe notevoli ripercussioni negative su tutte le economie occidentali.
    Inoltre, l’esercito israeliano non riuscì a proteggere gli interessi americani nella regione.
    Ad esempio, gli Stati Uniti non poterono fare affidamento su Israele quando la rivoluzione iraniana del 1979 fece nascere preoccupazioni sulla sicurezza delle forniture petrolifere nel Golfo Persico, e furono costretti a creare una propria Forza di Intervento Rapido.




    Anche se Israele rappresentò una risorsa strategica ai tempi della Guerra Fredda, la prima Guerra del Golfo fece emergere il fatto che Israele, dal punto di vista strategico, stava diventando un peso.
    Gli Stati Uniti non poterono usare le basi israeliane durante la guerra per il timore di spaccature nella coalizione anti-Iraq, e dovettero impiegare importanti risorse (per esempio le batterie di missili Patriot) per assicurarsi che Tel Aviv non facesse nulla che potesse compromettere l’alleanza anti Saddam.
    La storia si è ripetuta nel 2003: benché Israele fosse ben felice che gli Stati Uniti muovessero guerra all’Iraq, Bush non poté chiedere il loro aiuto senza scatenare l’opposizione araba.
    Così Israele rimase nuovamente nelle retrovie.
    Dagli anni ‘90, e specialmente dopo l’11 settembre, il supporto USA nei confronti di Israele è stato giustificato dall’assunto che entrambi gli Stati sono minacciati dai gruppi terroristi islamici e da una serie di «Stati canaglia» che appoggiano questi gruppi e che cercano di procurarsi armi di distruzione di massa.
    Questa analisi implica che Washington dovrebbe lasciare ad Israele carta bianca nel gestire i palestinesi, senza fare pressioni sullo Stato ebraico riguardo a concessioni finché tutti i terroristi palestinesi non sono morti o in galera.
    Inoltre, questa teoria implica anche che gli Stati Uniti dovrebbero intervenire contro Paesi come la Repubblica Islamica dell’Iran, l’Iraq di Saddam Hussein e la Siria di Bashar al Assad. Israele è quindi considerato un alleato fondamentale nella guerra contro il terrorismo, perché i suoi nemici sono i nemici dell’America.
    Anche se questi ragionamenti sembrano convincenti, in realtà Israele è un fardello nella guerra al terrorismo e nel tentativo più ampio di confrontarsi con gli «Stati canaglia».




    Tanto per cominciare, il «terrorismo» è una tattica utilizzata da un’ampia schiera di gruppi politici: non è un avversario unico.
    Le organizzazioni terroristiche che minacciano Israele (per esempio Hamas, Hezbollah) non rappresentano un pericolo per l’America, eccetto se questa li attacca (come in Libano nel 1982).
    Inoltre, il terrorismo palestinese non è costituito da attacchi gratuiti contro Israele o contro «l’Occidente», ma rappresenta la risposta alla campagna di colonizzazione israeliana della West Bank (Cisgiordania, ndt) e della Striscia di Gaza.
    Ancora più importante, affermare che gli Stati Uniti ed Israele sono uniti contro un’unica minaccia terroristica rovescia la relazione causa-effetto: piuttosto, gli Stati Uniti subiscono la minaccia terroristica proprio perché sono stretti alleati di Israele.
    Il supporto per Israele non è l’unica causa del terrorismo anti-americano, ma ne rappresenta una motivazione importante, e rende più difficile la vittoria nella guerra al terrore.
    Non c’è dubbio, infatti, che molti leader di Al Quaeda, incluso Bin Laden, sono motivati dalla presenza di Israele a Gerusalemme e dalle condizioni in cui versa il popolo palestinese. Secondo la commissione che ha indagato sull’11 settembre, Bin Laden voleva esplicitamente punire gli Stati Uniti per le loro politiche in Medio Oriente, incluso il supporto ad Israele, ed ha anche cercato di organizzare gli attacchi in modo da sottolinearlo.
    Inoltre, il supporto incondizionato che gli Stati Uniti forniscono ad Israele rende più semplice agli estremisti come Bin Laden raccogliere il favore delle masse ed attirare nuove reclute.
    Sondaggi di opinione confermano che le popolazioni arabe sono profondamente ostili al supporto americano nei confronti di Israele, ed il Comitato Consultivo sulle politiche per gli arabi ed i musulmani del Dipartimento di Stato ha riscontrato che «
    i cittadini di questi Paesi sono sinceramente addolorati dalla situazione palestinese e dal ruolo che gli Stati Uniti svolgono».



    Per quanto riguarda i cosiddetti «Stati canaglia» del Medio Oriente, questi non rappresentano una minaccia diretta agli interessi vitali degli Stati Uniti, a parte l’alleanza con Israele stesso. Sebbene esistano alcuni motivi di contesa con questi regimi, il livello di preoccupazione che Washington manifesta nei confronti dell’Iran, dell’Iraq Baathista e della Siria non sarebbe sicuramente così elevato se l’America non avesse così stretti legami con Israele.
    Anche se questi Stati si dotassero di armi nucleari - cosa ovviamente non desiderabile - dal punto di vista strategico non sarebbe un dramma per gli Stati Uniti.
    Né l’America né Israele potrebbero subire un ricatto nucleare, perché l’eventuale Stato ricattatore non potrebbe porre in essere la sua minaccia senza esporsi ad una devastante rappresaglia.
    Il pericolo poi che uno «Stato canaglia» fornisca tali armi a gruppi terroristi è similmente remoto, in quanto tale Stato non potrebbe esser certo che il traffico rimanga segreto, rischiando quindi una violenta rappresaglia in seguito.
    Inoltre, gli stretti legami con Israele rendono più difficile per gli Stati Uniti gestire questi Stati. L’arsenale nucleare israeliano rappresenta uno dei motivi principali per cui gli Stati vicini desiderano dotarsi di armi nucleari, e le minacce ad essi rivolti non fanno altro che aumentare tale desiderio.
    E poi Israele non rappresenta una risorsa quando si tratta di muoversi contro tali Stati, in quanto non può prender parte ai combattimenti.
    In breve, considerare Israele come il principale alleato nella guerra contro il terrorismo e contro i vari regimi mediorientali ha l’effetto di sovrastimare l’aiuto che Israele può fornire in tali questioni e di ignorare che la politica di Israele rende più difficoltosi gli sforzi USA.

    Supportare in maniera acritica Israele inoltre indebolisce la posizione USA al di fuori del Medio Oriente.
    Presso gli altri Paesi è infatti diffusa l’opinione che gli Stati Uniti siano troppo schierati a favore di Israele e che la tolleranza dimostrata nei confronti della repressione israeliana dei territori occupati è moralmente inaccettabile e controproducente ai fini della guerra al terrorismo.
    Nell’aprile del 2005, ad esempio, 52 ex diplomatici britannici hanno inviato al Primo ministro Tony Blair una lettera dicendo che il conflitto israelo-palestinese ha «avvelenato le relazionifra l’Occidente ed il mondo arabo» ed ammonendo che le politiche di Bush e Sharon erano «
    di parte ed illegali»
    Un’ultima ragione per mettere in discussione il valore strategico del rapporto con Israele, è che esso non agisce come un alleato leale.
    Alti dirigenti israeliani ignorano spesso le richieste americani e rinnegano le promesse fatte ai maggiori leader nel nostro Paese (ad esempio il recente impegno di fermare la costruzione di colonie e di astenersi dagli «assassinii mirati» dei leader palestinesi).
    Inoltre Israele ha fornito importanti tecnologie USA a potenziali avversari come la Cina, in quello che l’Ispettore Generale del Dipartimento di Stato ha definito «
    un sistematico e crescente sistema di cessioni non autorizzate».



    Secondo il «General Accounting Office» degli Stati Uniti, Israele ha condotto nei confronti degli USA le azioni di spionaggio più aggressive rispetto a tutti gli altri alleati.
    In aggiunta al caso di Jonathan Pollard, che fornì ad Israele importanti informazioni riservate nei primi anni ‘80 (informazioni che Israele pare abbia girato ai sovietici in cambio di visti di ingresso per gli ebrei russi), una nuova controversia è emersa nel 2004, quando fu accertato che un alto ufficiale del Pentagono (Larry Franklin) passò informazioni riservate ad un diplomatico israeliano, presumibilmente aiutato da due membri dell’AIPAC.
    Israele non è certo l’unico Paese che svolge azioni di spionaggio contro gli Stati Uniti, ma la sua ostinazione in tal senso getta ulteriori dubbi sul suo valore strategico.

    Una debole giustificazione morale.
    A parte il presunto ruolo strategico, i sostenitori di Israele affermano che esso merita il sostegno incondizionato da parte degli Stati Uniti perché
    1) è debole e circondato da nemici;
    2) è una democrazia, forma preferibile di governo dal punto di vista morale;
    3) gli ebrei, in passato, hanno sofferto a causa di molte persecuzioni e quindi devono essere trattati
    in maniera speciale;
    4) la condotta morale di Israele è stata moralmente superiore a quella dei suoi avversari;
    Ad un esame attento, però ciascuno di questi argomenti è poco convincente.
    C'è un forte argomento morale per difendere il diritto di Israele ad esistere, ma tale diritto non è in pericolo.
    Una visione obiettiva della condotta di Israele non offre alcuna base morale per privilegiarlo rispetto ai Palestinesi.




    Supportare il perdente?
    Israele è spesso rappresentato come debole ed indifeso, un David ebraico circondato da un ostile Golia arabo.
    Questa immagine è stata coltivata con cura dai leader israeliani e dai commentatori simpatizzanti, ma invece è l'esatto opposto di questa tesi ad avvicinarsi alla verità.
    Contrariamente a quanto si crede, i sionisti hanno avuto l'esercito più numeroso, meglio equipaggiato e meglio guidato durante la guerra d'indipendenza del 1947-49, e le forze di difesa israeliane vinsero facilmente contro l'Egitto nel 1956 e contro Egitto, Siria e Giordania nel 1967, prima che gli aiuti americani arrivassero su larga scala.
    Queste vittorie offrono una prova eloquente del patriottismo israeliano, della loro abilità organizzativa e forza militare, ma allo stesso tempo rivelano che Israele era tutt'altro che indifeso fin dai sui primi anni.




    Attualmente, Israele è la più grande potenza militare del Medio Oriente.
    Le sue forze convenzionali sono superiori a quelle dei vicini, ed è l'unico Stato dotato di armi nucleari.
    Egitto e Giordania hanno firmato trattati di pace con Israele, ed anche l'Arabia Saudita si è dichiarata disponibile in tal senso.
    La Siria ha perso il suo alleato sovietico, l'Iraq è stato devastato da tre guerre disastrose, e l'Iran è lontano centinaia di miglia.
    I palestinesi hanno a malapena una forza di polizia, e non è pensabile che il loro esercito possa minacciare Israele.
    Secondo una ricerca del prestigioso «Jaffee Center for Strategic Studies», presso l'Università di Tel Aviv: «
    il bilancio strategico favorisce decisamente Israele, il quale ha continuato ad aumentare il divario qualitativo fra le proprie capacità militari e quelle dei vicini».
    Se l'idea di supportare il debole rappresentasse un interesse primario per l'America, gli Stati Uniti dovrebbero schierarsi con gli avversari di Israele.




    Aiutare una Democrazia?
    Il supporto americano è spesso giustificato dalla tesi secondo cui Israele è un baluardo della democrazia circondato da dittature ostili.
    Questo ragionamento sembra convincente, ma non può giustificare l'attuale livello di aiuti americani.
    Dopo tutto, ci sono molte democrazie nel mondo, ma nessuna di queste riceve il generoso sostegno che gli Stati Uniti forniscono ad Israele.
    Gli USA hanno sovvertito governi eletti democraticamente in passato, e sostenuto dittatori quando questo era ritenuto nel loro interesse; inoltre attualmente hanno buone relazioni con numerose dittature.
    Pertanto il fatto che Israele sia una democrazia non giustifica né spiega il livello di supporto che riceve dagli USA.
    L'argomento della «democrazia condivisa» inoltre è indebolito da alcuni aspetto dell'assetto democratico israeliano, che sono contrari ai valori di base dell'America.
    Gli Stati Uniti sono infatti una democrazia liberale in cui i cittadini di ogni razza, religione o gruppo etnico godono degli stessi diritti. Al contrario, Israele è stato esplicitamente fondato come Stato ebraico e la cittadinanza è basata sui legami di sangue.




    Considerata questa idea di cittadinanza, non c'è da sorprendersi che 1,3 milioni di arabi israeliani siano trattati come cittadini di seconda classe, oppure che recentemente una commissione governativa israeliana abbia sentenziato che Israele si comporta in maniera «noncurante e discriminatoria» nei loro confronti.
    Ugualmente, Israele non permette ai palestinesi che sposano cittadini israeliani di ottenere la cittadinanza, e non danno allo sposo straniero il diritto a vivere in Israele.
    L'organizzazione israeliana per i
    diritti civili B'tselem ha definito questa restrizione «una legge razzista che determina il diritto a vivere qui secondo criteri razzisti».
    Questo può essere comprensibile considerando i principi fondatori di Israele, ma non è compatibile con l'idea americana di democrazia.
    Lo status democratico di Israele è inoltre indebolito dal rifiuto di riconoscere ai palestinesi il diritto ad uno Stato dignitoso ed indipendente.
    Israele controlla la vita di 3,8 milioni di palestinesi a Gaza ed in Cisgiordania, mentre prosegue a colonizzare delle terre dove i palestinesi hanno abitato da lungo tempo.
    Israele è formalmente democratico, ma ai milioni di Palestinesi che controlla sono negati pieni diritti politici, pertanto l'argomento della «democrazia condivisa» è fortemente indebolito.

    Compensazione per le passate persecuzioni
    Una terza giustificazione morale si basa sulla passata persecuzione degli ebrei ad opera dell'Occidente cristiano, in particolare il tragico evento dell'olocausto.
    Dal momento che gli ebrei sono stati perseguitati per secoli e possono sentirsi sicuri soltanto all'interno del loro Stato, molto credono che Israele meriti un trattamento speciale da parte degli Stati Uniti.
    Non c'è dubbio che gli ebrei abbiano sofferto molto a causa dello spregevole retaggio dell'antisemitismo, e che la creazione dello Stato di Israele sia stata una risposta adeguata ad una lunga serie di criminali persecuzioni.
    Ma la creazione di Israele ha anche comportato ulteriori crimini contro un popolo largamente innocente ed indifeso: i Palestinesi.
    La storia di questi eventi è nota.
    Quando il movimento Sionista ebbe luce, nel tardo 19 secolo, erano presenti soltanto circa 15.000 ebrei in Palestina.
    Nel 1893, ad esempio, gli arabi costituivano circa il 95% della popolazione, e benché sotto dominazione ottomana, abitavano quelle terre da ben 1300 anni.
    Anche quando Israele fu fondato, gli ebrei erano circa il 35% della popolazione e possedevano il 7% delle terre.




    La leadership sionista non era interessata alla creazione di uno Stato bi-nazionale e non avrebbe mai approvato una divisione permanente della Palestina.
    Tale divisione fu inizialmente accettata come primo passo, ma si trattò di una manovra tattica che non rispecchiava le intenzioni reali.
    Come David Ben Gurion disse verso la fine degli anni 30, «
    dopo la creazione di un potente esercito a sostegno dello Stato, rinnegheremo la divisione e ci espanderemo su tutta la Palestina».
    Per raggiungere tale obiettivo, i sionisti dovevano deportare un grande numero di arabi fuori dai territori dove sarebbe sorto Israele.
    Non c'era alcuna alternativa.
    Ben Gurion era ben consapevole del problema, e scrisse nel 1941 che «
    era impossibile immaginare uno spostamento di massa [della popolazione araba] senza una brutale coercizione».
    Oppure come disse lo storico israeliano Benny Morris: «
    l'idea del trasferimento è antica quanto il moderno movimento sionista, e lo ha accompagnato nella sua evoluzione durante l'ultimo secolo».



    L'occasione si presentò nel 1947-48, quando gli ebrei costrinsero 700.000 palestinesi all'esilio.
    I rappresentanti israeliani hanno sempre sostenuto che gli arabi se ne andarono perché i loro leader dissero loro di andarsene, ma un'attenta ricerca (condotta principalmente da storici israeliani come Morris), ha demolito questo mito.
    Infatti la maggior parte dei leader arabi raccomandò alla gente di rimanere nelle proprie case, ma la paura di una morte violenta per mano dei sionisti convinse molti arabi a scappare.
    Dopo la guerra, Israele impedì il ritorno dei profughi palestinesi.
    Il fatto che la creazione dello Stato di Israele implicava un crimine morale ai danni dei palestinesi era ben noto ai leader israeliani.
    Infatti Ben Gurion disse a Nahum Goldmann, presidente del World Jewish Congress, «
    se fossi un leader arabo non farei mai accordi con Israele. Questo è naturale: abbiamo occupato il loro Paese. Noi veniamo da Israele, ma ciò accadeva duemila anni or sono, e loro cosa c'entrano? C'è stato l'antisemitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma loro che colpa
    ne hanno? Loro vedono solo questo: noi siamo arrivati ed abbiamo rubato la loro terra. Perché dovrebbero accettarlo?
    ».



    Da allora, i leader israeliani hanno ripetutamente cercato di rinnegare l'ambizione dei palestinesi di avere uno Stato.
    Il primo ministro Golda Meir arrivò a dire che «
    non esiste qualcosa chiamato Palestina», ed anche il primo ministro Yitzhak Rabin, che nel 1993 firmò gli accordi di Oslo, si oppose alla creazione di uno Stato palestinese indipendente.
    Le pressioni da parte degli estremisti ed il crescente livello della popolazione palestinese hanno costretto i leader israeliani a ritirarsi da alcuni dei territori occupati e a cercare dei compromessi territoriali, ma nessun governo israeliano ha concesso ai palestinesi un proprio Stato.
    Anche l'offerta a quanto pare generosa del primo ministro Ehud Barak a Camp David nel luglio del 2000 prevedeva uno Stato palestinese disarmato e smembrato in una serie di «Bantustans», di fatto sotto il controllo israeliano.
    I crimini europei contro gli ebrei forniscono una evidente giustificazione morale al diritto di Israele ad esistere.
    Ma la sua sopravvivenza non è in pericolo - anche se alcuni estremisti islamici fanno delle deplorevoli ed irrealistiche allusioni alla «
    cancellazione di Israele dalla mappa geografica» - e la tragica storia degli ebrei non obbliga gli Stati Uniti ad aiutare Israele qualunque cosa esso faccia.



    «Israele buono» contro gli «arabi malvagi»
    L'ultima argomentazione morale dipinge Israele come un Paese che ha cercato con ogni mezzo la pace e che ha dimostrato molta moderazione anche quando provocato.
    Le azioni degli arabi, al contrario, sono considerate pervase da grande malvagità.
    Questa argomentazione, ripetuta senza sosta dai leader israeliani e dagli americani che li appoggiano - come Alan Dershowitz - è un altro mito.
    In termini di comportamento reali, la condotta di Israele non è moralmente distinguibile da quella dei suoi avversari.
    La ricerca accademica israeliana mostra che i primi sionisti erano ben poco amichevoli nei confronti dei palestinesi.
    Gli arabi opposero resistenza all'invasione sionista, cosa comprensibile visto che i sionisti cercavano di creare il proprio Stato sul territorio arabo.
    I sionisti reagirono violentemente, e nessuna parte mostrò superiorità morale durante quel periodo. Le stesse ricerche mostrano che la creazione di Israele, nel 1947-48, comportò atti di pulizia etnica comprese esecuzioni, massacri e rapimenti da parte degli ebrei.




    Inoltre, negli anni seguenti la condotta di Israele nei confronti degli arabi e dei palestinesi fu spesso brutale, cancellando ogni validità all'ipotesi di una sua superiorità morale.
    Fra il 1949 ed il 1956, ad esempio, l'esercito israeliano uccise fra 2.700 e 5.000 «spie» arabe, la maggior parte delle quali era disarmata.
    Tale esercito inoltre fece molti raid al di fuori dei confini contro i propri vicini nei primi anni 50, e benché queste azioni fossero dipinte come difensive, erano i realtà parte di un piano di espansione di Israele.
    Le ambizioni espansionistiche inoltre portarono Israele ad unirsi a Francia ed Inghilterra nell'attacco all'Egitto del 1956, ed Israele si ritirò dalle terre conquistate solo a causa di forti pressioni USA.
    L'esercito israeliano uccise centinaia di prigionieri di guerra egiziani sia nella guerra del 1956 che in quella del 1967, e deportò fra 100.000 e 260.000 palestinesi fuori dalla Cisgiorndania (appena conquistata) ed espulse 80.000 siriani dalle alture del Golan.
    Fu anche complice nel massacro di 700 innocenti palestinesi nel campo profughi di Sabra e Shatila dopo l'invasione del Libano nel 1982, ed una commissione di inchiesta israeliana dichiarò l'allora ministro della difesa Sharon «personalmente responsabile» di tali atrocità.




    Soldati israeliani hanno torturato molti prigionieri palestinesi, ed hanno sistematicamente umiliato e tormentato i civili palestinesi, usando spesso la forza contro di loro in numerose occasioni.
    Durante la prima Intifada (1987-1991), ad esempio, l'esercito israeliano distribuì manganelli ai suoi soldati raccomandando loro di spezzare le ossa ai palestinesi.
    L'organizzazione svedese «Save the Children» ha stimato che «
    fra 23.600 e 29.900 bambini palestinesi hanno dovuto sottoporsi a cure mediche per lesioni da percosse nei primi due anni dell'intifada, e circa un terzo di essi presentava fratture ossee. Circa un terzo di tali bambini aveva meno di dieci anni».
    La reazione di Isreale alla seconda Intifada (2000-2005) è stata ancora più violenta, portando [il giornale, ndt] Ha'aretz a dichiarare che «
    l'esercito israeliano è diventato una macchina per uccidere la cui sorprendente efficienza incute terrore».
    L'esercito sparò un milione di proiettili nei primi giorni della rivolta, cosa ben lontana da una reazione proporzionata.
    Da allora l'esercito ha ucciso 3-4 persone (la maggior parte delle quali innocenti passanti) per ciascun israeliano caduto; il rapporto fra i bambini ammazzati è ancora più alto (5.7 a 1).
    Gli israeliani hanno ucciso anche molti pacifisti, inclusa una ragazza americana di 23 anni schiacciata da un Bulldozer nel marzo 2003.




    Questi fatti riguardanti la condotta di Israele sono stati ampiamente documentati da numerose organizzazioni umanitarie - anche israeliane - e non sono messi in dubbio dagli studiosi obiettivi. Questo è il motivo per cui quattro ex-ufficiali dello Shin-Bet (il servizio segreto civile israeliano) hanno condannato la condotta di Israele durante la seconda Intifada.
    Uno di essi ha dichiarato che «
    ci stiamo comportando in maniera ignobile» ed un altro ha definito la condotta di Israele «manifestamente immorale».
    Ma Israele non ha il diritto di fare tutto ciò che ritiene per proteggere i propri cittadini?
    Il terrorismo non giustifica il continuo sostegno da parte degli USA?
    Nemmeno questo argomento, però, rappresenta una giustificazione morale.
    I palestinesi hanno utilizzato il terrorismo contro gli occupanti israeliani, ed il loro desiderio di attaccare civili innocenti è deprecabile.
    Il loro comportamento, però, non è sorprendente in quanto i palestinesi ritengono di non aver alcun altro modo per ottenere concessioni.
    Come il primo ministro Ehud Barak una volta ammise, se fosse nato palestinese «
    avrebbe aderito ad una organizzazione terroristica».



    Infine, non dovremmo dimenticare che i sionisti utilizzarono anch'essi il terrorismo quando erano in una posizione debole e volevano ottenere il loro Stato.
    Fra il 1944 ed il 1947, molte organizzazioni sioniste usarono attentati terroristici per spingere gli inglesi fuori dalla Palestina, causando la morte di molti civili.
    I terroristi israeliani uccisero anche il mediatore delle Nazioni Unite conte Folke Bernadotte nel 1948, perché non erano d'accordo con la sua proposta sullo status internazionale di Gerusalemme.
    Nè gli esecutori di questi atti erano tutti estremisti: ai leader del piano omicida fu concessa un'amnistia, ed uno di essi fu eletto alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt].
    Inoltre, Shamir ha apertamente dichiarato che «
    né l'etica israeliana, né la tradizione escludono il terrorismo come strumento di lotta».
    Infatti il terrorismo «
    ha svolto un ruolo importante nella nostra guerra contro gli occupanti britannici».
    Se l'uso del terrorismo da parte dei palestinesi oggi è moralmente censurabile, allo stesso modo lo era a suo tempo quello israeliano; pertanto non è possibile giustificare il supporto agli israeliani in base alla tesi che la loro condotta morale passata sia stata moralmente superiore.
    Israele forse non si è comportata in maniera peggiore di altri Paesi, ma sicuramente la sua condotta non è stata migliore.
    E quindi se né le argomentazioni strategiche, né quelle morali possono giustificare il sostegno americano ad Israele, come possiamo spiegarcelo?

    La spiegazione consiste nella ineguagliata potenza della lobby israeliana.
    Se non fosse per la capacità della lobby di manipolare il sistema politico americano, le relazioni fra Israele e gli Stati Uniti sarebbero molto meno profonde rispetto a quelle attuali.
    Che cos'è la lobby?
    Con il termine «lobby» indichiamo un'ampia coalizione di individui ed organizzazioni che lavorano attivamente per indirizzare la politica estera americana in una direzione favorevole ad Israele. Questa definizione non implica che «la lobby» sia un unico movimento con una leadership centralizzata, o che i suoi componenti non si trovino in disaccordo su certi temi.
    Il nucleo della lobby è formato da ebrei americani che nelle loro attività quotidiane cercano di fare in modo che la politica estera americana promuova gli interessi di Israele.
    Le loro attività vanno oltre il semplice voto per i candidati pro-israeliani, ed includono articoli giornalistici, contributi finanziari e supporto per le organizzazioni pro-Israele.
    Ma non tutti gli ebrei americano fanno parte della lobby, visto che Israele non riveste particolare importanza per molti di loro.
    Un sondaggio del 2004 rivela, infatti, che circa il 36% degli ebrei americani risulta «non molto» o «per niente» legato ad Israele.
    Gli ebrei americani inoltre hanno opinioni divergenti su alcune politiche israeliane.
    Molte delle organizzazioni chiave della lobby, come l'AIPAC oppure la «Conferenza dei Presidenti delle Maggiori Organizzazioni Ebraiche (CPMJO) » sono capeggiate da estremisti che generalmente supportano le politiche espansionistiche del partito israeliano Likud, compresa la sua ostilità nei confronti degli accordi di pace di Oslo.




    La maggioranza degli ebrei americani, invece, è più favorevolmente disposta a fare concessioni ai palestinesi ed alcuni gruppi - come la Jewis Voice for Peace - si battono per ottenerle.
    Al di là di queste differenze, sia gli estremisti che i moderati sono favorevoli al costante supporto fornito dagli USA ad Israele.
    Come conseguenza, i leader ebrei americani spesso si consultano con i dirigenti israeliani, in modo da poter massimizzare la propria influenza negli Stati Uniti.
    Un attivista di una delle maggiori organizzazioni ebraiche ha scritto: «
    è consuetudine per noi dire: 'Questa è la nostra opinione sull'argomento, ma dobbiamo vedere cosa ne pensano gli israeliani'. Noi come comunità lo facciamo di continuo».
    C'è inoltre una forte consuetudine che impedisce di criticare la politica israeliana, ed i leader ebrei americani raramente sostengono chi fa pressioni su Israele.
    Infatti Edgar Bronfman, presidente del «World Jewish Congress», fu accusato di slealtà quando scrisse una lettera al presidente Bush nel 2003 raccomandandogli di fare pressioni su Israele affinché frenasse la costruzione del controverso muro di sicurezza.
    I critici dichiararono che «
    sarebbe disdicevole per il presidente del 'World Jewish Congress' cercare di convincere il presidente degli Stati Uniti a contrastare delle politiche promosse dal governo israeliano».

    Similmente, quando il presidente dell'Israel Policy Forum, Seymour Reich, consigliò al Segretario di Stato Condoleezza Rice di fare pressioni su Israele affinché riaprisse un importante punto di transito sul confine della Striscia di Gaza nel novembre 2005, i critici lo accusarono di «comportamento irresponsabile» e dichiararono che «non c'è spazio nel movimento ebraico
    per discussioni contrarie alle politiche di sicurezza di Israele
    ».
    Per difendersi da questi attacchi, Reich disse che «
    la parola 'pressione' non è nel mio vocabolario quando si parla di Israele».
    Gli ebrei americani hanno dato vita ad un numero impressionante di organizzazioni per influenzare la politica estera americana, delle quali la più importante e potente è l'AIPAC.
    Nel 1997 la rivista Fortune chiese ai membri del Congresso ed ai loro staff quali fossero le lobby più potenti a Washington.
    L'AIPAC risultò al secondo posto, dietro l'Associazione dei Pensionati (AARP) ma davanti a potenti lobby come la AFL-CIO e la National Rifle Association.
    Uno studio del National Journal del marzo 2005 ha fornito conclusioni simile, piazzando l'AIPAC al secondo posto (vicina all'AARP).
    La lobby include inoltre primari esponenti del movimento Cristiano Evangelico come Gary Bauer, Jerry Falwell, Ralph Reed, e Pat Robertson, ed inoltre Dick Armey e Tom DeLay, leader di maggioranza nella Camera dei Rappresentanti.
    Credono che la rinascita di Israele sia una parte di una profezia biblica, supportano le sue politiche espansionistiche, e pensano che fare pressioni su Israele sia contrario alla volontà di Dio.
    Inoltre fra i membri della lobby ci sono esponenti neoconservatori come John Bolton, il precedente editore del Wall Street Journal, Robert Bartley, l'ex Segretario all'Educazione William Bennet, l'ex ambasciatore alle Nazioni Unite Jeanne Kirkpatrick e l'opinionista Gorge Will.




    Le fonti del Potere.
    Gli Stati Uniti hanno una forma articolata di governo che offre molte strade per influenzare il processo politico.
    Come conseguenza, i gruppi di interesse possono agire in molti modi - cercando di influenzare i rappresentanti eletti ed i membri dell'esecutivo, facendo campagne di contributi, votando nelle elezioni, plasmando la pubblica opinione.
    Inoltre, particolari gruppi di interesse dispongono di un enorme potere quando si concentrano su una questione rispetto alla quale la maggioranza della popolazione è indifferente.
    I politici hanno la tendenza ad accontentare chi si preoccupa di tali questioni, anche se sono in pochi, dal momento che pensano che la popolazione non li penalizzerà.
    Il potere della lobby ebraica deriva dalla sua ineguagliata abilità nel gioco della politica.
    Nelle sue attività di base, non si comporta diversamente dalla lobby degli agricoltori, da quella dei lavoratori metalmeccanici o del tessile, oppure dalle altre lobby etniche.
    Quello che la distingue è la sua straordinaria efficacia.
    Non c'è nulla di censurabile nel fatto che gli ebrei americani ed i loro alleati cristiani tentino di influenzare la politica americana verso gli interessi di Israele.
    Le attività della lobby non rappresentano una cospirazione come quella descritta nei Protocolli dei Savi di Sion.
    Per la maggior parte, le persone e le organizzazioni che formano la lobby fanno esattamente le stesse attività degli altri gruppi di interesse, soltanto molto meglio.
    Inoltre, i gruppi di interesse pro-arabi sono deboli o non esistono, cosa che rende il compito della lobby ancora più facile.




    Strategie per il successo.
    La lobby persegue due principali strategie per promuovere il supporto americano nei confronti di Israele.
    Primo, esercita una significativa influenza a Washington, facendo pressioni sia sul Congresso che sul Governo.
    Qualunque siano le opinioni di un politico, la lobby cerca di far apparire il sostegno ad Israele la scelta politica vincente.
    Secondariamente, la lobby cerca di fare in modo che Israele sia dipinto favorevolmente nei confronti dell'opinione pubblica, ripetendo i miti su Israele e la sua fondazione, e pubblicizzando le idee politiche israeliane.
    L'obiettivo è quello di impedire che le critiche ad Israele ottengano una vasta eco nell'arena politica.
    Il controllo del dibattito politico è essenziale per garantire il supporto americano, in quanto una libera discussione delle relazioni israelo-americane potrebbe portare gli Stati Uniti ad adottare politiche diverse.




    Influenzare il Congresso.
    Una pilastro centrale dell'efficacia della lobby è la sua influenza sul Congresso, luogo in cui Israele è virtualmente immune da ogni critica.
    Questa è già una condizione degna di nota, in quanto il Congresso non è quasi mai «timido» nei confronti di questioni controverse. Che si tratti di aborto, salute, discriminazioni, welfare, c'è sempre un acceso dibattito al Capitol Hill.
    Quando si tratta di Israele, invece, i potenziali critici se ne stanno in silenzio è non c'è praticamente alcun dibattito.
    Una delle ragioni del successo della lobby al Congresso è che alcuni suoi membri sono Cristiani Sionisti come Dick Armey, che affermò nel settembre 2002 che «
    la mia priorità numero uno in politica estera è quella di proteggere Israele».
    Si potrebbe pensare che la priorità numero uno per un membro del Congresso sia quella di «proteggere gli Stati Uniti», ma non è ciò che Armey ha affermato.
    Vi sono anche diversi senatori e membri del congresso ebrei che cercano di influenzare la politica estera americana in favore di Israele.
    Il personale pro-israele che lavora al Congresso è un'altra sorgente del potere della lobby, come disse Morris Amitay, già capo dell'AIPAC: «
    ci sono molte persone che lavorano a Capitol Hill…che sono ebrei e vedono certe questione con occhio favorevole ad Israele… Sono tutte persone che possono decidere per i senatori… E' possibile ottenere molto a questo livello».

    E' la stessa AIPAC, comunque, che rappresenta il «cuore» dell'influenza della lobby sul Congresso.
    Il successo dell'AIPAC è dovuto alla sua abilità a ricompensare i parlamentari che supportano i loro programmi, e di punire quelli che vi si oppongono.
    I soldi sono un elemento essenziale per le elezioni americane (come il recente scandalo riguardante gli oscuri affari del lobbyista Jack Abramoff ci ricorda), e l'AIPAC fa in modo che i propri candidati «amici» ricevano un forte supporto finanziario dalla miriade dei comitati politici pro-israeliani.
    Per quanto riguarda i candidati che sono considerati ostili ad Israele, l'AIPAC fa in modo che i finanziamenti vadano ai loro oppositori.
    L'AIPAC inoltre organizza campagne di stampa ed incoraggia i giornali ad appoggiare candidati pro-Israele.
    Non vi sono dubbi sull'efficacia di tali tattiche.
    Per fare un esempio, nel 1984 l'AIPAC contribuì alla sconfitta del senatore Charles Percy dell'Illinois, il quale, secondo un importante membro della lobby, «
    si era dimostrato insensibile e perfino ostile ai nostri interessi».
    Thomas Dine, al vertice dell'AIPAC in quel periodo, spiegò cosa era successo: «
    tutti gli ebrei d'America, da costa a costa, si sono coalizzati per estromettere Percy. Ed i politici americani, quelli che adesso occupano posizioni pubbliche, e quelli che aspirano a farlo, hanno capito il messaggio».
    L'AIPAC mette in campo la propria reputazione alla stregua di un formidabile avversario, scoraggiando così i candidati ad opporsi ai suoi programmi.


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    Post La lobby israeliana e la politica estera USA (Seconda Parte)

    L'influenza dell'AIPAC su Capitol Hill si spinge anche più in là, comunque.
    Secondo Douglas Bloomfield, ex-dirigente dell'AIPAC, «
    è comune per i membri del Congresso rivolgersi prima all'AIPAC quando necessitano di qualche informazione, piuttosto che alla Biblioteca del Congresso, al Servizio di Ricerca oppure ad esperti».
    Inoltre, egli nota che spesso vengono fatte richieste all'AIPAC di
    «redigere discorsi, lavorare sulle leggi, consigliare sulle tattiche, eseguire ricerche, raccogliere voti e sponsorizzazioni».
    La conclusione è che l'AIPAC, che di fatto agisce per un governo straniero, esercita un controllo paralizzante sul Congresso.
    Un libero dibattito riguardante la politica USA nei confronti di Israele non è permesso, anche se tale politica ha importanti conseguenza per tutto il mondo.
    Pertanto una delle tre principali articolazioni del potere USA è fermamente pro-Israele.
    Come l'ex senatore Ernest Hollings notava lasciando il proprio ufficio: «
    non possiamo avere verso Israele una politica diversa rispetto a quella dettata dall'AIPAC».
    Non sorprende il fatto che il Primo Ministro Israeliano Ariel Sharon una volta disse ad un pubblico americano: «
    Quando la gente mi chiede come può aiutare Israele, io rispondo: 'Aiutate l'AIPAC'».

    Influenza sull'Esecutivo
    .
    La lobby esercita inoltre una forte influenza anche sull'Esecutivo.
    Questo potere deriva principalmente dall'influenza dei votanti ebrei nelle elezioni presidenziali. Nonostante la loro bassa percentuale nella popolazione (meno del 3%), fanno delle vaste campagne di donazioni ai candidati di entrambi i partiti.
    Il Washington Post ha stimato che i candidati presidenziali democratici dipendono dal supporto finanziario degli ebrei americani per circa il 60%.
    Inoltre i votanti ebrei si recano alle urne in massa e sono concentrati in stati chiave come California, Florida, Illinois, New York, e Pennsylvania.
    Dal momento che tali elettori sono fondamentali in competizioni elettorali serrate, i candidati presidenziali si guardano bene dall'inimicarseli.
    Le principali organizzazioni nella lobby si occupano di influenzare direttamente l'Amministrazione in carica.
    Ad esempio fanno in modo che i critici di Israele non ottengano posizioni di responsabilità in politica estera. Jimmy Carter avrebbe voluto nominare George Ball come Segretario di Stato, ma sapeva che questi era considerato critico di Israele, che la lobby si sarebbe opposta a tale nomina.
    Questo episodio emblematico fa sì che chiunque aspiri ad importanti cariche diventi un aperto sostenitore di Israele; e questo spiega il fatto che i critici di Israele sono una razza in via di estinzione fra i politici americani che si occupano di politica estera.

    Questo vincolo è presente ancora oggi.
    Quando il candidato democratico Howard Dean si dichiarò a favore di un approccio più «equidistante» nel conflitto arabo-israeliano, il senatore Jospeh Lieberman lo accusò di svendere Israele e disse che le sue affermazioni erano «irresponsabili».
    Praticamente tutti i principali parlamentari democratici firmarono una dura lettera di critiche a Dean, ed il Chicago Jewish Start riportò che «anonimi hacker… avevano intasato le caselle e-mail dei leader ebraici in tutta la nazione, avvertendo che Dean sarebbe stato un pericolo per Israele».
    Tali timori erano assurdi, poiché Dean in realtà era un «falco» riguardo ad Israele.
    Il vice-presidente designato della sua campagna era un ex presidente dell'AIPAC, e Dean stesso disse che le sue idee sul Medio Oriente si avvicinavano più a quelle dell'AIPAC che non quelle più moderate del movimento «Americans for Peace Now».
    Dean semplicemente suggerì di «riavvicinare le due parti» e che Washington avrebbe dovuto agire come un giusto arbitro.
    Questa non è sicuramente una posizione radicale, ma rappresenta un anatema per la lobby, che non tollera nemmeno l'idea di equidistanza quando si parla del conflitto israelo-palestinese.

    Gli obiettivi della lobby sono perseguiti anche quando importanti posizioni nell'esecutivo sono occupate da personalità pro-israeliane.
    Durante l'Amministrazione Clinton, ad esempio, la politica verso il Medio Oriente fu in larga parte decisa da funzionari strettamente legati ad Israele (od a organizzazioni pro-Israele), come ad esempio Martin Indyk, ex direttore della ricerca all'AIPAC e co-fondatore del WINEP (Washington Institute for Near East Policy); ed anche Dennis Ross, che è entrato a far parte del WINEP dopo aver lasciato il governo, ed Aaron Miller, che ha vissuto a lungo in Israele.
    Queste persone erano fra i principali consiglieri del presidente Clinton nel summit di Camp David nel luglio del 2000.
    Benché tutti e tre fossero favorevoli agli accordi di Oslo ed alla creazione di uno Stato palestinese, volevano che ciò fosse fatto all'interno dei limiti posti da Israele.
    In particolare la delegazione americana fu imbeccata dal Primo Ministro israeliano Ehud Barak, coordinando la linea da tenere in anticipo, e senza presentare delle proprie proposte per la risoluzione del conflitto.
    Non c'è da sorprendersi se i negoziatori palestinesi si lamentarono che «
    stavano trattando con due delegazioni israeliane, una con la bandiera di Israele ed una con quella USA».
    La situazione è ancora più evidente con l'amministrazione Bush, che fra i suoi ranghi include ferventi personalità pro-Israele come Elliot Abrams, John Bolton, Douglas Feith, Lewis («Scooter») Libby, Richard Perle, Paul Wolfowitz, e David Wurmser.
    Come vedremo, queste persone hanno continuamente cercato di promuovere politiche favorevoli ad Israele e sostenute dalla lobby.




    Oltre ad influenzare direttamente il governo, la lobby si sforza di plasmare l’opinione pubblica riguardo ad Israele ed al Medio Oriente.
    Essa non vuole un dibattito aperto su questioni riguardanti Israele, perché un tale dibattito potrebbe portare gli americani a mettere in discussione il livello di supporto che essi attualmente forniscono. Pertanto le organizzazioni pro-israeliane lavorano molto per influenzare i media, i «think tanks» ed il mondo accademico, in quanto tali istituzioni sono fondamentali per la formazione
    della pubblica opinione.
    Il punto di vista della lobby riguardo ad Israele viene ampiamente diffuso dai principali mezzi di informazione dal momento che la maggior parte dei commentatori americani è pro-Israele.
    Il dibattito fra esperti di questioni medio-orientali, come scrive il giornalista Eric Alterman, è «
    dominato da persone che non osano immaginare di poter criticare Israele».
    Egli elenca «
    editorialisti e commentatori il cui sostegno senza riserve verso Israele è fuori discussione».
    Al contrario, Alterman ha trovato soltanto cinque esperti che criticano regolarmente le politiche israeliane ed appoggiano gli arabi.
    I quotidiani di tanto in tanto pubblicano interventi di commentatori che criticano la politica israeliana, ma il contraddittorio delle opinioni è chiaramente a favore delle tesi opposte.

    I pregiudizi a favore di Israele sono riflessi negli editoriali dei maggiori quotidiani.
    Robert Bartley, ex editorialista del Wall Street Journal, una volta disse che «
    Shamir, Sharon, Bibi - qualunque decisione essi prendano per me va bene».
    Non sorprende il fatto che il WSJ, assieme ad altri importanti quotidiani come il «Chicago Sun Times» ed il «Washington Times» regolarmente presentino editoriali marcatamente pro-Israele.
    Anche riviste come il Commentary, New Republic ed il Weekly Standard difendono strenuamente Israele in ogni occasione.
    Tali pregiudizi sono riscontrabili anche nel New York Times.
    Questo giornale talvolta critica la politica israeliana ed ogni tanto riconosce che i palestinesi hanno le loro ragioni per protestare, ma non è equidistante.
    Nelle sue memorie, ad esempio, l’ex redattore capo del Times Max Frankel riconobbe l’influenza che le sue opinioni pro-Israele ebbero sulle sue scelte redazionali.
    Con le sue parole: «
    ero molto più devoto ad Israele di quanto non osavo ammettere».
    Ed inoltre: «
    forte della mia conoscenza di Israele e delle mie amicizie lì, io stesso scrissi la maggior parte dei nostri editoriali sul Medio Oriente. Come i lettori (più gli arabi che non gli ebrei) riconobbero, li scrissi da un punto di vista pro-israeliano».



    Le notizie riportate dai media su Israele sono in generale più imparziali rispetto agli editoriali, in parte perché i giornalisti cercano di essere obiettivi, ma anche perché è difficile parlare dei territori occupati senza riconoscere il reale comportamento di Israele.
    Per scoraggiare la diffusione di notizie che mettano Israele in cattiva luce, la lobby organizza campagne di protesta, dimostrazioni e boicottaggi nei confronti di quei canali informativi i cui contenuti sono considerati anti-israeliani.
    Un dirigente della CNN ha detto di ricevere circa 6.000 email in un unico giorno di persone che si lamentavano perché ritenevano un suo articolo anti-israeliano.
    Allo stesso modo, l’organizzazione pro-israeliana «Committee for Accurate Middle East Reporting in America (CAMERA)» ha organizzato in 33 città delle dimostrazioni fuori dalle sedi della National Public Radio nel maggio 2003, ed inoltre ha cercato di convincere chi forniva contributi finanziari alla NPR a sospendere ulteriori aiuti, fintantoché tale radio non avesse riportato le notizie dal Medio Oriente secondo una prospettiva favorevole ad Israele.
    La stazione di Boston della NPR perse più di 1 milione di dollari in contributi a causa di queste proteste.
    Pressioni sulla NPR vennero fatte anche dagli amici di Israele al Congresso, che chiesero un’ispezione interna e maggior supervisione nei confronti dei servizi riguardanti il Medio Oriente.
    Questi fattori aiutano a spiegare perché i media americani raramente criticano la politica israeliana, o mettono in discussione le relazioni di Washington con Israele e solo in rare occasioni discutono dell’influenza della lobby sulla politica americana.

    I think tank che pensano a senso unico e le posizioni pro-Israele predominano nei think tank statunitensi, che svolgono un ruolo importante nella formazione dell’opinione pubblica e nel dibattito politico.
    La lobby ha creato il suo think tank nel 1985, quando Martin Indyk contribuì a fondare il WINEP [Washington Institute for Near East Policy, ndt].
    Benché il WINEP tenda a minimizzare i suoi legami con Israele e dichiari di fornire una visione «equilibrata e realistica» delle questioni mediorientali, le cose stanno diversamente.
    Infatti il WINEP è finanziato e diretto da persone che sono profondamente impegnate a sostenere gli interessi di Israele.
    L’influenza della lobby sui think tank si estende ben al di là del WINEP.
    Durante i passati 25 anni, forze pro-Israele si sono stabilite nelle posizioni di comando dell’American Enterprise Institute, del Brookings Institution, del Center for Security Policy, del Foreign Policy Research Institute, del Heritage Foundation, del Hudson Institute, del Institute for Foreign Policy Analysis, e del Jewish Institute for National Security Affairs (JINSA).
    Tutti questi think tank sono pro-Israele, ed hanno al loro interno pochi (o nessuno) critici del supporto USA allo Stato ebraico.

    Un esempio illuminante dell’influenza della lobby nel mondo dei think tank è rappresentato dall’evoluzione del Brookings Institute.
    Per molti anni, il maggior esperto di questioni mediorientali era William B. Quandt, un insigne accademico ed ex dirigente dell’NSC [National Security Council, massimo organo consultivo di cui si avvale il presidente USA per questioni di sicurezza nazionale e politica estera, ndt], il quale aveva una riconosciuta reputazione di equilibrio riguardo il conflitto arabo-israeliano.
    Oggi, invece, le ricerche del Brookings Institute su tali questioni sono condotte attraverso il suo Saban Center for Middle East Studies, finanziato da Haim Saban, un ricco uomo d’affari israelo-americano nonché fervente sionista.
    Il direttore del Saban Center è l’onnipresente Martin Indyk.
    Pertanto, quello che un tempo era un centro di studi equilibrato sul Medio Oriente, adesso fa parte del coro dei think tank pro-Israele.
    La lobby ha incontrato le maggiori difficoltà a soffocare il dibattito su Israele nei campus universitari, in quanto la libertà accademica è uno dei valori centrali della società e perché è difficile minacciare o ridurre al silenzio i professori di ruolo.
    Anche considerando tutto questo, nel mondo accademico ci fu soltanto nel 1990 una debole critica ad Israele, mentre era in atto il processo di pace discusso ad Oslo.
    Le critiche nacquero quando tale processo fallì ed Ariel Sharon salì al potere all’inizio del 2001, e divennero particolarmente intense quando l’esercito israeliano rioccupò la Cisgiordania nella primavera del 2002 ed usò la mano pesante contro la seconda Intifada.

    La lobby si mosse in maniera energica per «riconquistare i campus».
    Nacquero nuovi gruppi, come il «Caravan for Democracy», che portò i portavoce israeliani nei college.
    Gruppi già esistenti, come il Jewish Council for Public Affairs and Hillel si unirono a tali iniziative, ed un nuovo gruppo, Israel on Campus Coalition, fu formato per coordinarne le attività.
    Inoltre, l’AIPAC più che triplicò la spesa per programmi di monitoraggio delle università e per la formazioni di giovani sostenitori di Israele, al fine di «
    aumentare di molto il numero di studenti coinvolti nei campus…attivi nel promuovere la causa di Israele».
    La lobby inoltre fa monitoraggi su quanto i professori scrivono ed insegnano.
    Nel settembre 2002, ad esempio, Martin Kramer e Daniep Pipes, due appassionati neocon pro-Israele, diedero vita ad un sito web (Campus Watch) dove furono pubblicati dossier su accademici sospetti, e gli studenti furono invitati a riferire commenti o comportamenti che potevano essere considerati ostili ad Israele.
    Questo tentativo di caccia alle streghe ed intimidazione provocò dure reazioni, e Pipes e Kramer rimossero i dossier, ma il sito web invita ancora gli studenti a segnalare presunti comportamenti anti-israeliani all’interno dei college.
    Gruppi della lobby hanno scagliato i loro attacchi contro alcuni professori e contro gli istituti che li assumono.




    La Columbia University, che annoverava l’accademico palestinese Edward Said nel suo organico, è stata oggetto di frequenti attacchi da parte delle forze pro-Israele.
    Jonathan Cole, ex rettore di tale Università, disse che «
    si può star certi che ogni dichiarazione pubblica a favore della Palestina fatta dall’illustre critico letterario Edward Said darà origine a centinaia di lettere, e-mail ed articoli giornalistici che ci chiedono di prendere le distanze da lui e di punirlo o licenziarlo».
    Quando la Columbia assunse lo storico Rashid Khalidi dall’Università di Chicago, Cole disse che «
    le proteste fioccavano da parte di coloro i quali erano contrari alle sue idee politiche». Princeton ebbe gli stessi problemi quando pensò di «strappare Khalidi dalla Columbia».
    Un classico esempio degli sforzi di intimidazione delle Università accadde nel 2004, quando il «David Project» realizzò un film di propaganda per sostenere che il programma di studi mediorientali della Columbia University era anti-semita ed intimidatorio nei confronti degli studenti ebrei che difendevano Israele.
    La Columbia si trovò nell’occhio del ciclone fra i circoli pro-Israele, ma una commissione della facoltà incaricata di far luce sulla vicenda non trovò alcuna traccia di anti-semitismo, e l’unico «incidente» degno di nota rilevato fu la possibilità che un professore avesse «risposto con veemenza» alla domanda di uno studente.
    Il comitato scoprì anche che tale professore era stato oggetto di una pubblica campagna di intimidazione.




    Forse l’aspetto più inquietante della campagna per eliminare le critiche ad Israele dai college è lo sforzo della lobby di spingere il Congresso a definire dei meccanismi di monitoraggio su quanto i professori dicono in merito ad Israele.
    Gli istituti nei quali viene riscontrato un pregiudizio anti-israeliano dovrebbero essere privati dei finanziamenti federali.
    Questo sforzo di costringere il governo USA a vigilare sui campus non ha ancora avuto successo, ma già il solo tentativo dimostra l’importanza che i gruppi pro-Israele attribuiscono al controllo del dibattito su queste questioni.
    Infine, un gran numero di filantropi ebrei ha finanziato programmi di studio su Israele (in aggiunta ai circa 130 che già esistono) in modo da aumentare il numero di accademici pro-Israele nei campus.
    La New York University ha annunciato la nascita del Taub Center for Israel Studies nel maggio del 2003, ed iniziative simili sono state adottate da altri istituti come Berkley, Brandeis e Emory.
    Le amministrazioni accademiche enfatizzano il ruolo pedagogico di questi programmi, ma la verità è che essi hanno lo scopo di promuovere l’immagine di Israele nei campus.
    Fred Laffer, il presidente della Taub Foundation, ha detto chiaramente che la sua Fondazione ha lo scopo di contrastare «il punto di vista filo-arabo» che lui ritiene prevalente nei corsi relativi al Medio Oriente della NYU.
    In conclusione, la lobby ha fatto molti passi avanti nel tentativo di rendere immune Israele dalle critiche nei campus.
    Tale iniziativa non ha avuto lo stesso successo riscosso a Capitol Hill, ma lo sforzo per impedire le critiche ad Israele è stato notevole ed ha avuto un discreto successo.




    Nessuna discussione sulle modalità di intervento della lobby sarebbe completa senza esaminare una delle sua armi più potenti: l’accusa di anti-semitismo, «il grande silenziatore».
    Chiunque critichi le azioni di Israele o dica che gruppi israeliani influenzino significativamente la politica USA in Medio Oriente - influenza decantata dall’AIPAC stessa - ha buone possibilità di essere definito un antisemita.
    Per la verità chiunque sostenga che esiste una lobby di Israele corre questo rischio, anche se i media israeliani stessi parlano della «lobby ebraica» americana.
    In effetti la lobby si vanta della sua potenza ma attacca chiunque cerchi di evidenziarla.
    Questa tattica è molto efficace, in quanto l’antisemitismo è detestabile e nessuna persona responsabile vorrebbe esserne accusata.
    Gli europei hanno criticato maggiormente Israele negli anni recenti rispetto agli americani, circostanza che alcuni attribuiscono ad un ripresa dell’antisemitismo in Europa.
    L’ambasciatore USA alla Comunità Europea nel 2004 disse che stiamo «
    arrivando ad un punto in cui la situazione è simile a quella del 1930».
    Misurare l’antisemitismo è complesso, ma l’esame della realtà fa propendere per la tesi opposta. Infatti nella primavera del 2004, quando le accuse di antisemitismo europeo riecheggiavano in USA, sondaggi di opinione condotti in maniera indipendente dalla Anti Defamation League e dal Pew Research Center mostrarono che effettivamente il sentimento antisemita era in declino.




    Consideriamo la Francia, ritenuta dalle forze pro-Israele come la nazione più antisemita in Europa.
    Un sondaggio condotto nel 2002 ha rivelato che: l’89% dei francesi poteva prendere in considerazione l’idea di vivere con un ebreo, il 97% considerava i graffiti antisemiti come un grave crimine, l’87% pensava che gli attacchi contro le sinagoghe erano scandalosi, e l’85% dei cattolici praticanti rifiutava la tesi che gli ebrei avessero troppa influenza negli affari e nella finanza.
    Non sorprende il fatto che il capo della comunità ebraica francese abbia dichiarato, nell’estate del 2003, che «
    la Francia non è più antisemita degli Stati Uniti».
    Secondo un recente articolo su Haaretz, la polizia francese ha riscontrato che episodi di violenza antisemita sono diminuiti del 50% nel 2005, e questo nonostante la Francia ospiti la più grande comunità musulmana di tutta Europa.
    Infine, quando un ebreo francese fu ucciso il mese scorso da una gang di musulmani, decine di migliaia di dimostranti francesi sono scesi in piazza per condannare l’antisemitismo.
    Inoltre, il presidente Jacques Chirac ed il primo ministro Dominique de Villepin sono stati ai funerali ed hanno dimostrato in pubblico la propria solidarietà alla comunità ebraica francese.
    Va inoltre ricordato che nel 2002 più ebrei sono immigrati in Germania che non in Israele, facendo quella tedesca la «
    comunità ebraica che cresce più rapidamente», secondo l’articolo del giornale israeliano Forward.
    Se l’Europa stesse tornando al clima degli anni 30, non si spiegherebbe perché un così gran numero di ebrei abbia deciso di stabilirsi lì.




    Riconosciamo, in ogni caso, che l’Europa non è libera dalla piaga dell’antisemitismo.
    Nessuno può negare che ci sono tuttora alcuni estremisti autoctoni antisemiti in Europa (come ci sono negli USA), ma sono un’esigua minoranza e le loro idee sono rifiutate dalla vasta maggioranza degli europei.
    Né si può negare che fra i musulmani serpeggi l’antisemitismo, sentimento che trae origine dalle azioni di Israele contro i palestinesi oppure dal semplice razzismo.
    Il problema è preoccupante, ma non certo fuori controllo.
    I musulmani costituiscono meno del 5% della popolazione europea, ed i governi europei si stanno impegnando efficacemente per contrastare tale fenomeno.
    Perché?
    Perché la maggior parte degli europei rifiuta tali sentimenti di odio.
    In breve, riguardo all’antisemitismo, la situazione europea attuale non può assolutamente essere paragonata a quella degli anni 30. Questo è il motivo per cui le forze pro-Israele, quando viene loro richiesto di documentare le loro affermazioni, sostengono che c’è una nuova forma di antisemitismo, che loro identificano nelle critiche ad Israele.




    In altre parole chiunque critica le politiche israeliane è per definizione un antisemita.
    Quando il sinodo della Chiesa di Inghilterra ha recentemente deciso di vendere la propria partecipazione nella Caterpiller, a causa del fatto che tale ditta fornisce ad Israele i bulldozer per demolire le abitazioni dei palestinesi, il rabbino capo si è lamentato che tale decisione avrebbe avuto serie ripercussioni sulle relazioni fra cristiani ed ebrei in Gran Bretagna, mentre il rabbino Tony Bayfield, capo del Reform Movement, ha affermato che «
    c’è un chiaro problema di antisionismo sconfinante nell’antisemitismo che emerge all’interno della Chiesa».
    In realtà la Chiesa non era né antisionista né antisemita, semplicemente era contraria alle politiche di Israele.
    I critici sono inoltre accusati di rimanere ancorati ad un pregiudizio nei confronti di Israele o addirittura di mettere in dubbio il suo diritto all’esistenza.
    I critici occidentali di Israele non ne mettono praticamente mai in dubbio il suo diritto ad esistere. Invece, disapprovano il suo comportamento nei confronti dei palestinesi, rilievo del tutto legittimo: anche molto fra gli stessi israeliani lo disapprovano.
    Né Israele viene giudicato in maniera pregiudiziale.
    Piuttosto, il trattamento che Israele riserva ai palestinesi è considerato contrario ai diritti umani ed alle leggi internazionali, nonché al principio di autodeterminazione dei popoli.
    Molti altri Stati hanno subito critiche su questioni simili.
    In conclusione: le altre lobby straniere possono solo sognare di avere l’influenza politica di cui le organizzazioni pro-Israele dispone.
    La domanda è, quindi, quali effetti produce la lobby sulla politica estera USA?

    LA CODA CHE FA MUOVERE IL CANE - Se l'impatto della lobby fosse confinato all'aiuto economico americano a favore di Israele,
    la sua influenza non sarebbe così preoccupante.
    Tale aiuto è prezioso, ma è molto più utile poter contare sul fatto che l'unica superpotenza mondiale ha messo le sue enormi risorse al servizio di Israele.
    Di conseguenza, la lobby ha anche cercato di influenzare la politica americana verso il Medio Oriente.
    In particolare, si è impegnata con successo per convincere i leader americani a sostenere la continua repressione dei palestinesi da parte di Israele, ed a prendere di mira i suoi principali antagonisti della regione: l'Iran, l'Iraq e la Siria.
    Adesso la cosa è andata nel dimenticatoio, ma nell'autunno del 2001, e soprattutto nella primavera del 2002 l'Amministrazione Bush cercò di contrastare il crescente sentimento anti-americano nel mondo arabo e di indebolire il conseguente sostegno dato ai gruppi terroristici come Al Qaeda bloccando le politiche espansionistiche israeliane nei territori occupati e promuovendo la creazione di uno Stato palestinese, oggi demonizzato.
    Bush aveva molti mezzi di pressione a propria disposizione.
    Avrebbe potuto minacciare di ridurre gli aiuti economici e diplomatici ad Israele, ed i cittadini americani lo avrebbero certamente sostenuto.
    Da un sondaggio del maggio 2003 è emerso che oltre il 60% degli americani sarebbero stati favorevoli alla sospensione degli aiuti ad Israele come forma di pressione per porre fine al conflitto, e tale numero risultò pari al 70% fra gli americani «politicamente attivi».
    Inoltre, il 73% degli intervistati disse di non appoggiare nessuna delle due parti.




    Tuttavia l'Amministrazione Bush non riuscì a modificare la politica israeliana, e Washington finì con il sostenere la linea dura dello Stato ebraico.
    Con il passare del tempo, l'Amministrazione fece propria anche le giustificazione che Israele dava per questo approccio, e la retorica americana ed israeliana divenne simile.
    Nel febbraio 2003, un titolo del Washington Post riassumeva così la situazione «
    Bush e Sharon praticamente unanimi sulle politiche mediorientali».
    La ragione per tale cambiamento di rotta è la lobby.
    La storia inizia alla fine del settembre 2001, quando il presidente Bush cominciò a fare pressioni sul primo ministro israeliano Sharon per spingerlo ad un atteggiamento più moderato nei territori occupati.
    Bush fece anche pressioni affinché Sharon permettesse al ministro degli Esteri israeliano Shimon Pares di incontrare il leader palestinese Yasser Arafat, benché Bush fosse molto critico sulla leadership di quest'ultimo.
    Bush inoltre sosteneva pubblicamente la necessità di uno Stato palestinese.
    Allarmato da questi sviluppi, Sharon accusò Bush di cercare di «
    placare gli arabi a loro spese», ammonendolo che «Israele non sarà la Cecoslovacchia» [il riferimento è al primo ministro inglese Neville Chamberlain, che nel 1938 per ingraziarsi Hitler abbandonò la Cecoslovacchia ai nazisti, ndt].
    Bush si infuriò quando Sharon lo paragonò a Neville Chamberlain, ed il portavoce della casa Bianca Ari Fleisher dichiarò che le parole di Sharon erano «
    inaccettabili».



    Il primo ministro israeliano fece delle scuse di facciata, ma ben presto unì i suoi sforzi a quelli della lobby per convincere l'Amministrazione Bush ed i cittadini americani che gli Stati Uniti ed Israele dovevano affrontare la comune minaccia del terrorismo.
    Funzionari israeliani e membri della lobby più volte enfatizzarono il fatto che non c'erano reali differenze tra Arafat ed Osama Bin Laden, ed insistettero affinché gli Stati Uniti ed Israele isolassero completamente i leader palestinesi eletti democraticamente.
    La lobby inoltre si diede da fare anche al Congresso.
    Il 16 novembre, 89 senatori scrissero a Bush una lettera nella quale lo elogiavano per essersi rifiutato di incontrare Arafat, ma anche raccomandavano di non ostacolare le ritorsioni israeliane contro i palestinesi, ed insistevano perché l'Amministrazione affermasse pubblicamente il proprio fermo sostegno ad Israele.
    Secondo il New York Times, tale lettera «
    traeva origine da un meeting avvenuto due settimane prima tra la comunità ebraica americana ed alcuni senatori di primo piano», aggiungendo che l'AIPAC era stato «particolarmente attivo nel suggerire i contenuti della lettera».
    Già verso la fine di novembre le relazioni tra Washington e Tel Aviv erano migliorate sensibilmente.
    Questo grazie in parte agli sforzi della lobby per piegare la politica estera USA verso una direzione pro-Israele, ma anche grazie alle iniziali vittorie americane in Afghanistan, cosa che rendeva meno necessario il sostegno del mondo arabo per contrastare Al Qaeda.
    Sharon si recò presso la Casa Bianca in dicembre, ed ebbe un incontro amichevole con Bush.

    Ma le tensioni scoppiarono nuovamente nell'aprile 2002, quando l'esercito israeliano lanciò una pesante offensiva e riprese il controllo di tutte le aree palestinesi della Cisgiordania.
    Bush sapeva che le azioni israeliane avrebbero danneggiato l'immagine americana agli occhi del mondo arabo, ostacolando così la guerra al terrorismo, e pertanto chiese a Sharon di «
    fermare le incursioni ed iniziare il ritiro».
    Sottolineò due giorni più tardi il messaggio aggiungendo che esigeva un «
    ritiro immediato».
    Il 7 di aprile, il consigliere per la sicurezza nazionale Condolezza Rice disse ai giornalisti che «
    immediato significa immediato. Vuol dire adesso».
    Lo stesso giorno il Segretario di Stato Colin Powell partì per il Medio Oriente per cercare di convincere le parti a cessare il fuoco e a negoziare.
    Israele e la lobby si misero subito in azione.
    Il bersaglio privilegiato fu Powell, che fu sottoposto ad intense pressioni da parte di funzionari pro-Israele appartenenti allo staff del vice-presidente Cheney ed al Pentagono, oltre che da esponenti neocon di primo piano come Robert Kagan e William Kristol, che lo accusarono di aver «
    confuso i terroristi e quelli che li combattono».
    Un secondo obiettivo fu Bush stesso, sottoposto a forti pressioni da parte dei leader ebraici e cristiano evangelici, questi ultimi rappresentanti una parte importante del suo elettorato.
    Tom DeLay e Dick Armey furono particolarmente espliciti riguardo alla necessità di sostenere Israele; inoltre DeLay ed il leader della minoranza al Senato Trent Lott fecero visita personalmente alla Casa Bianca ammonendo Bush a fare marcia indietro.
    Ultima modifica di José Frasquelo; 08-01-10 alle 17:34

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    Post La lobby israeliana e la politica estera USA (Terza e Ultima Parte)

    Il primo segno che Bush stava cedendo arrivò l'11 aprile - solo una settimana dopo l'invito perentorio di Bush a Sharon - quanto Ari Fleisher disse che il presidente riteneva Sharon «un uomo di pace».
    Bush ripeté nuovamente in pubblico questa affermazione in occasione del ritorno di Powell dalla sua prima missione, e disse ai giornalisti di aver ricevuto da Sharon risposte soddisfacenti in merito al ritiro completo ed immediato.
    Sharon non aveva fatto assolutamente nulla, ma il presidente degli Stati Uniti non voleva più farne una questione.
    Nel frattempo, anche il Congresso si attivò per supportare Sharon.
    Il 2 maggio, senza tener conto delle obiezioni dell'Amministrazione, votò due risoluzioni riaffermando il sostegno ad Israele (al Senato fu approvata con 94 voti favorevoli e 2 contrari, alla Camera con 352 contro 21).
    Entrambe le risoluzioni sottolineavano che gli Stati Uniti erano «
    solidali con Israele» e che i due Paesi erano «impegnati in una comune guerra contro il terrorismo».
    La risoluzione alla Camera inoltre condannava il «sostegno al terrorismo fornito da Yesser Arafat», descritto come figura centrale del movimento terrorista.
    Qualche giorno più tardi, una delegazione bipartisan del Congresso in missione in Israele affermò pubblicamente che Sharon avrebbe dovuto opporsi alle pressioni di Bush per spingerlo a negoziare con Arafat.




    Il 9 di maggio una commissione della Camera si riunì e propose di dare ad Israele altri 200 milioni di dollari per combattere il terrorismo.
    Il Segretario di Stato Powell si oppose a tale provvedimento, ma la lobby invece lo appoggiò, proprio come in precedenza aveva partecipato alla redazione delle risoluzioni congressuali.
    Powell, ovviamente, perse.
    In poche parole, Sharon e la lobby sfidarono il presidente degli Stati Uniti e trionfarono.
    Hemi Shalev, un giornalista del quotidiano israeliano Ma'ariv disse che lo staff di Sharon «
    non potè nascondere la propria soddisfazione nel vedere la sconfitta di Powell».
    Ma furono le forze pro-Israele presenti negli Stati Uniti, non Sharon o Israele, che giocarono un ruolo chiave nella sconfitta di Bush.
    La situazione non è cambiata molto da allora.
    L'Amministrazione Bush si è sempre rifiutata di trattare con Arafat, che poi morì nel 2004. Successivamente ha riconosciuto il nuovo leader Mahmoud Abbas, ma non ha fatto nulla per aiutarlo.
    Sharon ha continuato i suoi piani di «disimpegno» unilaterale, basati sul ritiro da Gaza e la conseguente espansione in Cisgiordania, cosa che ha comportato la creazione della cosiddetta «fascia di sicurezza», la requisizione dei territori palestinesi e l'espansione di insediamenti ed infrastrutture.
    Rifiutandosi di negoziare con Abbas (che è favorevole ad una soluzione negoziale) ed impedendogli quindi di portare qualche beneficio ai palestinesi, la strategia di Sharon ha contribuito direttamente alla vittoria di Hamas nelle recenti consultazioni elettorali.




    Con Hamas al potere Israele ha un'altra scusa per non negoziare.
    L'Amministrazione USA ha sostenuto le politiche di Sharon (e quelle del suo successore, Ehud Olmert), e Bush ha perfino approvato l'annessione unilaterale da parte di Israele dei territori occupati, rovesciando la politica seguita da tutti i presidenti precedenti fin dai tempi di Lyndon Johnson.
    L'Amministrazione americana ha debolmente criticato alcune politiche israeliane, ma nel contempo ha fatto veramente poco per agevolare la costituzione di uno Stato palestinese.
    L'ex consigliere per la sicurezza nazionale Brent Scowcroft ha addirittura dichiarato, nell'ottobre 2004, che Sharon «
    tiene Bush appeso al suo dito mignolo».
    Se Bush prova a prendere le distanze da Israele, o solo si permette di criticare le azioni israeliane nei territori, certamente dovrà affrontare l'ira della lobby e dei suoi sostenitori al Congresso.
    I candidati presidenziali democratici capiscono anch'essi come stanno le cose, ed infatti questo spiega come mai John Kerry abbia più volte ribadito il suo fermo supporto ad Israele nel 2004 e perché Hillary Clinton stia facendo lo stesso adesso.
    Mantenere il sostegno USA alle politiche repressive di Israele nei confronti dei palestinesi è un obiettivo chiave della lobby, ma le sue ambizioni non si fermano qui.
    Essa vuole anche che gli USA aiutino Israele a rimanere la potenza dominante nella regione.
    Non sorprende infatti che il governo di Tel Aviv ed i gruppi pro-israeliani negli Stati Uniti abbiano lavorato molto insieme per condizionare la politica dell'Amministrazione Bush nei confronti dell'Iraq, della Siria e dell'Iran, nonché a favore del loro progetto di riordino del Medio Oriente.




    ISRAELE E LA GUERRA IN IRAQ - Le pressioni di Israele e della lobby non furono il solo fattore che spinse gli Stati Uniti ad attaccare l'Iraq, ma furono un elemento fondamentale.
    Alcuni americani ritengono si sia trattata di una «guerra per il petrolio», ma non c'è praticamente alcuna evidenza che supporti tale affermazione.
    Invece la guerra fu motivata principalmente dal desiderio di rendere Israele più sicuro.
    Secondo Philip Zeliknow, ex membro della President's Foreign Intelligence Advisory Board (2001-2003), direttore esecutivo della Commissione sull'11 settembre ed attualmente consigliere del Segretario di Stato Condoleezza Rice, la «minaccia reale» da parte dell'Iraq non era rivolta agli Stati Uniti.
    La «minaccia non dichiarata» era nei confronti di Israele, disse Zelikow ad una conferenza presso l'Università della Virginia nel settembre 2002, notando inoltre che «
    il Governo americano non vuole darne troppa pubblicità, perché non è un argomento popolare».
    Il 16 di agosto 2002, undici giorni prima che il vice presidente Dick Cheney desse inizio alla campagna a favore della guerra attraverso un duro discorso ai veterani, il Washington Post riportò che «
    Israele raccomanda agli Stati Uniti di non ritardare lo scontro militare contro l'Iraq di Saddam Hussein».
    Da questo punto in poi, secondo Sharon, il coordinamento strategico tra Israele e gli USA è arrivato a «livelli mai raggiunti prima», e funzionari israeliani hanno fornito a Washington numerose ed allarmanti informative sui programmi irakeni per le armi di distruzione di massa.
    Come disse un generale israeliano in pensione, «
    Israele è stato un partner fondamentale per i rapporti che l'intelligence americana e britannica ha presentato riguardo alle capacità irakene di dotarsi di armamenti non convenzionali».



    I leader israeliani erano profondamente preoccupati quando il Presidente Bush decise di cercare l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per muovere guerra all'Iraq, e tale preoccupazione aumentò quando Saddam acconsentì al ritorno degli ispettori ONU in Iraq, dal momento che tali avvenimenti sembravano ridurre le possibilità di un intervento militare.
    Il ministro degli Esteri Shimon Peres disse che «la
    campagna contro Saddam è una priorità. Le ispezioni e gli ispettori vanno bene per gente rispettabile, ma persone disoneste possono facilmente ostacolare le attività ispettive».
    Alle stesso tempo, l'ex primo ministro Ehud Barak scrisse al New York Times avvertendo che «
    attualmente il maggiore rischio è non fare nulla».
    Il suo predecessore, Benjamin Netanyahu, scrisse un articolo simile sul Wall Street Journal intitolato «
    I motivi per rovesciare Saddam».
    Netanyahu scrisse che «
    al giorno d'oggi è necessario fare nulla di meno se non smantellare il regime», ed aggiunse «io credo di parlare per la stragrande maggioranza degli israeliani quando sostengo la necessità di un attacco preventivo contro il regime di Saddam».
    Oppure come Ha'aretz riportò nel febbraio 2003: «
    i leader politici e militari israeliani vogliono fortemente la guerra in Iraq».
    Ma come suggerisce Netanyahu, la volontà di muovere guerra non era confinata ai leader israeliani. Oltre al Kuwait, che Saddam aveva conquistato nel 1990, Israele era l'unico Paese al mondo in cui sia i politici che la gente erano entusiasticamente a favore dell'intervento.
    Come il giornalista Gideon Levy osservò all'epoca, «Israele
    è il solo Paese occidentale i cui leader appoggiano la guerra senza riserve e non contemplano alcuna altra opzione».
    Infatti gli israeliani erano così esaltati per tale guerra che i loro alleati americano dovettero dir loro di abbassare i toni, perché altrimenti l'intervento militare sarebbe sembrato una guerra fatta per Israele.

    Le pressioni di Israele e della lobby non furono il solo fattore che spinse gli Stati Uniti ad attaccare l’Iraq, ma costituirono un elemento determinante.
    Alcuni americani ritengono si sia trattata di una «guerra per il petrolio», ma non c’è praticamente alcuna evidenza che supporti tale affermazione.
    La guerra fu, invece, motivata principalmente dal desiderio di rendere Israele più sicuro.
    Secondo Philip Zelikow, ex membro della President’s Foreign Intelligence Advisory Board (2001-2003), Direttore Esecutivo della Commissione sull’11 settembre e attualmente Consigliere del Segretario di Stato Condoleeza Rice, la «minaccia reale» da parte dell’Iraq non era rivolta agli Stati Uniti.
    La «minaccia non dichiarata» era nei confronti di Israele, disse Zelikow ad una conferenza presso l’Università della Virginia nel settembre 2002, notando inoltre che «il
    Governo americano non vuole dare troppa pubblicità alla cosa, perché non è un argomento popolare».
    Il 16 di Agosto 2002, undici giorni prima che il vice pesidente Dick Cheney desse inizio alla campagna a favore della guerra attraverso un duro discorso ai veterani, il Washington Post riportava che «Israele
    raccomanda agli Stati Uniti di non ritardare lo scontro militare contro l’Iraq di Saddam Hussein».
    Da questo punto in poi, secondo Sharon, il coordinamento strategico tra Israele e gli USA arrivò a «livelli mai raggiunti prima», e funzionari israeliani fornirono a Washington numerose ed allarmanti informative sui programmi irakeni per le armi di distruzione di massa.
    Come disse un generale israeliano in pensione, «
    Israele è stato un partner fondamentale per i rapporti che l’intelligence americana e britannica hanno presentato relativamente alle capacità irakene di dotarsi di armamenti non convenzionali».

    I leader israeliani erano profondamente preoccupati quando il Presidente Bush decisedi cercare l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per muovere guerra all’Iraq, e tale preoccupazione aumentò quando Saddam acconsentì al ritorno degli ispettori ONU in Iraq, dal momento che tali avvenimenti sembravano ridurre le possibilità di un intervento militare.
    Il ministro degli Esteri Shimon Peres disse che «
    la campagna contro Saddam è una priorità. Le ispezioni e gli ispettori vanno bene per gente rispettabile, ma persone disoneste possono facilmente ostacolare tali attività».
    Alle stesso tempo, l’ex primo mnistro Ehud Barak scrisse al New York Times avvertendo che «
    attualmente il maggiore rischio è non fare nulla».
    Il suo predecessore, Benjamin Netanyahu, pubblicò un articolo simile sul Wall Street Journal intitolato «
    I motivi per rovesciare Saddam».
    Netanyahu scrisse che «
    al giorno d’oggi è necessario fare niente di meno se non smantellare il regime», ed aggiunse «io credo di parlare per la stragrande maggioranza degli israeliani quando sostengo la necessità di un attacco preventivo contro il regime di Saddam».
    Oppure come Ha’aretz riportò nel febbraio 2003: «
    i leader politici e i militari israeliani vogliono fortemente la guerra in Iraq».
    Ma come suggerisce Netanyahu, la volontà di muovere guerra non era confinata ai leader israeliani. Oltre al Kuwait, che Saddam aveva conquistato nel 1990, Israele era l’unico Paese al mondo in cui sia i politici che la gente erano entusiasticamente a favore dell’intervento.
    Come il giornalista Gideon Levy osservò all’epoca, «
    Israele è il solo Paese occidentale i cui leader appoggiano la guerra senza riserve e non contemplano alcuna altra opzione».
    Infatti gli israeliani erano così entusiasti per tale guerra che i loro alleati americano dovettero dir loro di abbassare i toni, perché altrimenti l’intervento militare sarebbe sembrato una guerra fatta per Israele.

    Per quanto riguarda la lobby e la guerra all’Iraq, all’interno degli Stati Uniti le principali spinte verso l’intervento furono fatte da un manipolo di neocon, molti dei quali strettamente legati al partito politico israeliano Likud.
    Inoltre, i principali leader delle organizzazioni legate alla lobby fecero attivamente campagna in favore della guerra.
    Secondo il Forward, «
    quando il Presidente Bush cercò di raccogliere consensi per la guerra in Iraq, le principali organizzazioni ebraiche americane si precipitarono in suo appoggio. In numerosi interventi i leader della comunità insistettero sull’importanza di liberarsi di Saddam e delle sua armi di distruzione di massa».
    L’editoriale proseguiva dicendo che «
    le preoccupazioni per la sicurezza di Israele hanno pesantemente influito sulle posizioni del principali gruppi ebraici».
    Benché i neocon e gli altri leader della lobby fossero entusiasti all’idea di invadere l’Iraq, la grande maggioranza della comunità ebraica americana non lo era affatto.
    Infatti, Samuel Freedman ha riportato che da un sondaggio di opinione condotto dal Pew Research Center, emerse che gli ebrei erano meno favorevoli alla guerra rispetto alla media della popolazione, rispettivamente 52% contro 62%.
    Pertanto, non è corretto sostenere che la decisione sulla guerra in Iraq fu influenzata della comunità ebraica.
    Piuttosto, essa fu in gran parte determinata dalle pressioni della lobby, e specialmente da quelle dei suoi membri neocon.

    I neocon stessi erano determinati a rovesciare Saddam ben prima che Bush diventasse presidente.
    Essi provocarono polemiche nel 1998 pubblicando due lettere aperte rivolte al presidente Clinton dove caldeggiavano la rimozione di Saddam.
    I firmatari, molti dei quali avevano stretti legami con gruppi pro-Israele come il JINSA o il WINEP, ed i cui ranghi includevano Elliot Abrams, John Bolton, Douglas Feith, William Kristol, Bernar Lewis, Donald Rumsfeld, Richard Perle e Paul Wolfowitz, non ebbero difficoltà a convincere l’amministrazione Clinton a darsi come obiettivo l’eliminazione di Saddam.
    Ma i neocon non furono in grado di far accettare una guerra per ottenere tale obiettivo.
    Né furono capaci di generare entusiasmo all’idea di invadere l’Iraq nei primi mesi dell’amministrazione Bush: i neocon necessitavano di un aiuto per raggiungere l’obiettivo della guerra.
    E tale aiuto arrivò con l’11 settembre.
    In particolare, gli eventi di quel giorno portarono Bush e Cheney a cambiare rotta e a diventare accesi sostenitori di una guerra preventiva contro Saddam.
    I noecon della lobby - in particolare Scooter Libby, Paul Wolfowitz e lo storico di Princeton Bernard Lewis - ebbero un importante ruolo nel convincere il presidente ed il suo vice a muovere la guerra.
    Per i neocon, l’11 settembre fu un’opportunità formidabile per promuovere la causa della guerra in Iraq.




    In un importante incontro con Bush a Camp David il 15 settembre, Wolfowitz propose di attaccare l’Iraq prima dell’Afghanistan, anche se non c’era alcuna prova che Saddam fosse implicato negli attacchi contro gli USA, ed era ben noto che Bin Laden fosse in Afghanistan.
    Bush respinse tale consiglio e decise di invadere l’Afghanistan, ma la guerra in Iraq diventò comunque una seria possibilità ed il Presidente chiese agli strateghi militari di preparare piani operativi per l’invasione.
    Intanto, altri neocon erano al lavoro nei corridoi del potere.
    Non conosciamo ancora tutta la storia, ma pare che accademici come Lewis e Fouad Ajami della John Hopkins University abbiamo giocato un ruolo importante nel convincere il vice presidente Cheney della necessità di muovere guerra.
    Le opinioni di Cheney furono inoltre pesantemente influenzate dai neocon del suo staff, specialmente da Eric Edelman, John Hannah ed anche dal capo dello staff Libby, una delle persone più potenti dell’amministrazione.
    L’influenza sul vice presidente aiutò a convincere Bush all’inizio del 2002.
    Con Bush e Cheney dalla loro parte, il dado della guerra era tratto.
    Fuori dall’amministrazione, i neocon non persero tempo per propagandare l’idea che l’invasione dell’Iraq fosse essenziale per vincere la guerra al terrorismo.
    I loro sforzi erano mirati sia a tenere sotto pressione Bush che a superare le posizioni contrarie alla guerra sia interne che esterne al governo.




    Il 20 di settembre, un gruppo di importanti neoconservatori ed i loro alleati pubblicarono un’altra lettera aperta, dicendo al presidente che «anche se non vi è evidenza di un legame diretto tra l’Iraq e gli attacchi dell’11 settembre, qualunque strategia che miri a sradicare il terrorismo ed i suoi sponsor deve prevedere un impegno risoluto a rimuovere Saddam Hussein dal potere
    in Iraq
    ».
    La lettera inoltre ricorda a Bush che «
    Israele è stato e rimane il più fedele alleato dell’America contro il terrorismo internazionale».
    Nell’edizione del primo ottobre del Weekly Standard, Robert Kagan e William Kristol caldeggiarono un cambio di regime in Iraq immediatamente dopo la sconfitta dei Talebani.
    Nello stesso giorno, Charls Krauthammer ragionava sul Washington Post che dopo aver sistemato l’Afghanistan, sarebbe stata la volta della Siria, seguita dall’Iran e dall’Iraq.
    «
    La guerra contro il terrorismo», diceva, «si concluderà a Baghdad» quando annienteremoil «più pericoloso regime terrorista del mondo».
    Queste uscite rappresentavano l’inizio di una martellante campagna per costruire il consenso a favore dell’invasione dell’Iraq.




    Una parte fondamentale di questa campagna fu la manipolazione delle informazioni di intelligence, in modo da far sembrare Saddam una minaccia imminente.
    Ad esempio Libby fece visita molte volte alla CIA per fare pressioni sugli analisti affinché questi trovassero prove tali da giustificare l’intervento, ed aiutò a preparare un rapporto dettagliato sulla minaccia irakena all’inizio del 2003, che fu portato avanti da Colin Powell, e contribuì a preparare il suo scellerato intervento davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sull’Iraq. Secondo Bob Woodward, Powell
    «…era sgomento nei confronti di quello che riteneva un’esagerazione e mistificazione dei fatti. Libby aveva tratto le più estreme conclusioni da informazioni parziali e frammentarie».
    Sebbene Powell respinse le affermazioni più eccessive di Libby, «
    la presentazione davanti all’ONU fu piena di errori ed omissioni, come lo stesso Powell adesso riconosce».
    La campagna di manipolazione dell’intelligence coinvolse inoltre anche sue organizzazioni che furono create dopo l’11 settembre e che rispondevano direttamente al Sottosegretario alla Difesa Douglas Feith.
    Al Policy Counterterrorism Evaluation Group fu assegnato il compito di trovare quei legami tra Al Qaeda e l’Iraq che l’intelligence, secondo loro, non aveva trovato.
    I suoi due membri chiave erano Wurmser, un neocon convinto, e Michael Maloof, un libanese-americano che aveva stretti legami con Perle.
    All’Office of Special Plans fu assegnato il compito di trovare prove che potessero essere usate per promuovere la causa della guerra all’Iraq.
    Era capeggiata da Abram Shulsky, un neocon che aveva stretti legami con Wolfowitz, ed il suo personale includeva membri di diversi «think tank» pro-Israele.

    Come praticamente tutti i neocon, Feith è profondamente impegnato a favore di Israele.
    E’ anche da lungo tempo legato al partito politico Likud.
    Scrisse articoli negli anni ‘90 a favore degli insediamenti e sostenendo che Israele avrebbe dovuto tenere il controllo dei territori occupati.
    Di più, assieme a Perle e Wusmer, scrisse il famoso «Clean Break» report nel giugno 1996 per il neo primo ministro israeliano Netanyahu.
    Fra le altre cose, esso raccomandava a Netanyahu che «
    l’impegno per rovesciare Saddam Hussein dal potere in Iraq era un importante obiettivo strategico per Israele».
    Lo stesso report caldeggiava iniziative di Israele per riordinare l’intero medio Oriente.
    Netanyahu non mise in pratica i loro consigli, ma ben presto Feith, Perle e Wursmer chiesero all’amministrazione Bush di impegnarsi per gli stessi obiettivi.
    Tale situazione fece scrivere all’editorialista Akiva Eldar di Ha’aretz che «
    Feith e Perle stanno camminando su una linea sottile che separa la fedeltà al governo americano e gli interessi di Israele».
    Wolfowitz è ugualmente impegnato a favore di Israele.
    Il «Forward» una volta lo descrisse come «
    il falco più favorevole ad Israele nell’amministrazione Bush» e lo premiò come persona «consapevolmente attiva per la causa ebraica».
    Nello stesso periodo, il JINSA lo insignì del «Henry M. Jackson Distinguished Service Award» per aver promosso una stretta patnership tra Israele e gli Stati Uniti, ed il Jerusalem Post, descrivendolo come «devotamente pro-Israele», lo nominò «Uomo dell’Anno» nel 2003.

    Infine, va spesa qualche parola per parlare del sostegno fornito dai neocon nel periodo precedente la guerra ad Ahmed Chalabi, esiliato irakeno senza scrupoli, presidente dell’Iraqi National Congress (INC).
    Essi sostennero Chalabi in quanto costui si era impegnato per stabilire stretti legami con i gruppi ebreo-americani e per promuovere buone relazioni con Israele una volta raggiunto il potere in Iraq. Questo era proprio quanto i gruppi pro-Israele volevano sentire, e pertanto lo appoggiarono.
    Il giornalista Mattew Berger espose i dettagli dell’accordo nel Jewish Journal: «
    l’INC attraverso il miglioramento delle relazioni si proponeva di assicurarsi l’influenza dei gruppi ebrei a Washington e Gerusalemme, e di vedere sostenuta la propria causa. Dalla loro parte, i gruppi pro-Israele speravano in un miglioramento delle relazioni tra Israele ed Iraq, se e quando l’INC avesse sostituito Saddam Hussein».
    Data la devozione dei neocon per Israele, la loro ossessione per l’Iraq e la loro influenza sull’amministrazione Bush, non sorprende il fatto che molti americani abbiamo sospettato che la guerra fu fatta per favorire gli interessi di Israele.
    Ad esempio Barry Jacobs dell’American Jewish Committee riconobbe nel marzo del 2005 che l’idea che Israele ed i neocon avessero dato vita ad una cospirazione per portare gli Stati Uniti in guerra contro l’Iraq era «diffusa» all’interno dell’intelligence USA.
    Tuttavia poche persone la hanno manifestata in pubblico, e quelli che lo fecero, incluso il senatore Ernest Holligs ed il membro della Camera dei Rappresentanti James Moran sono stati criticati per aver sollevato la questione.
    Michael Kinsley puntualizzò bene alla fine del 2002, quando scrisse che «
    la mancanza di discussione pubblica sul ruolo di Israele … è il proverbiale elefante nella stanza: tutti lo vedono ma nessuno ne parla».
    La ragione per questa reticenza, osservò, era il timore di essere dichiarati anti-semiti.
    In ogni caso, ci sono pochi dubbi che Israele e la lobby siano stati fattori determinanti per la decisione di muovere guerra all’Iraq.
    Senza gli sforzi della lobby, le possibilità che gli Stati Uniti andassero in guerra sarebbero state molto minori.

    Sognando una trasformazione regionale non si pensava che la guerra in Iraq fosse un costoso pantano.
    Era stata immaginata infatti come il primo passo di un piano più vasto per risistemare il Medio Oriente.
    Questa ambiziosa strategia ha rappresentato una notevole deviazione rispetto alle precedenti politiche USA, e la lobby ed Israele sono state le forze che hanno spinto verso tale cambiamento. Questo punto è stato reso manifesto da un articolo in prima pagina del Wall Street Journal, apparso dopo che la guerra in Iraq era iniziata.
    Esso diceva: «
    il sogno del presidente: cambiare non solo un regime, ma l’intera regione: una vasta area democratica, pro-USA è un obiettivo che ha radici neocon ed israeliane».
    Le forze pro-Israele sono state per molto tempo interessate a fare in modo che l’esercito americano fosse più direttamente coinvolto nel Medio Oriente, in modo da proteggere Israele.
    Ma esse ebbero scarso successo durante la guerra fredda, poiché l’America agì come un «arbitro estraneo» nella regione.
    La maggior parte delle forze USA di stanza nel Medio Oriente, come la Rapid Deployment Force, furono mantenute fuori dai teatri di combattimento.
    Washington bilanciò le potenze in gioco facendo in modo che si combattessero le une con le altre; infatti questo è il motivo per cui l’Amministrazione Reagan sostenne Saddam contro l’Iran durante la guerra (1980-88).

    Questa politica cambiò dopo la prima Guerra del Golfo, quando l’Amministrazione Clinton adottò la strategia del «doppio contenimento».
    Essa prevedeva la presenza di molte truppe USA nella regione per poter contenere sia l’Iran che l’Iraq, invece di lasciare che si controllassero a vicenda.
    Il padre di tale dottrina fu Martin Indyk, che per primo delineò tale strategia nel maggio 1993 presso il think-tank pro-Israeliano WINEP, e la mise in pratica in qualità di direttore per il gli Affari del Vicino Oriente e del Sud Asia al National Security Council.
    Ci fu molto disappunto nei confronti di tale dottrina alla metà del 1990, dal momento che rese gli Stati Uniti il nemico numero uno di due Paesi che tra l’altro si odiavano, e costrinse Washington a farsi carico del contenimento di entrambi.
    Non sorprende il fatto che la Lobby lavorò attivamente al Congresso per salvare il «doppio contenimento».
    A causa di pressioni da parte dell’AIPAC e di altre forze pro-Israele, Clinton inasprì tali politiche nella primavera del 1995 imponendo un embargo economico contro l’Iran.
    Ma l’AIPAC voleva di più.
    Il risultato fu l’Iran and Libya Sanctions Act del 1996, che impose sanzioni a tutte le compagnie straniere che investivano più di 40 milioni di dollari in progetti petroliferi in Iran e Libia.
    Come Ze’ev Schiff, il corrispondente militare di Ha’aretz, notò all’epoca, «Israele non è che un piccolo elemento di un sistema molto più grande, ma per questo non si può concludere che non riesca ad influenzare quelli che contano».

    Verso la fine degli anni ‘90, comunque, i neocon sostenevano che la dottrina del doppio contenimento non era sufficiente e che un cambio di regime in Iraq era diventato essenziale. Rovesciando Saddam e trasformando l’Iraq in una vivace democrazia, pensavano, gli Stati Uniti avrebbero innescato un vasto processo di cambiamento in tutto il Medio Oriente.
    Questa linea di pensiero era evidente nello studio «Clean Break» che i neocon prepararono per Netanyahu.
    Nel 2002, quando l’invasione dell’Iraq era diventata una questione «calda», la trasformazione dell’intera regione era il «credo» dei circoli neocon.
    Charles Krauthammer descrive questo grande schema come l’idea di Natan Sharansky, il politico israeliano i cui scritti avevano colpito il presidente Bush.
    Ma Sharansky non era una voce isolata in Israele.
    Infatti, molti politici israeliani ritenevano che il rovesciamento di Saddam avrebbe cambiato il Medio Oriente a favore di Israele.
    Aluf Benn riportò su Ha’aretz (17 febbraio 2003), «
    alti ufficiali dell’esercito, e funzionari vicini al primo ministro Sharon, come il consigliere per la Sicurezza Nazionale Ephraim Halevy,prospettano un futuro roseo per Israele dopo la guerra. Immaginano infatti un effetto domino, nel quale la caduta di Saddam venga seguita da quella degli altri nemici di Israele…Insieme a tali leader scompariranno anche il terrorismo e le armi di distruzione di massa».
    In breve i leader israeliani, i neocon e l’Amministrazione Bush videro tutti nella guerra in Iraq il primo passo di un ambizioso piano per cambiare il volto al Medio Oriente.
    Ed al primo accenno di vittoria, essi volsero lo sguardo minaccioso agli altri avversari di Israele nella zona.

    I leader israeliani non fecero pressioni sull’Amministrazione Bush per spingerla contro la Siria fino al marzo 2003, in quanto erano troppo occupati a sostenere la guerra in Iraq.
    Ma quando Baghdad cadde verso la metà di aprile, Sharon ed il suo entoruage cominciarono ad incitare Washington contro Damasco.
    Il 16 di aprile, ad esempio, Sharon e Shaul Mofaz, il suo ministro della Difesa, fornirono due importanti interviste in due diversi giornali.
    Sharon, su Yedioth Ahronoth, invitò gli americani a fare pressioni «molto forti» contro la Siria. Mofaz disse ad Ma’ariv che «
    abbiamo molte questioni che dobbiamo risolvere con la Siria, e pensiamo sia appropriato farlo attraverso gli USA».
    Epraim Halevy, consigliere per la Sicurezza Nazionale di Sharon, disse alla platea del WINEP che era importante per gli Stati Uniti fare pressioni sulla Siria, ed il Washington Post riportò che Israele stava «alimentando la campagna» contro la Siria fornendo all’intelligence USA dossier sulle attività del presidente siriano Assad.
    Importanti membri della Lobby usarono le stesse argomentazioni dopo la caduta di Baghdad. Wolfowitz disse che «
    deve esserci un cambiamento di regime in Siria» e Richard Perle disse ad un giornalista che «dobbiamo inviare un breve messaggio, di due parole, ai regimi ostili del Medio Oriente: ‘adesso tocca a voi’».



    All’inizio di aprile, il WINEP rilasciò un report nel quale sosteneva che la Siria «non avrebbe dovuto ignorare il messaggio secondo cui i Paesi che perseguono le stesse politiche irresponsabili e provocanti di Saddam, finiranno per fare la stessa fine dell’Iraq».
    Il 15 di aprile Yossi Klein Valevi scrisse un articolo sul Los Angeles Times intitolato: «Ora, puntare sulla Siria», mentre il giorno seguente Zev Chafets scrisse un articolo per il New York Daily intitolato «Anche il regime filo-terrorista della Siria deve cambiare».
    Per non essere da meno, Lawrence Kaplan scrisse sul New Republic, il 21 aprile, che il leader siriano Assad era una seria minaccia per l’America.
    Tornando a Capitol Hill, il membro del Congresso Eliot Engel il 17 aprile reintrodusse il Syria Accountability and Lebanese Sovereignty Restoration Act.
    Minacciò sanzioni contro la Siria se non si fosse ritirata dal Libano, avesse abbandonato i progetti sulle armi di distruzione di massa e non avesse fermato il sostegno al terrorismo.
    Invitò inoltre Siria e Libano a passi concreti per arrivare alla pace con Israele.
    Tali provvedimenti furono fortemente sostenuti dalla lobby - specialmente dall’AIPAC - e furono preparati, secondo la Jewish Telegraph Agency, da «alcuni dei migliori amici di Israele dentro il Congresso».
    Tali provvedimenti erano finiti nel dimenticatoio per un po’di tempo, principalmente perché l’Amministrazione Bush non ne era entusiasta, ma ciononostante furono votati da una vasta maggioranza, sia alla Camera che al Senato, e Bush li firmò il 12 dicembre 2003.
    In ogni caso l’Amministrazione Bush era ancora divisa sull’opportunità di muoversi contro la Siria in quel momenti.
    Benché i neocon spingevano per l’azione contro Damasco, la CIA ed il Dipartimento di Stato erano contrari.
    Ed anche dopo la firma della legge, Bush stesso disse che l’avrebbe messa in pratica in tempi lunghi.

    L’ambivalenza di Bush è comprensibile.
    Dapprima, il Governo siriano aveva fornito agli USA importanti informazioni su Al Quaeda dopo l’11 settembre, ed aveva avvisato Washington di un possibile attacco terroristico nel Golfo.
    La Siria aveva inoltre consentito agli investigatori della CIA di interrogare Mohamed Zammar, un presunto reclutatore dei dirottatori dell’11 settembre.
    Colpire Assad avrebbe significato mettere a repentaglio questi importanti contatti, e di conseguenza la guerra al terrorismo stessa.
    In secondo luogo, la Siria non era in cattivi rapporti con Washington prima della guerra in Iraq (ad esempio, votò anche a favore della risoluzione 1441 dell’ONU), e non rappresentava alcuna minaccia per gli USA.
    Colpire la Siria avrebbe fatto apparire gli USA come dei prepotenti desiderosi soltanto di distruggere gli Stati arabi.
    Infine, mettere la Siria nella lista dei bersagli americani avrebbe fornito a Damasco un forte incentivo a creare problemi in Iraq.
    Anche se qualcuno voleva fare pressioni sulla Siria, sarebbe stato saggio finire prima il lavoro in Iraq.
    Ma il Congresso insistette per mettere Damasco nell’angolo, in gran parte a causa di pressioni da parte di Israele e di gruppi pro-Israele come l’AIPAC.
    Se non ci fosse stata la lobby, non ci sarebbe stato il Syria Accountability Act e la politica verso Damasco sarebbe stata più in linea con gli interessa nazionali americani.




    Gli israeliani tendono a descrivere ogni minaccia nei termini più duri, ma l’Iran è generalmente visto come il loro avversario più pericoloso, in quanto è quello che con maggiore probabilità potrebbe dotarsi di armi nucleari.
    Praticamente tutti gli israeliani vedono un Paese islamico del Medio Oriente con armi nucleari come una minaccia alla loro esistenza.
    Come il ministro della Difesa Binyamin Ben Elizer notò un mese prima della guerra in Iraq: «
    l’Iraq è un problema, ma dovreste rendervi conto che al giorno d’oggi l’Iran è un problema ancora più grande».
    Sharon iniziò pubblicamente a spingere Bush contro l’Iran nel novembre del 2002, in un’intervista di alto profilo al Times di Londra.
    Descrivendo l’Iran come «il centro del terrorismo mondiale», e desideroso di dotarsi di armi nucleari, disse che l’Amministrazione Bush avrebbe dovuto confrontarsi duramente con l’Iran
    «il giorno dopo» aver conquistato l’Iraq.
    Alla fine del mese di aprile 2003, Ha’aretz riportò che l’ambasciatore israeliano a Washington spingeva per un cambio di regime.
    Il rovesciamento di Saddam, disse
    «non è abbastanza».
    Con le sue parole, l’America «
    doveva andare avanti. Abbiamo ancora gravi minacce provenienti da Siria ed Iran».
    Nemmeno i neocon persero tempo per promuovere la causa di un cambio di regime a Teheran.




    Il 6 di maggio, l’AEI sponsorizzò una conferenza sull’Iran insieme alla Israel Foundation for the Defense od Democracies e l’Hudson Institute.
    Tutti gli interventi furono manifestamente pro-Israele, e molti chiesero agli Stati Uniti di sostituire il regime iraniano con una democrazia.
    Come sempre, ci furono molti articoli dei neocon che sostenevano l’idea di una guerra contro l’Iran.
    Ad esempio, William Kristol scrisse nel Weekly Standard il 12 di Maggio che «
    la liberazione dell’Iraq fu la prima vera battaglia per il futuro del Medio Oriente … ma la prossima futura battaglia, speriamo non militare sarà per l’Iran».
    L’Amministrazione Bush rispose alle pressioni della lobby lavorando per fermare il programma nucleare iraniano.
    Ma Washington ebbe scarso successo, e l’Iran sembra infatti determinato a voler dotarsi di armi nucleari.
    Come risultato, la lobby ha intensificato le se pressioni sul governo USA, usando tutte le strategie del suo repertorio.
    Articoli che mettono in guardia contro la minaccia nucleare iraniana, manifestano diffidenza su eventuali ravvedimenti di un «regime terrorista» e suggeriscono un attacco preventivo se gli sforzi diplomatici dovessero fallire.
    La lobby sta anche spingendo il Congresso ad approvare l’Iran Freedom Support Act, che dovrebbe potenziare le sanzioni contro l’Iran.
    Funzionari israeliani inoltre fanno sapere che potrebbero fare da soli un attacco preventivo con l’Iran se questo persevera nei suoi propositi nucleari.

    Qualcuno potrebbe obiettare che Israele e la lobby non hanno avuto molte influenza sulla politica USA nei confronti dell’Iran, dal momento che gli Stati Uniti hanno le loro ragioni per impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari.
    Questo è parzialmente vero, ma le ambizioni nucleari dell’Iran non sono una minaccia mortale contro gli Stati Uniti.
    Se Washington ha potuto vivere con potenze nucleari come la Russia, la Cina e persino la Corea del Nord, allora può vivere anche con un Iran dotato dell’atomica.
    E questo è il motivo per cui la lobby deve mantenere una pressione costante sui politici USA contro Teheran.
    Se non esistesse la lobby, gli Stati Uniti e l’Iran sarebbero difficilmente alleati, ma le politiche USA sarebbero più moderate e la guerra non sarebbe un’opzione reale.

    Non sorprende che Israele ed i suoi sostenitori americani desiderino che gli Stati Uniti si occupino di tutte le minacce alla sicurezza di Israele.
    Se il loro sforzo per influenzare la politica USA avrà successo, allora i nemici di Israele verrebbero indeboliti o rovesciati, Israele avrebbe mano libera in Palestina, mentre l’onere di combattere, morire, ricostruire e pagare ricadrebbe principalmente sugli Stati Uniti.
    Ma anche se gli Stati Uniti fallissero nel trasformare il Medio Oriente e si trovassero in conflitto con un mondo islamico sempre più radicalizzato, Israele sarebbe comunque protetta dall’unica superpotenza mondiale.
    Questo non sarebbe per la lobby il risultato ottimale, ma sarebbe comunque preferibile rispetto ad un allontanamento di Washington da Israele, od alla possibilità che gli USA spingano Israele ad un accordo di pace con i palestinesi.
    In conclusione ci si chiede se sia possibile limitare il potere della lobby.
    Si potrebbe pensare di si, vista l’attuale debacle in Iraq, la manifesta necessità di ricostruire l’immagine dell’America nei confronti del mondo arabo, e le recenti rivelazioni riguardo funzionari dell’AIPAC che hanno passato informazioni riservate americane ad Israele.
    Si potrebbe inoltre pensare che la morte di Arafat e l’elezione del più moderato Abu Mazen potrebbe spingere Washington ad esercitare forti pressioni su entrambe le parti per convincerle a raggiungere un accordo di pace equilibrato.
    In breve, ci sono molte buone ragioni che dovrebbero spingere i leader USA a prendere le distanze dalla lobby ed adottare una politica estera più vicina agli interessi degli Stati Uniti.




    In particolare, se l’America utilizzasse il suo ruolo di superpotenza per spingere Israele e Palestina verso una pace giusta, contribuirebbe a raggiungere l’importante obiettivo di combattere l’estremismo e promuoverebbe la democrazia nella regione mediorientale.
    Ma questo non accadrà nel breve periodo.
    L’AIPAC ed i suoi alleati (inclusi i cristiano sionisti) non hanno seri oppositori nel mondo delle lobby.
    Sanno che oggi è più difficile promuovere la causa di Israele, e per questo hanno potenziato le loro attività ed il loro staff.
    Inoltre, i politici americani sono molto sensibili alle campagne di contributi e ad altre forme di pressioni politiche; e poi i principali media rimarranno comunque favorevoli ad Israele, qualunque cosa esso faccia.
    Questa situazione è profondamente preoccupante, in quanto l’influenza della lobby causa molti problemi su diversi fronti.
    E’ responsabile dell’aumento del pericolo terroristico per tutto l’Occidente - includendo sia l’America che i suoi alleati europei.
    Impedendo ai leader americani di fare pressioni su Israele per raggiungere un accordo di pace, la lobby ha di fatto reso impossibile la risoluzione del conflitto israelo-palestinese.
    Questa situazione fornisce agli estremisti le motivazioni per reclutare nuovi attivisti, aumenta il bacino dei possibili terroristi e simpatizzanti, e contribuisce alla radicalizzazione del mondo islamico.
    Inoltre, la campagna della lobby per un cambio di regime in Iran e Siria potrebbe portare gli Stati Uniti ad attaccare questi paesi, con effetti potenzialmente disastrosi.




    Non abbiamo bisogno di un altro Iraq.
    Come minimo, l’ostilità della lobby nei confronti di questi Paesi rende difficile per Washington ottenere li loro appoggio contro Al Qaeda e contro gli insorti in Iraq, cosa che sarebbe decisamente auspicabile.
    C’è anche una dimensione morale del problema.
    Grazie alla lobby, gli Stati Uniti sono diventati di fatto coloro che hanno permesso ad Israele di espandersi nei territori occupati, diventando così complici dei crimini commessi da Israele nei confronti dei palestinesi.
    Questa situazione mina gli sforzi di Washington per promuovere la democrazia fuori dai propri confini, ed espone gli Stati Uniti all’accusa di ipocrisia quanto questi fanno pressioni verso altri Stati per il rispetto dei diritti umani.
    Gli sforzi USA per limitare la proliferazione nucleare appaiono altrettanto ipocriti visto che essi non sollevano obiezioni nei confronti dell’arsenale nucleare israeliano, che incoraggia l’Iran ed altri Stati a dotarsi di armamenti simili.
    Inoltre, la campagna della lobby per sopprimere il dibattito su Israele è dannosa per la democrazia. Ridurre al silenzio gli scettici organizzando liste nere i boicottaggi - o affermando che i critici di Israele sono anti-semiti - vìola i principi del libero dibattito dai quali dipende la democrazia stessa. L’impossibilità per il Congresso di fare una discussione libera ed incondizionata su tali vitali questioni paralizza l’intero processo decisionale democratico.
    I sostenitori di Israele dovrebbero essere liberi di promuovere la loro causa e di criticare chi non è d’accordo con loro.
    Ma gli sforzi per impedire il dibattito tramite l’intimidazione devono essere condannati da chi crede nella libertà di espressione e discussione delle questioni pubbliche.

    Infine, l’influenza della lobby è dannosa per Israele.
    Le pressioni su Washington per sostenere i progetti espansionistici hanno scoraggiato Israele a cogliere delle opportunità - incluso un trattato di pace con la Siria ed una pronta e piena implementazione degli accordi di Oslo - che avrebbe salvato la vita di molti israeliani e ridotto i ranghi degli estremisti palestinesi.
    Negare alla Palestina i loro legittimi diritti politici non ha certamente reso Israele più sicuro, e le lunghe campagne per uccidere od isolare i leader palestinesi hanno dato forza a gruppi estremisti come Hamas, e ridotto i leader in grado di accettare un buon accordo e farlo funzionare.
    Questa situazione evoca lo spaventoso spettro dello Stato di Israele che riveste agli occhi del mondo il ruolo di Stato-pariah, come nel caso del Sud Africa quando era promotore dell’apartheid. Ironicamente, Israele sarebbe un posto migliore se la lobby fosse meno potente e la politica americana più equilibrata.
    Ma c’è un raggio di speranza.
    Benché la lobby rimanga una forza potente, i nefasti effetti della sua influenza sono sempre più difficili da nascondere.
    Stati forti possono perseguire politiche sbagliate per un certo periodo, ma la realtà non può essere ignorata per sempre.
    Quello che è necessario, quindi, è una sincera discussione sull’influenza della lobby ed un aperto dibattito sugli interessi USA in questa regione di vitale importanza.
    La prosperità di Israele è uno di tali interessi, ma non lo è la sua continua occupazione della Cisgiordania e più in generale i suoi progetti espansionistici nella regione.
    Un dibattito aperto mostrerebbe i limiti delle motivazioni strategiche e morali per il sostegno a senso unico degli USA nei confronti di Israele, e potrebbe portare gli Stati Uniti verso posizioni più compatibili con i propri interessi nazionali, con gli interessi degli altri Stati della regione, ed anche con gli stessi interessi a lungo termine di Israele.

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    Predefinito Rif: La lobby israeliana e la politica estera USA

    L'Aipac è il principale sponsor della politica estera neo-cons. Il conservatore americano Russell Kirk una volta disse che i neo-cons condondevano Tel Aviv con Washington, come Capitale degli U.S.A.
    Comunque molti sostenitori di Obama detestano l'Aipac:

    Brzezinski: la lobby ebraica Usa opera un «maccartismo nei confronti dei critici d'Israele»

    di Alessandra Farkas - 29/05/2008

    Fonte: Corriere della Sera [scheda fonte]


    L'ex consigliere di Jimmy Carter oggi vicino a Obama attacca i conservaotri dell'Aipac: non vogliono la pace

    Era l'ultima cosa di cui Barack Obama aveva bisogno, dopo l'accoglienza glaciale riservatagli dagli ebrei della Florida e dopo la recente gaffe su Auschwitz, da lui scambiata per Buchenwald. In un'intervista all'inglese Daily Telegraph il suo consigliere in politica estera, Zbigniew Brzezinski, ha accusato l'establishment ebraico-americano di «maccartismo nei confronti dei critici d'Israele». Definendo la lobby ebraica Usa «troppo potente » e «troppo prona a tacciare d'antisemitismo chiunque osi criticare lo Stato Ebraico».

    Nel mirino dell'80enne politologo di origine polacca è l'American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), la più grande e influente lobby ebraica statunitense (oltre 100 mila iscritti e un budget annuo che supera i 100 milioni di dollari), da lui accusata di «dettare legge alla politica mediorientale Usa». E di «intimidire chiunque, fuori e dentro il Congresso, non sposa i suoi dogmi». Che cosa hanno in comune l'AIPAC e Joseph McCarthy, il famigerato senatore repubblicano autore della caccia alle streghe anticomunista degli anni '50 che penalizzò soprattutto i «creativi» ebrei di Hollywood? «Entrambi usano la calunnia e la demonizzazione, al posto della dialettica», replica Brzezinski, che definisce «paranoia pura» l'abitudine dell'AIPAC di bollare come anti-israeliano «ogni tentativo di pace in Medio Oriente».

    Le dichiarazioni sono piovute come una doccia fredda sul frontrunner democratico, da tempo in difficoltà con l'elettorato ebraico, critico della sua intenzione di dialogare con l'Iran e timoroso di un allentamento nel rapporto speciale degli Usa con Israele, se Obama verrà eletto. Brzezinski, ex-consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, da anni inviso agli ebrei neocon, ha mostrato ai critici di Obama il suo vero tallone d'Achille. «È il colpo di grazia che affonderà le sue sorti», punta il dito Ed Lasky, editore dell'influente rivista online American Thinker, «quest'ultima boutade dimostra quanto problematico è l'atteggiamento di Obama non solo verso Israele ma anche nei confronti del mondo ebraico Usa».

    Non è la prima volta che l'intellighenzia ebraica Usa accusa Brzezinski di antisemitismo per le sue persistenti critiche anti-Israele, da lui accusata di «eccesso di forza» e «rifiuto del compromesso». Lo scorso anno Brzezinski difese John Mearsheimer e Stephen Walt, i due controversi studiosi americani che nel loro libro «The Israel Lobby» hanno osato mettere in dubbio il diritto d'esistere di Israele. Ma a spezzare una lancia in difesa di Brzezinski sono numerosi intellettuali ebrei di sinistra. A partire da Eric Alterman, docente universitario e membro del Center for American Progress di Washington, secondo cui, «le opinioni di Brzezinski sono condivise dalla maggioranza degli ebrei americani ». «Brzezinski ha ragione», gli fa eco il rabbino Michael Lerner, direttore della rivista liberal Tikkun, «l'effetto dell'AIPAC è stato molto più devastante di quella del maccartismo — incalza —. L'AIPAC promuove da sempre la politica del Likud e accusa di antisemitismo persino gli ebrei americani vicini al Labour. Soffocando un dibattito e un dissenso che in Israele sono all'ordine del giorno». «Il termine pro-Israele è stato scippato da una minoranza conservatrice la cui ideologia è osteggiata dalla maggior parte degli americani, ebrei e non-ebrei», teorizza Jeremy Ben-Ami, ex-consigliere del presidente Bill Clinton che di recente ha inaugurato J Street: «Una nuova lobby alternativa di ebrei illuminati — spiega —, decisi a promuovere un'agenda pro-Israele, pro-pace e progressista».

    Brzezinski: la lobby ebraica Usa opera un «maccartismo nei confronti dei critici d'Israele», Alessandra Farkas


    Anche per George Soros la "lobby ebraica" è il vero problema degli Stati Uniti

    Dal FOGLIO del 22 marzo 2007, un articolo di Christian Rocca:

    New York. Il finanziere filantropo George Soros, noto in Italia per la speculazione nei confronti della lira all’inizio degli anni Novanta (e malgrado ciò tributato di una laurea honoris causa dall’Università di Bologna nel 1995), ha deciso di impegnarsi in un’altra delle sue formidabili e autofinanziate campagne politiche, dopo la democratizzazione dell’est europeo, la legalizzazione delle droghe, la destituzione di George W. Bush e la guerra alla “guerra al terrorismo”. Questi obiettivi dell’Agenda Soros restano più fermi che mai, ma questa volta il finanziere ungherese-americano crede di aver individuato il nocciolo della questione, il problema dei problemi, il male di tutti i mali e lo svela ai suoi aficionados con “trepidazione” perché certamente sarà “esposto a più ampi attacchi” che lo “renderanno meno efficace nel portare avanti tutte le altre cause in cui è impegnato”. La nuova battaglia politica di Soros è questa: smascherare e sconfiggere la lobby ebraico-sionista che determina la politica americana in Medio Oriente, che influenza democratici e repubblicani e che soffoca la critica. L’ebreo Soros (ma, precisa, “non sionista”) ha elaborato l’atto d’accusa nei confronti della lobby ebraica sulla New York Review of Books, la rivista della sinistra intellettuale newyorchese che a metà degli anni Settanta è diventata la Bibbia del radical-chicchismo americano.
    Ancora oggi la rivista letteraria newyorchese ospita le più feroci critiche all’America, alla sua politica mediorientale e a Israele, soprattutto a firma di Tony Judt, ma era da tempo che non si leggeva un attacco così diretto, almeno da quando la direzione della rivista decise di non far scrivere più Noam Chomsky dopo che Isaiah Berlin disse: “Se scrive lui, non scrivo più io”. L’articolo di Soros è stato ignorato dai repubblicani, ormai abituati alle sue accuse, ma anche dalla stampa liberal, sempre attenta a non creare imbarazzi a sinistra ma anche consapevole della marginalità radicale delle idee sorosiane. Una certa turbolenza tra i democratici c’è stata, divisi come sono tra il tradizionale sionismo e l’attenzione a non irritare un generoso finanziatore. Alcuni deputati si sono sentiti in dovere di prendere le distanze, così come Barack Obama, cioè il candidato alla Casa Bianca finanziato da George Soros. (segue dalla prima pagina)
    L’articolo di Soros si intitola “On Israel, America and Aipac”. L’Aipac è il gruppo di pressione che promuove l’amicizia americana per Israele. Un paio di settimane fa, alla convention annuale hanno partecipato tutti i big democratici e repubblicani. In quell’occasione, i democratici hanno presentato una proposta di legge che inasprisce le sanzioni all’Iran e annunciato che non avrebbero imposto a Bush di chiedere l’autorizzazione del Congresso nel caso volesse colpire i siti nucleari iraniani. La riunione dell’Aipac ha mandato su tutte le furie Soros, insieme con un rapporto dell’American Jewish Committee che accusa di nuovo antisemitismo gli ebrei liberal americani che criticano le politiche israeliane. Nel suo articolo sulla New York Review of Books, Soros spiega che l’Amministrazione Bush continua a commettere errori in medio oriente, influenzata dalla lobby ebraica e, di fatto, sostenuta dalla maggioranza di centrosinistra. L’errore, secondo Soros, è anche del Quartetto (Europa, Usa, Russia, Onu) che rifiuta di considerare Hamas un partner affidabile nei colloqui di pace. La soluzione di Soros è semplice: Israele deve ritirarsi dalla Cisgiordania per consentire la nascita di uno stato palestinese e Hamas deve
    riconoscere il diritto all’esistenza di Israele. Fin qui è quello che dicono tutti. Soros, di suo, aggiunge questo: l’America imponga a Israele di trattare con Hamas il ritiro anche se Hamas continua a rifiutare il riconoscimento di Israele, ché di questo si potrà parlare dopo. Questo
    piano, secondo Soros, non va avanti per colpa della lobby ebraica, considerata la principale causa della situazione in cui si trova oggi Israele. Il terrorismo pare un fattore meno grave e viene citato per criticare “l’ideologia della guerra al terrore”. Obama ha espresso il suo “disaccordo” con il sostenitore Soros spiegando che “gli Stati Uniti e gli alleati hanno ragione a insistere che Hamas –un’organizzazione terrorista che vuole distruggere Israele – rispetti le condizioni minime per essere
    considerato un attore legittimo. L’Aipac è una delle tante voci a condividere questa idea”. Per Soros, invece, l’Aipac è responsabile del disastroso stato della politica americana, non consentendo critiche e sopprimendo il dibattito come nel 2004 – ricorda il finanziere – quando la campagna presidenziale di Howard Dean è finita nel momento esatto in cui il candidato ha criticato Israele. Una ricostruzione smentita fermamente dal portavoce della campagna Dean, ieri al New York Sun.

    http://www.claudiomoffa.it/pdf/soros...bbyebraica.pdf


    carlomartello
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  5. #5
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    Exclamation Rif: La lobby israeliana e la politica estera USA

    A questo punto dovresti chiarire la tua posizione, nell'altro forum, quello dei conservatori, mostravi bellamente una foto che glorificava Israele.

  6. #6
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    Predefinito Rif: La lobby israeliana e la politica estera USA

    Citazione Originariamente Scritto da JnanaTapas Visualizza Messaggio
    A questo punto dovresti chiarire la tua posizione, nell'altro forum, quello dei conservatori, mostravi bellamente una foto che glorificava Israele.
    La posizione rispetto alla politica neo-conservatrice del sottoscritto è nota: troppo Medio Oriente, e pochi interessi nazionali, non possono essere compatibili con la politica estera di una nazione come gli U.S.A.
    L'America ha molti problemi interni e ai propri confini per fare guerre come quella in Iraq, che ha oggettivamente spianato la strada all'influenza iraniana in Medio Oriente alterando gli equilibri regionali.
    D'altronde non crediamo che Kirk celasse un sentimento antisionista o antisemita con quell'espressione: non puoi mettere Tel Aviv prima di Washington. Questo per quanto riguarda la lobby filo-israeliana statunitense.
    Per come la vediamo noi, lo Stato d'Israele può difendere la propria posizione, i propri confini, e non ci sta nemmeno antipatico.
    Le guerre dei neo-cons in Medio Oriente, che l'abbiano volute Tel Aviv o Washington, quanto Teheran o Ryadh, ci sembrano fallimentari. E poi ha ragione Fukuyama quando dice che l'aggressione islamica riguarda relativamente l'America, e molto più l'Europa dove l'islam cresce vertiginosamente. L'America difficilmente può capire il problema islamico e i conflitti locali ad esso collegati.
    Sono comunque questioni che riguardano poco l'Europa, visto che l'Aipac è americana, e l'eventuale posizione a favore di Israele in Medio Oriente che in Europa forse potrebbe assumere un significato molto diverso che negli U.S.A. D'altronde ci preoccupano molto di più Brzezinski da un lato e Soros dall'altro.
    Comunque l'indebolimento di quel forte asse israelo-americano sta cambiano la geopolitica stessa, un pò come tutta la crisi, e possono venire fuori nuovi scenari interessanti.

    carlomartello
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    Predefinito Rif: La lobby israeliana e la politica estera USA

    Citazione Originariamente Scritto da carlomartello Visualizza Messaggio
    La posizione rispetto alla politica neo-conservatrice del sottoscritto è nota: troppo Medio Oriente, e pochi interessi nazionali, non possono essere compatibili con la politica estera di una nazione come gli U.S.A.
    L'America ha molti problemi interni e ai propri confini per fare guerre come quella in Iraq, che ha oggettivamente spianato la strada all'influenza iraniana in Medio Oriente alterando gli equilibri regionali.
    D'altronde non crediamo che Kirk celasse un sentimento antisionista o antisemita con quell'espressione: non puoi mettere Tel Aviv prima di Washington. Questo per quanto riguarda la lobby filo-israeliana statunitense.
    Per come la vediamo noi, lo Stato d'Israele può difendere la propria posizione, i propri confini, e non ci sta nemmeno antipatico.
    Le guerre dei neo-cons in Medio Oriente, che l'abbiano volute Tel Aviv o Washington, quanto Teheran o Ryadh, ci sembrano fallimentari. E poi ha ragione Fukuyama quando dice che l'aggressione islamica riguarda relativamente l'America, e molto più l'Europa dove l'islam cresce vertiginosamente. L'America difficilmente può capire il problema islamico e i conflitti locali ad esso collegati.
    Sono comunque questioni che riguardano poco l'Europa, visto che l'Aipac è americana, e l'eventuale posizione a favore di Israele in Medio Oriente che in Europa forse potrebbe assumere un significato molto diverso che negli U.S.A. D'altronde ci preoccupano molto di più Brzezinski da un lato e Soros dall'altro.
    Comunque l'indebolimento di quel forte asse israelo-americano sta cambiano la geopolitica stessa, un pò come tutta la crisi, e possono venire fuori nuovi scenari interessanti.

    carlomartello
    Non mi spreco più di tanto nel dire, che trovo la tua posizione quantomeno contraddittoria. Non capisco come si fa a sostenere le due maggiori avanguardie della Civiltà Moderna.

  8. #8
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    Predefinito Rif: La lobby israeliana e la politica estera USA

    Citazione Originariamente Scritto da JnanaTapas Visualizza Messaggio
    Non mi spreco più di tanto nel dire, che trovo la tua posizione quantomeno contraddittoria. Non capisco come si fa a sostenere le due maggiori avanguardie della Civiltà Moderna.
    Ma le nostre posizioni su Israele per certi versi sono simili a quelle di Dugin, che nel suo movimento si è preso un colono estremista del Kach, di questo gli "eurasiatisti" italiani, filo-islamici ad oltranza, ovviamente si rifiutano di parlare, ma il sito Evrazia pubblica spesso gli articoli di questo qui. Solo che Dugin è interessato a sponsorizzare l'egemonia russa nel mondo, noi a creare una intesa per contrastare compattamente l'islamizzazione dell'Europa e la falsa ideologia buonista e antirazzista (che ormai è indirizzata dagli Stati islamici contro Israele, vedi Ginevra o Durban).
    Inoltre anche a noi non dispiacerebbe - anzi - uno Stato israeliano demograficamente "russizzato" e nell'orbita di Mosca: in questo senso abbiamo salutato l'ascesa elettorale di Avigdor Lieberman positivamente. Per il resto sarà tutto quello che vuoi ma Israele si è sempre trovato con l'Uomo bianco e con le culture cristiane colpite dalla morsa islamica: in Algeria, Africa meridionale, in Libano, in Yugoslavia (con Milosevic e Mladic contro l'Uçk e Izetbegovic, quindi non proprio 'in linea' con la 'israel lobby' statunitense)...

    carlomartello
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  9. #9
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    Predefinito Rif: La lobby israeliana e la politica estera USA

    Citazione Originariamente Scritto da carlomartello Visualizza Messaggio
    Per il resto sarà tutto quello che vuoi ma Israele si è sempre trovato con l'Uomo bianco e con le culture cristiane colpite dalla morsa islamica: in Algeria, Africa meridionale, in Libano, in Yugoslavia (con Milosevic e Mladic contro l'Uçk e Izetbegovic, quindi non proprio 'in linea' con la 'israel lobby' statunitense)...

    carlomartello
    Milosevic e' morto in prigione all'Aia mentre era in corso contro di lui un processo per crimini contro l'umanita' al Tribunale Internazionale dell'Aia.
    Il suo degno compare Karadzic e' attualmente sotto processo presso lo stesso tribunale per crimini piu' o meno analoghi, mentre Mladic e' latitante, ricercato dallo stesso tribunale con, pendenti sul capo, accuse di crimini di guerra e genocidio. E prima o poi lo trovano, puoi starne certo.

    Bella compagnia ti sei scelto, complimenti.

    Poi, cos'abbiano in comune Izetbegovic e l'Uck lo sai solo tu.

  10. #10
    Tringeadeuroppa
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    Predefinito Rif: La lobby israeliana e la politica estera USA

    Citazione Originariamente Scritto da carlomartello Visualizza Messaggio
    Ma le nostre posizioni su Israele per certi versi sono simili a quelle di Dugin, che nel suo movimento si è preso un colono estremista del Kach, di questo gli "eurasiatisti" italiani, filo-islamici ad oltranza, ovviamente si rifiutano di parlare, ma il sito Evrazia pubblica spesso gli articoli di questo qui. Solo che Dugin è interessato a sponsorizzare l'egemonia russa nel mondo, noi a creare una intesa per contrastare compattamente l'islamizzazione dell'Europa e la falsa ideologia buonista e antirazzista (che ormai è indirizzata dagli Stati islamici contro Israele, vedi Ginevra o Durban).
    Dughin, attualmente, come hai scritto sponsorizza "l'egemonia russa" sul mondo. E' una sceltra strategica, perchè non eurasiatista in senso stretto. Semmai è un passaggio necessario per giungere ad un obiettivo eurasiatico.

    Evidentemente in Russia la lobby giudaica è possibile "controllarla".

    In Italia e nel resto dell'Europa è casomai il contrario: ci sono forti lobby ebree che hanno un fortissimo potere sui paesi "di riferimento".
    Quindi una posizione dughiniana in Italia sarebbe un suicidio.

    Ed aggiungo: l'Italia è immersa nel Mediterraneo, la Russia no.

    Quindi non cercare di fare una sorta di "assolutismo" ideologico, secondo il quale quello che funziona in Russia dovrebbe funzionare anche in Italia*.


    *lo hai fatto anche a riguardo del Partito delle Regioni in Ucraina, sostenuto dal Cremlino, cercando di legittimare in questo modo l'etnonazionalismo agli occhi di Putin.

 

 
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