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    Predefinito DOCUMENTI - La vera storia di Joe McCarthy

    LA VERA STORIA DI JOE MCCARTHY

    di Andrea Mancia






    PARTE PRIMA

    Il Senatore più odiato d’America
    Il Foglio - 29 Gennaio 2005


    PARTE SECONDA

    La prima mossa del Senatore
    Il Foglio - 5 febbraio 2005


    PARTE TERZA

    Tail-Gunner Joe va alla guerra
    Il Foglio - 12 febbraio 2005


    PARTE QUARTA

    Joe McCarthy nella polvere
    Il Foglio - 19 febbraio 2005
    SADNESS IS REBELLION

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    Predefinito Rif: DOCUMENTI - La vera storia di Joe McCarthy

    LA VERA STORIA DI JOE MCCARTHY – PARTE PRIMA


    Il Senatore più odiato d’America

    Come e perché Joe McCarthy divenne cacciatore di “rossi” veri o presunti


    di Andrea Mancia

    Il Foglio, 29 gennaio 2005


    Che a Joe McCarthy piacesse scegliersi i propri bersagli, non è mai stato un mistero. Almeno da quando i marines della base di Guadalcanal decisero di chiamarlo “Tail Gunner Joe”, perché gli piaceva sparare dalla mitragliatrice di coda dei bombardieri Helldiver durante le missioni di ricognizione nel sud del Pacifico.

    La precisione della sua mira, però, sarebbe rimasta un’incognita per molti decenni, fino alla parziale apertura degli archivi del Kgb a Mosca e alla declassificazione del Venona Project che avrebbero reso giustizia alla sua battaglia anticomunista. Gli unici a conoscere la verità, fino a quel momento, erano stati proprio i suoi nemici.

    Joseph Raymond McCarthy nasce il 14 novembre del 1908 a Grand Chute, nella contea di Shawano, in una delle fattorie che circondano la cittadina di Appleton nel nordest del Wisconsin. Suo nonno Stephen era emigrato negli Stati Uniti dall’Irlanda mezzo secolo prima. Il padre, Tim, dopo aver sposato una ragazza di origine irlandese, aveva ereditato l’impresa agricola di famiglia e allevato, in un modesto ma dignitoso tenore di vita, sette figli. Joseph era il quinto.

    Storici e polemisti avrebbero a lungo investigato sulla sua infanzia, nella speranza di trovare qualche episodio in grado di gettare luce sul carattere incostante del senatore più odiato d’America. Qualcuno ha parlato di un rapporto difficile con il padre, ma uno dei suoi migliori biografi contemporanei, Thomas Reeves, è costretto a concludere che i McCarthy sono una famiglia felice, in cui entrambi i genitori esercitano l’autorità domestica e i figli sono stimolati a cavarsela da soli.

    Come tutti i suoi fratelli, Joe si alza all’alba e aiuta il padre a lavorare nei campi. Fin da piccolo, scrive un altro biografo eccellente, Arthur Herman, dimostra un’energia apparentemente inesauribile. Abituato al lavoro duro, Joe passa un’adolescenza faticosa ma tranquilla, fino a quando – nel 1929 – decide di riprendere gli studi, interrotti qualche anno prima, per iscriversi alla Little Wolf High School di Manawa. Ventunenne, in una classe di 14-15enni, Joe McCarthy riesce a passare dall’allevamento di galline al diploma senza troppi problemi. Studia il doppio dei suoi compagni, riesce a saltare anche due giorni consecutivi di sonno e si guadagna un lasciapassare per il college che sarà capace di cambiargli la vita. Entra alla Markette University, dove prima sceglie Ingegneria e poi, travolto dall’incompatibilità di carattere con la matematica, si rifugia nella facoltà di Legge, dove veleggia non troppo al di sopra della media. Proprio all’università, però, McCarthy si rende conto di essere particolarmente portato per l’attività politica.

    Il Wisconsin e l’isolazionismo

    Pur avendo votato in massa per il democratico Franklin Delano Roosevelt alle elezioni presidenziali del 1932, il Wisconsin restava il regno politico di “Fighting Bob” La Follette, un progressive republican che grazie a un programma fondato sull’odio per il big business aveva praticamente instaurato una sorta di monopolio di potere nello Stato fin dai primi anni del secolo. Alla morte di “Fighting Bob”, nel 1924, i due figli di La Follette – Philip e Robert jr. – raccolgono la sua eredità politica insediandosi rispettivamente al Senato e nella residenza del governatore a Madison. La loro alleanza sempre più stretta con FDR, però, li allontana rapidamente dai repubblicani, spingendoli a fondare il Progressive Party, un movimento populista che raccoglie più o meno la stessa base elettorale che appoggia senza riserve il New Deal.

    Fresco di laurea in legge, nel 1936 Mc-Carthy resiste alle pressioni di alcuni suoi conoscenti per candidarsi nelle file del Grand Old Party e si presenta invece come democratico all’elezione per procuratore distrettuale nella contea di Shawano. Il suo spirito battagliero e le sue invincibili venature demagogiche vengono subito allo scoperto: accusa il candidato repubblicano (Alfred Landon) di essere un reazionario schiavo delle grandi industrie e quello progressista di praticare attività ai confini della corruzione. Ma è soltanto un assaggio del trattamento riservato nel 1939 a Edgard Werner, suo avversario nell’elezione a giudice distrettuale.

    Nel corso di una campagna elettorale aggressiva, McCarthy fa circolare la voce che Werner abbia 73 anni (non 68) e si propone come il candidato del cambiamento. A niente servono le indignate smentite del suo antagonista, anche perché Werner dimostra davvero gli anni che McCarthy gli attribuisce ingiustamente.

    Questi “dirty tricks” verranno poi sottolineati fino alla nausea in ogni biografia scritta dopo la morte di McCarthy, a partire da quella scritta da Richard Rovere nel 1959 (brief excerpt) che ne infangherà definitivamente la memoria, ma la verità è che il giovane Joe avrebbe avuto la meglio in ogni caso su un avversario stanco e poco motivato.

    McCarthy viene eletto con il 43 per cento dei voti (contro il 31 di Werner). E lavora sodo, almeno il doppio dei suoi colleghi, tanto che riesce a disfarsi di 200 casi arretrati, spingendo un giornale locale a scrivere che “amministra la giustizia speditamente e combinando le proprie conoscenze legali con il buon senso”. Intorno al suo tribunale, intanto, il duopolio democratici-progressisti che governa il sistema politico del Wisconsin sembra cadere lentamente a pezzi, demolito da un nemico con un nome ambiguo: isolazionismo.

    La diffidenza nei confronti dell’Europa, la paura di veder trasformare gli Stati Uniti in un super Stato centralizzato e tiranneggiato dalle burocrazie, i primi segni di insofferenza nei confronti della pianificazione economica imposta dal New Deal: l’America degli ultimi anni Trenta non sembra avere alcuna intenzione di imbarcarsi in una guerra per conto dei propri alleati del Vecchio Continente. Il 47 per cento dei cittadini statunitensi, secondo un sondaggio Gallup, è contrario all’intervento Usa in Europa. E più del 65 per cento è convinto che anche la partecipazione alla Prima guerra mondiale sia stato un colossale errore.

    Proprio nel 1939 il Senato approva il Neutrality Act e le ragioni degli isolazionisti sembrano destinate a prevalere nell’arena del dibattito politico statunitense. Ma è un’impressione di breve durata. La caduta della Polonia e della Francia, l’attacco nazista all’Unione Sovietica e una serie di errori tattici sul fronte interno, come il discorso anti-semita di Charles Lindberg durante un comizio dell’associazione “America First”, fanno perdere colpi alle istanze isolazioniste.

    Nel novembre del 1940 Roosevelt vince le elezioni presidenziali per la terza volta consecutiva, anche se con un margine molto più ristretto che in passato (soprattutto in Wisconsin, dove passa dal 63-30 per cento del 1936 a un risicato 50-48 per cento). Nell’agosto 1941 la Camera approva (per un solo voto) l’Atlantic Charter del presidente. A novembre i due rami del Congresso modificano il Neutrality Act.

    Un mese dopo, gli aerei della marina giapponese puntano su Pearl Harbor.

    La politica, i marine e la Guerra Fredda

    Il 29 luglio del 1942, mentre la Seconda guerra mondiale sta completando il processo di trasformazione industriale avviato dal New Deal, Joe McCarthy entra nei servizi di intelligence dei marine, malgrado il suo ruolo di giudice lo renda esente dal servizio militare obbligatorio. Naturalmente la sua scelta è anche dettata da motivi di opportunismo politico, ma le migliaia di pagine scritte per sottolineare lo scarso numero di missioni da combattimento a cui partecipa McCarthy nel Pacifico del Sud (una dozzina) non sottolineano quasi mai che Tail Gunner Joe, in teoria, avrebbe potuto rimanere comodamente seduto dietro una scrivania per tutta la durata del conflitto.
    Dopo 30 mesi di servizio, una ferita di guerra piuttosto dubbia e una citazione di merito firmata dall’ammiraglio Chester Nimitz, McCarthy torna a casa. Ma non prima di aver gettato le fondamenta della sua futura carriera politica.

    Nel 1943, infatti, annuncia la sua intenzione di candidarsi al Senato, partecipando alle primarie del partito repubblicano contro l’incumbent Alexander Wiley. Con una bizzarra campagna elettorale a distanza, a cui partecipa effettivamente soltanto nelle settimane immediatamente precedenti al voto, McCarthy conquista la maggioranza nella contea di Shawano e in quelle confinanti, ma non va oltre il 28 per cento in tutto il Wisconsin, mentre Wiley supera il 60 per cento. Si tratta di una sconfitta annunciata, ma l’esperienza gli serve per rodare la propria macchina organizzativa, stabilire contatti in vista delle elezioni del ’46 e venire rieletto, senza opposizione, alla carica di giudice.

    Nel gennaio del 1945 McCarthy lascia ufficialmente i marines. Proprio in quei giorni a Washington, poche settimane dopo la scontata rielezione del “presidente di guerra” Roosevelt alla Casa Bianca (il suo avversario repubblicano, Thomas Dewey, vince però di misura in Wisconsin), esplode lo scandalo Amerasia. Kenneth Wells, un ufficiale dell’Office of Strategic Studies (Oss), si accorge con stupore che una rivista con forti inclinazioni sinistrorse che si occupa di politica asiatica ha pubblicato, parola per parola, un rapporto segreto da lui scritto per il Dipartimento di Stato. Il dossier, che contiene anche informazioni “sensibili” su un gruppo di resistenza anti-giapponese ancora attivo in Thailandia, compare senza firma sulla rivista Amerasia sotto il titolo “British Imperial Policy in Asia”.

    Wells, sulle prime, ha un mancamento. Poi manda gli investigatori dell’Oss a perquisire la redazione della rivista, dove viene scoperta una camera oscura piena di fotografie di documenti “top secret”, tutti provenienti da Washington. E’ una rivelazione sconvolgente. Finiscono in carcere il direttore della rivista, Philip Jaffee, il giornalista Mark Gayn e tre impiegati federali: Emmanuel Larsen e John Stewart Service (del Dipartimento di stato) e Andrew Roth (ufficiale della Navy Reserve). Larsen, Service e Roth passavano regolarmente documenti riservati a Jaffee, che si scoprirà essere legato al partito comunista statunitense e alla spia sovietica Joseph Bernstein. Roth, invece, intratteneva rapporti cordiali con un alto esponente del partito comunista cinese in “missione” a New York.

    Per la prima volta, viene portata alla luce una cricca attiva di spionaggio sovietico operante all’interno del potere esecutivo americano. La Seconda guerra mondiale non è ancora finita. E la Guerra Fredda è già cominciata.

    Dal Sud Pacifico a Washington

    Nel 1946 Robert La Follette Jr. annuncia ai cittadini del Wisconsin la propria volontà di ricandidarsi al Senato, questa volta tra le file del partito repubblicano. Contro di lui, in un’elezione primaria che si annuncia più combattuta delle elezioni vere e proprie, si presenta il giovane giudice Joe McCarthy. La sua campagna elettorale è sensazionale: batte lo Stato palmo a palmo, percorrendo più di 80mila miglia in automobile in pochi mesi; ottiene senza troppi sforzi l’appoggio degli Young Republicans, turbati dal programma “progressista” di La Follette; vince anche la diffidenza del capo del partito nel Wisconsin, Tom Coleman, che gli concede il proprio endorsement quasi per stanchezza, impressionato dalla sua combattività e dalla sua capacità di lavorare a ogni ora del giorno e della notte.

    Il programma di McCarthy è centrato sulla riduzione delle tasse e sulla politica agricola. Ma non mancano le sortite in politica estera, come quando picchia duro sulla strategia di Harry Truman (diventato presidente dopo la morte di Roosevelt) sottolineando – non a sproposito – il disastroso comportamento degli Stati Uniti nei confronti di Austria, Polonia e paesi baltici.

    Tail-Gunner Joe attacca frontalmente anche La Follette, accusandolo di aver favorito l’infiltrazione dei comunisti nei sindacati del Wisconsin. I comunisti, da parte loro, ce l’hanno a morte proprio con La Follette, a causa delle sue posizioni isolazioniste prima e durante la guerra. Dopo una campagna elettorale durissima, McCarthy vince a sorpresa le primarie repubblicane con il 41 per cento dei voti, contro il 40 per cento di La Follette. Soltanto 5.300 voti separano i due. E con un risultato migliore a Milwaukee (dove Mc- Carthy ha prevalso di diecimila voti), feudo indiscusso della propaganda rossa, probabilmente La Follette avrebbe potuto strappare la candidatura al suo avversario.

    Ormai, però, il danno è fatto. I comunisti si stringono intorno al democratico Howard McMurray, rinunciando a presentare un proprio uomo. Ma non basta: perché Mc-Carthy vince le elezioni con oltre 250mila voti di vantaggio e sconfigge la coalizione “liberal-sovietica”, che aveva sprecato il grosso delle proprie munizioni propagandistiche contro il “fascista La Follette”.

    L’onda lunga repubblicana travolge tutto il paese. Con una campagna elettorale riassunta dallo slogan “Had Enough?”, il Grand Old Party scuote le coscienze dei cittadini statunitensi e promette una rivoluzione anti-statalista per superare finalmente l’emergenza del New Deal e far tornare il welfare entro i confini di un’economia di libero mercato.

    Ma è l’anticomunismo a giocare una parte fondamentale nello scontro politico. Per Robert Taft dell’Ohio, il “Mr. Republican” che guida il GOP al Senato, “i democratici hanno praticato l’appeasement con i russi e allevato i comunisti in casa”. Ma anche altri, come il congressman Carroll Reece (Tennessee) e l’ex tenente di vascello Richard Nixon (California), conducono una campagna elettorale all’insegna del “pericolo rosso”. Il leader della minoranza alla Camera, Joe Martin (Massachusetts), promette che in caso di vittoria repubblicana “il Congresso stanerà tutti coloro che stanno provando a distruggere lo stile di vita americano”.

    La risposta dei cittadini americani è travolgente.

    Alla Camera i repubblicani passano da 191 a 246 seggi, mentre i democratici crollano da 242 a 188. Con il miglior risultato dal 1894, il GOP conquista anche il controllo del Senato con 54 seggi. Dei 64 membri più liberal del Congresso, secondo una classifica stilata da New Republic, ben 37 non vengono rieletti. I repubblicani crescono nelle aree suburbane del Nord-Est, del Michigan e dell’Illinois. In Connecticut, come del resto in Wisconsin, i democratici perdono tutti i loro seggi al Congresso.

    Il risultato di Mc-Carthy, che conquista la maggioranza in 70 contee su 73, è in linea con questa vittoria schiacciante. Anzi, come non mancheranno di ricordare i suoi biografi, si tratta di una performance leggermente al di sotto della media nazionale. Ma la sostanza non cambia, perché Joe McCarthy vince le elezioni e diventa, all’età di 38 anni, il più giovane membro del Senato nell’80° Congresso della storia degli Stati Uniti.

    Il Senato e la “classe del 1946”

    McCarthy arriva a Washington verso la fine del 1946, nel periodo di massima espansione della burocrazia federale. I 900 mila impiegati governativi del 1939 sono diventati più di 3 milioni, di cui oltre 250 mila soltanto nell’area urbana della capitale. E’ tra le file di questa burocrazia che il Kgb di Vassili Zarubin sta reclutando la maggior parte delle proprie spie in territorio americano.

    Zarubin si trasferisce a Washington proprio in quegli anni, ma nel 1945 uno dei suoi “corrieri” lo tradisce e passa al nemico. Le rivelazioni di Elizabeth Bentley all’Fbi sono un potenziale terremoto politico per l’amministrazione democratica. Tra gli impiegati dell’esecutivo ci sono almeno una ventina di agenti attivi del Kgb, tra cui molti ex militanti del partito comunista statunitense; e questo soltanto nel network di spie a cui apparteneva la Bentley. Al di fuori di questa cerchia: altre decine, forse centinaia di informatori regolarmente stipendiati dall’Unione Sovietica di Stalin.

    “L’esecutivo sedeva su una bomba politica a orologeria”, scrive lo storico Arthur Herman. Joe Mc-Carthy sarà una delle micce in grado di far esplodere questa bomba. Ma non l’unica.

    Il potere legislativo, che a differenza di quello esecutivo non ha praticamente conosciuto alcuna espansione durante la guerra, nel 1946 comincia a riorganizzarsi. Ma anche se si tratta di un Congresso dai forti connotati conservatori (“The hand out era is over”, scriveva David Lawrence su US News & Reports), il giovane McCarthy non riesce a inserirsi più di tanto nei bizantini meccanismi del Senato. Eletti dalle State Legislatures prima del 1910, i senatori – da quando sono sottoposti al vaglio del mandato popolare – sono diventati il fulcro del sistema di pesi e contrappesi che governa il Congresso americano.

    Ma se la Camera è l’arena dello scontro politico, il Senato diventa presto un tempio pagano del compromesso, in cui la seniority, le procedure ed i rapporti personali giocano spesso un ruolo più importante dell’appartenenza ideologica e della rappresentanza degli interessi dei cittadini. A Washington, McCarthy non riuscirà mai a penetrare il secondo dei due cerchi concentrici di potere che compongono il Senato. E non sarà mai in grado di costruirsi una solida base di consenso tra i suoi colleghi, come la censura del 1954 avrebbe poi drammaticamente dimostrato.

    Troppo impaziente per i ritmi compassati dei suoi colleghi, McCarthy appartiene a quella categoria di amateur che non hanno il piglio (e il cinismo) dei professionisti della politica che dominano il caucus degli eletti nel partito democratico. Brillante con la stampa e sempre in grado di generare pubblicità e titoli a nove colonne, McCarthy non ha la capacità e il background culturale per immergersi “inside the Beltway”, per coltivare i rapporti necessari a proteggerlo nel momento della difficoltà.

    Questo non significa, naturalmente, che McCarthy non abbia alleati o anche amici tra i suoi colleghi. Ma si tratta di amateur come lui. William Jenner (Indiana), Harry Cain (Washington State), John Sherman Cooper (Kentucky) o William Knowland (California), per esempio, anche loro freshmen della classe del ’46. E gli uomini di Taft, che per anni aveva praticamente combattuto da solo contro il New Deal (“la forza più reazionaria della storia”): Zale Ecton, James P. Kem, George Malone e John Bricker, interpreti dell’anima “dura e pura” del GOP.

    Alla Camera, McCarthy troverà la sponda di Glen Davis, anche lui eletto in Wisconsin, e soprattutto di un giovane deputato della California che ha fatto dell’anticomunismo uno dei punti centrali del proprio programma: Richard Nixon.

    Più tardi, dopo le elezioni del 1948, Mc-Carthy avrà anche l’appoggio del senatore dell’Arizona che avrebbe sconvolto le fondamenta del movimento conservatore americano: Barry Goldwater.

    Ci sono, in linea di massima, due sentieri interpretativi per giudicare i primi anni di McCarthy al Senato.

    Il primo, quello che è entrato di prepotenza nella vulgata biografica che non fa niente per nascondere il suo disprezzo nei confronti di Tail Gunner Joe, è giudicare il suo primo mandato (fino al discorso di Wheeling) un flop disastroso, da cui McCarthy tenta di sottrarsi “inventandosi” l’esigenza di combattere il “pericolo rosso”. A sostegno di questa tesi c’è poco, a parte un celebre sondaggio condotto all’epoca tra i giornalisti parlamentari di Washington, che giudicano McCarthy il peggior senatore degli Stati Uniti.

    La seconda strada, più ricca di aneddoti e testimonianze, è quella di considerare McCarthy il più brillante e popolare dei freshmen del ’46, ricercatissimo da pubblico e giornalisti (anche se non da quelli che sguazzano “inside the Beltway”), famoso soprattutto tra le croniste del gentil sesso per le sue cene a base di pollo fritto fatto in casa. Restando ai nudi fatti, McCarthy si classifica al 9° posto nella lista dei congressman più conservatori del biennio 1947-1948 stilata da una rivista di tendenze liberal.

    Le elezioni del 1948. Primi problemi

    Il giovane McCarthy, brillante con la stampa, non riesce ad inserirsi più di tanto nei bizantini meccanismi del Senato

    Nel 1948, il partito repubblicano compie uno dei classici hara-kiri che spesso caratterizzano la sua storia nel XX secolo: lascia prevalere la sua anima “moderata”, presenta alla Camera e al Senato un nugolo di Rockfeller liberals e insiste con la candidatura perdente di Thomas Dewey contro Harry Truman nella corsa alla Casa Bianca. Le elezioni sono un disastro: Truman vince con oltre 2 milioni di voti di scarto, malgrado la doppia scissione che colpisce il partito democratico da destra con J. Strom Thurmond e da sinistra con Henry Wallace (che insieme raccolgono quasi 3 milioni di voti). Come se non bastasse, il GOP subisce una pesante battuta d’arresto anche al Congresso e perde il controllo di entrambe le Camere.

    Il vento, anche in Wisconsin, inizia a soffiare di traverso. McCarthy viene allontanato dal prestigioso Banking Committee e parcheggiato nell’oscuro comitato “per il distretto di Columbia”. Le Unions del Wisconsin lo mollano quando vengono a sapere della sua intenzione di votare a favore di nuove leggi per il controllo dei sindacati. I veterani dell’American Legion, suoi sostenitori della prima ora, lo attaccano perché si dichiara contrario all’obbligatorietà dell’addestramento militare nelle scuole.

    Uno dei giornali più letti di Madison, capitale del Wisconsin, il Capital Times del progressista William Eujue, comincia a farne uno dei propri bersagli preferiti. Eujue, insieme al suo cronista Miles McMillin, diventa un nemico giurato di McCarthy e diffonde le storie più disparate sul suo conto.

    La maggior parte sono inventate di sana pianta (come una presunta evasione fiscale che si risolve con un risarcimento da parte del fisco), il resto sono esagerate a dismisura (come lo “scandalo” del Quaker Dairy Case). Su almeno due di queste campagnestampa, però, McCarthy rischia di perdere una parte della sua credibilità.

    Il Capital Times lo addita come “Pepsi-Cola Kid” quando scopre che un imbottigliatore della bibita ha finanziato con 20mila dollari la sua campagna elettorale e che lui, per ricambiare, si è battuto per la deregolamentazione delle razioni post-belliche di zucchero (necessario in grandi quantità per produrre la dolce bevanda gassata). La verità è che tutto si è svolto ampiamente entro i confini della legalità, soprattutto per gli standard dell’epoca, ma per la prima volta Eujue riesce a scalfire l’immagine pubblica di McCarthy.

    Un’altra storia che il senatore non riesce a gestire con furbizia è il cosiddetto “Malmédy Case”, che scoppia nel ’49 quando un gruppo di ufficiali delle Waffen SS viene processato da un tribunale americano con l’accusa di aver massacrato decine di prigionieri disarmati dopo la battaglia di Bulge, in Francia.

    McCarthy non è convinto dell’impianto accusatorio, compie delle indagini per conto proprio e si mette in testa che, nella migliore delle ipotesi, l’esercito abbia gonfiato le prove e si sia comportato scorrettamente. Da qui alle accuse di filonazismo da parte della stampa nemica il passo è breve. La stessa sorte, del resto, era toccata qualche anno prima a Taft, “colpevole” di aver osato criticare le procedure del processo di Norimberga. McCarthy, però, non ha la statura di Mr. Republican e resta isolato all’interno del partito. Soltanto fuori da Washington, tra le speranze e le paure della gente comune, troverà la forza necessaria per reagire a questa solitudine.

    1 - continua
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    Predefinito Rif: DOCUMENTI - La vera storia di Joe McCarthy

    LA VERA STORIA DI JOE MCCARTHY – PARTE SECONDA


    La prima mossa del Senatore

    Come l’anticomunista McCarthy divenne cacciatore (sbeffeggiato) di spie



    Per essere un “do-nothing Congress”, come lo definisce Harry Truman poco dopo la vittoria alle presidenziali del 1948, l’80° Congresso a maggioranza repubblicana sembra un vulcano in eruzione. Il GOP approva il primo “balanced budget” dal 1930, riduce le tasse di quasi 5 miliardi di dollari (una sessantina di oggi), toglie otto milioni di cittadini (poveri) dalle fauci del fisco, riduce il potere dei sindacati con il Taft-Harley Act, blocca l’adesione obbligatoria al sistema di assicurazione sanitaria nazionale, abolisce il controllo dei prezzi in vigore dall’inizio della guerra, approva il National Security Act con cui viene creata la CIA e fonde esercito e marina nel dipartimento della Difesa.

    Ma il Congresso a guida repubblicana non si limita all’attività legislativa. E inizia a indagare sugli episodi di corruzione e sulle infiltrazioni comuniste all’interno dell’Esecutivo. Nel 1947, dopo lo scandalo Amerasia, il capo dell’FBI, J. Edgar Hoover, ha ormai perso ogni fiducia nella possibilità di convincere l’amministrazione democratica ad affrontare seriamente il problema dello spionaggio sovietico e decide di coinvolgere il Congresso, portando il proprio caso di fronte all’House Un-American Activities Committee (HUAC).

    A chi gli fa notare che negli Stati Uniti gli iscritti al partito comunista non raggiungono neppure l’1 per cento della popolazione, Hoover risponde che si tratta di una percentuale analoga a quella registrata in Russia prima della rivoluzione bolscevica. E’ il primo colpo di cannone di una furibonda battaglia politica.

    Al Senato, il Permanent Subcommittee on Investigations (PSI), sotto la presidenza di Homer Ferguson, sta seguendo una pista simile. Tra il luglio e l’agosto del 1948 vengono ascoltate le testimonianze di Elizabeth Bentley, Luis Budenz e Whittaker Chambers. Le rivelazioni della Bentley non sono una novità assoluta, ma lasciano a bocca aperta i membri del PSI.

    Corriere dello spionaggio sovietico fin dal 1941, la Bentley ha raccolto informazioni “classificate” da esponenti dei maggiori dipartimenti del potere esecutivo, entrando in contatto con decine di funzionari governativi al soldo di Mosca. Un agente sovietico di cui non conosce la vera identità, dice, ha diretto la strategia statunitense in Cina, con l’obiettivo di appoggiare gli alleati dell’Unione Sovietica. Più tardi si scoprirà che questo personaggio risponde al nome di Lauchlin Currie, fuggito all’estero dopo la sua testimonianza di fronte alla HUAC.

    Si tratta della stessa spia che ha informato i sovietici dell’esistenza del Venona Project. Di William Remington, del Dipartimento del Commercio, la Bentley conosce nome e cognome e sa che è stato trasferito ad un’agenzia che si occupa di regolare l’export con l’Urss e i suoi satelliti.

    Luis Budenz, ex direttore del Daily Worker, accusa invece direttamente la “quinta colonna” sovietica del partito comunista statunitense e si dice convinto che, includendo anche gli impiegati di basso livello, almeno un migliaio di comunisti lavorino (in incognito) per istituzioni governative.

    Budenz avvisa la commissione che chiunque si fosse degnato di smascherare il network di spie sarebbe stato denunciato come un “red baiter” (un persecutore dei rossi). “Ma come posso evitare di essere considerato tale – dice durante la sua testimonianza – se voglio difendere l’America dai suoi nemici?”. Tentare di rispondere a questa insidiosa domanda sarebbe stata la sfida impossibile di Whittaker Chambers.

    Il testimone

    La vicenda umana, politica e giudiziaria di Whittaker Chambers è descritta magistralmente dalla polemista conservatrice Ann Coulter in “Treason: Liberal Treachery from the Cold War to the War on Terrorism” (tradotto in Italia da Rizzoli nel 2004 con il titolo “Tradimento: come la sinistra liberal sta distruggendo l’America”).

    Chambers decide di rompere con il partito comunista nel 1938, dopo il patto Molotov-Ribbentrop per la spartizione della Polonia. Un altro ex-comunista, Walter Krivitsky, lo aveva costretto a rendersi conto della realtà: “Il governo sovietico era un governo fascista e lo era sempre stato”.

    In “Witness”, l’autobiografia pubblicata nel 1952, Chambers scriverà di aver capito in quel momento che il destino del mondo libero poteva essere deciso soltanto da una lotta tra comunisti ed ex-comunisti, perché “nessun altro ha penetrato così a fondo la piena natura del male con cui il comunismo minaccia l’umanità”. Chambers decide di parlare.

    Nel 1939 un suo amico gli organizza un incontro privato con Adolf Berle, il vice segretario di Stato di Roosevelt. Il resoconto è dettagliato e ricco di nomi e cognomi: tra le decine di spie sovietiche che lavorano nell’amministrazione democratica, spiccano un funzionario di alto livello del Dipartimento di stato, Alger Hiss, e suo fratello Donald.

    Berle è sconvolto. E il giorno dopo riferisce a Roosevelt il contenuto del colloquio con Chambers, sottolineando la posizione di grande responsabilità occupata da Hiss. FDR gli ride in faccia e lo manda a quel paese (adoperando parole più esplicite).

    Non soltanto il presidente non prende alcun provvedimento, ma promuove Alger Hiss al ruolo di suo consigliere di fiducia, che avrebbe occupato anche durante i disastrosi (per l’Occidente) negoziati di Yalta.

    Berle prova allora a coinvolgere il sottosegretario del Tesoro, Dean Acheson, che però afferma di conoscere i due fratelli Hiss fin dall’infanzia e di fidarsi completamente di loro. Quando Acheson diventa vice segretario di Stato, la sua prima mossa è quella di assumere Donald Hiss come proprio assistente personale.

    Per quasi dieci anni, i fratelli Hiss continuano a rivestire un ruolo centrale nella politica estera prima nell’amministrazione Roosevelt e poi in quella guidata da Truman. “Cercavamo tutti di non lasciarci scappare nulla che non dovesse essere detto – avrebbe poi raccontato Berle – ma c’erano fughe di notizie piuttosto frequenti ogni volta che qualcosa passava per l’ufficio di Alger Hiss”.

    Chambers deve aspettare fino al 1948 per essere interrogato nuovamente sulla penetrazione delle spie sovietiche nel governo degli Stati Uniti, quando viene chiamato a testimoniare di fronte alla HUAC.

    A differenza di Roosevelt, il Congresso si dimostra almeno interessato all’argomento e chiama direttamente in causa Alger Hiss. L’affascinante membro dell’Harvard Club smentisce con sdegno ogni accusa e addirittura nega di aver mai conosciuto Chambers.

    L’attrazione fatale tra liberal e comunisti

    Come un sol uomo, la stampa liberal si schiera dalla parte di Hiss. Chambers viene dipinto come un improvvisato giornalista (lavora al settimanale “Time”) dai denti guasti; i deputati della HUAC sono “poco intelligenti, rozzi e sgrammaticati”; mentre ogni performance del funzionario governativo viene descritta con un’enfasi degna delle migliori imprese olimpiche. La commissione della Camera sembra sull’orlo del collasso nervoso, pronta a cedere sotto i colpi della massiccia campagna di stampa.

    Ma nella HUAC, scriverà poi Chambers, c’era un uomo che possedeva “un orecchio interno per la campana della verità”. Il suo nome è Richard Nixon.

    Il giovane deputato della California, con ostinazione, riesce a prolungare le udienze della commissione a porte chiuse. E mentre Truman denuncia la caccia anticomunista come una “manovra diversiva” dei repubblicani, Chambers inizia a convincere i membri della commissione che le sue testimonianze non sono affatto campate in aria. Lo scontro politico raggiunge livelli altissimi e l’intero establishment liberal si getta di peso nella mischia: Felix Frankfurter e Adlai Stevenson testimoniano a favore dell’integrità assoluta di Hiss; Eleanor Roosevelt lo difende a spada tratta; il Dipartimento di Giustizia di Truman chiede all’FBI informazioni su una presunta malattia mentale di Chambers e lo indaga per falsa testimonianza; la pressione dei media costringe la HUAC a rinunciare alle udienze a porte chiuse.

    Il “testimone” barcolla. E scongiura Nixon di impedire alla stampa di partecipare agli interrogatori futuri. Ma Nixon convince Chambers che l’unica possibilità rimasta è quella di affidarsi all’istinto dell’opinione pubblica.

    “Il Dipartimento di Giustizia è pronto a procedere contro di lei per salvare Hiss – dice Nixon a Chambers – Hanno intenzione di incriminarla subito. L’unico modo per far cambiare loro idea è lasciare che sia il pubblico a giudicare autonomamente chi dice il vero. Questa è la sua sola chance”.

    Nel settembre del ’48, dopo le dirompenti testimonianze di Chambers di fronte alla HUAC di Nixon e al PSI del Senato, un sondaggio rivela che 4 americani su 5 appoggiano le indagini anti-comuniste del Congresso.

    Come scrive la Coulter, “il dato riguardava anche il 71 per cento dei democratici intervistati ma lo zero per cento dei giornalisti”.

    La tracotanza dell’aristocrazia liberal si trasforma in panico quando, dopo un durissimo scontro durante la trasmissione radiofonica “Meet the Press”, la sfida tra Chambers e Hiss si trasferisce nelle aule dei tribunali. I legali di Hiss tentano di dimostrare che Chambers aveva avuto una relazione omosessuale con il fratello (ormai scomparso) e che il vero motivo delle sue accuse debba essere rintracciato nel suo “impulso subconscio di ricongiungersi al fratello nella morte”. Chambers, che fino a quel momento aveva cercato di limitare i danni causati all’ex-amico, passa finalmente al contrattacco e tira fuori una serie interminabile di documenti governativi riservati che ha ricevuto prima del ’39 da Hiss, tra cui i celebri “documenti della zucca” nascosti nella sua fattoria del Maryland. Le prove, schiaccianti, forniscono la certezza definitiva sull’esistenza di una delle più estese reti di spionaggio della storia statunitense.

    Ma non per tutti. Giornali come il New York Times, il Washington Post e The Nation, infatti, avrebbero continuato a so stenere l’innocenza di Alger Hiss per quasi mezzo secolo. Hiss, da parte sua, riesce a sfuggire all’accusa di spionaggio grazie allo scadere dei termini di prescrizione, ma nel gennaio del 1950 viene condannato a 5 anni di carcere per falsa testimonianza (per aver negato sotto giuramento di essere una spia).

    Dopo aver scontato la breve condanna diventa, come scrive Allen Weinstein nel suo libro “Perjury”, “un’istituzione permanente nel giro delle conferenze universitarie” oltre che ospite di riguardo nei party dell’Upper West Side di Manhattan.

    Ancora nel 1992, il Washington Post scrive che non c’è “alcuna prova” che Hiss fosse un agente sovietico. Nel 1994, il New York Times afferma che “il caso Hiss rimane ancora dubbio”.

    Nel 1995, i messaggi intercettati dal Venona Project vengono resi pubblici e dimostrano una volta per tutte che Alger Hiss era una spia. Nel 1996, il NYT continua a descriverlo come “uno dei grandi misteri della guerra fredda”.

    In realtà, l’unico mistero rimane il fatto che il New York Times continui ad essere considerato uno dei giornali più autorevoli del pianeta.

    Arriva Tail-Gunner Joe

    Già in incubazione da qualche anno, la Guerra Fredda si scalda nell’inverno tra il 1949 e il 1950, con la creazione della repubblica “democratica” tedesca e la fuga dei nazionalisti cinesi a Formosa, mentre i comunisti di Mao si insediano a Pechino.

    L’11 gennaio 1950, mentre negli Stati Uniti infuria il dibattito sul riconoscimento della repubblica popolare cinese, il leader repubblicano Robert Taft pronuncia un durissimo discorso di politica estera in cui accusa il Dipartimento di Stato di essere guidato da un “gruppo di estrema sinistra che si è Voluto sbarazzare di Chiang Kai-shek per consegnare la Cina ai comunisti”. Due settimane dopo, Alger Hiss è condannato a cinque anni di carcere, al termine di un processo che ha evidenziato l’esistenza di cellule di spionaggio comunista nel cuore delle istituzioni di Washington e, nella migliore delle ipotesi, la lentezza del governo nel reagire a questo stato di cose.

    Interrogato dai cronisti sul caso Hiss, Dean Acheson parla di “tragedia” e giura fedeltà eterna all’amico. A Capitol Hill scoppia una rivolta contro l’amministrazione Truman. Nixon definisce la vicenda “disgustosa”.

    Un suo collega dell’HUAC, Karl Mundt, chiede l’apertura di un’inchiesta sulla persistente influenza di Hiss negli ambienti del Dipartimento di Stato.

    Joe Mc- Carthy prende la parola al Senato per chiedere ad Acheson se abbia intenzione di proteggere anche gli altri comunisti stipendiati dal governo. Se Nixon è ormai il “red hunter” ufficiale della Camera, McCarthy non ha intenzione di farsi rubare questo ruolo al Senato.

    L’occasione arriva il 9 gennaio a Wheeling, in West Virginia, con uno dei discorsi più citati (e meno letti) della storia statunitense contemporanea. In occasione dell’anniversario della nascita di Abraham

    Lincoln, una ricorrenza tradizionale per la base elettorale repubblicana, McCarthy deve intrattenere la platea del Republican Women’s Club locale e per scrivere il discorso si fa aiutare da due giornalisti del Washington Times-Herald, Ed Nellor e Jim Waters. Come e perché Tail-Gunner Joe abbia scelto proprio questo momento per dare il via alla sua crociata anticomunista resta un mistero. Qualche storico attribuisce la responsabilità a Nellor, che da qualche giorno era entrato in possesso di una lista di sospetti comunisti impiegati al Dipartimento di Stato. Qualcun altro identifica la fonte primaria delle informazioni di Mc-Carthy con un ex membro dello staff della Casa Bianca, Robert Lee; con il segretario della Marina, James Forrestal; con il rettore della School of Foreign Service, Edmund Walsh; o con un non meglio precisato rapporto dell’FBI di J. Edgar Hoover.

    Comunque sia andata, resta il fatto che già da qualche anno McCarthy, come del resto la maggioranza dei politici repubblicani, aveva fatto dell’anticomunismo una delle sue armi propagandistiche predilette. E il 9 gennaio del 1950 – dopo la caduta della Cina, la condanna di Alger Hiss e (appena una settimana prima) l’arresto di Klaus Fuchs per l’accusa di spionaggio atomico – il giovane senatore del Wisconsin si sente pronto per entrare nella storia.

    Wheeling, West Virginia

    Seguendo il canovaccio scritto da Nellor e Waters, ma parlando spesso a braccio, Mc-Carthy scuote la platea con un discorso poderoso ed efficace. Il senatore spiega come la fine della Seconda guerra mondiale abbia lasciato gli americani pieni di speranza per un futuro di pace. Un’aspirazione tradita dalla Guerra fredda e dall’espansione della dittatura comunista, che ormai opprime “800 milioni di persone in tutto il mondo” sotto gli occhi impotenti degli Stati Uniti.

    Un’impotenza, afferma McCarthy, che non ha niente a che vedere con la forza ideologica o militare dell’Unione Sovietica, ma piuttosto con le “azioni traditrici di persone che sono trattate meglio di chiunque altro dal sistema americano […] che hanno le case più lussuose, la migliore educazione e i mestieri più prestigiosi che il governo può offrire”.

    L’America, secondo McCarthy, è tradita da “uomini giovani e intelligenti nati con il cucchiaio d’argento in bocca”, diventati gli alleati segreti dell’Unione Sovietica.

    Alger Hiss è soltanto un esempio tra i tanti. “Non ho il tempo – dice il senatore – di nominare tutti gli uomini del Dipartimento di Stato accusati di essere esponenti attivi del partito comunista o spie. Ma ho tra le mani una lista di 205 nomi di cui il segretario di Stato è perfettamente a conoscenza.

    Malgrado ciò, continuano tutti a lavorare per il Dipartimento di Stato influenzando la politica estera del nostro paese”.

    “That was news”, commentò lo storico Arthur Herman. E infatti, dopo qualche giorno, la notizia rimbalza sulle prime pagine di tutti i quotidiani statunitensi. I giornalisti vogliono sapere la provenienza della lista di McCarthy, ma il senatore confonde le acque (per esempio parlando di 57 nomi invece che di 205) e si prepara ad attaccare il bersaglio grosso: la Casa Bianca. Ai cronisti che lo assediano prima di un comizio a Reno, in Nevada, comunica di aver scritto un telegramma a Truman in cui chiede spiegazioni al presidente.

    Truman gli risponde con disprezzo. A Reno, McCarthy inizia a fare i primi nomi, quelli di John Stewart Service (esperto di Cina e consigliere dell’amministrazione per il sudest asiatico), Mary Jane Keeney (impiegata della Federal Economic Administration), Gustavo Duran (dirigente delle Nazioni Unite) e Harlow Shapley (funzionario dell’Unesco). Le prove a loro carico sono schiaccianti.

    L’opinione pubblica inizia a comprendere l’enormità del fenomeno e a stringersi intorno al senatore del Wisconsin.

    E i primi editoriali ostili cominciano a spuntare tra le colonne dei giornali. Il 13 febbraio McCarthy arriva a Las Vegas per un altro comizio. Nello stesso giorno, il Dipartimento di Stato organizza una conferenza stampa per smentire categoricamente tutte le accuse del senatore. Il responsabile della sicurezza per il Dipartimento, John Peurifoy, lo sfida apertamente.

    “Dal 1947 – dice – abbiamo indagato su oltre 16mila funzionari; non è stata trovata neppure una singola spia o un singolo membro del partito comunista”. Ma in privato, l’amministrazione inizia a preoccuparsi seriamente sulla provenienza delle informazioni di cui McCarthy è in possesso.

    Un altro “caso Hiss” avrebbe messo definitivamente in ginocchio Truman e l’intero establishment liberal. Quello che i democratici non sanno (e forse neppure Mc-Carthy) è che dal febbraio del 1943, negli anonimi uffici di un ex-liceo femminile della Virginia, Arlington Hall, il controspionaggio statunitense stava lavorando alla decrittazione dei cablogrammi in codice spediti dagli agenti sovietici in territorio americano verso Mosca. E che qualche decina di spie, inserita nei meandri del potere esecutivo, è già stata identificata.

    Le spie sovietiche al Dipartimento di Stato

    Grazie all’accuratezza delle proprie fonti, o a una fortuna sfacciata, i quattro nomi svelati da McCarthy a Reno si rivelano essere assai meno “innocenti” di quanto Peurifoy e i democratici sostengono.

    Gustavo Duran non è solo un comunista, ma una figura centrale delle purghe staliniste di anarchici e trotzkysti durante la guerra civile spagnola. Ufficiale della feroce polizia segreta comunista in Spagna, responsabile di omicidi a sangue freddo ed esecuzioni di massa, quando Franco prende il potere scappa negli Stati Uniti con l’aiuto di Ernest Hemingway e del l’ambasciatore americano a Cuba, Spruille Braden, che nel 1946 lo raccomanda per un posto di prestigio all’Onu.

    Tra i giornalisti che difendono Duran con forza dalle accuse di McCarthy, c’è Michael Straight di New Republic. Quello che Straight non dice ai suoi lettori, però, è che egli stesso è una spia sovietica, reclutato anni prima a Cambridge insieme a Anthony Blunt e Kim Philby.

    Philip e Mary Jane Keeney, comunisti di professione e librai per hobby, hanno una storia singolare. Philip perde il lavoro all’università negli anni Quaranta a causa delle sue attività politiche radicali. Durante la guerra, però, riesce a farsi assumere all’OSS (Office of Strategic Services), mentre Mary Jane si sistema al Bureau of Economic Warfare. Entrambi, pochi mesi prima, sono stati assoldati dai servizi segreti militari sovietici. Prima della fine del conflitto, passano sotto l’ala protettrice del KGB.

    Nel 1946, Mary Jane entra al Dipartimento di Stato. Nel 1947 l’FBI scopre i suoi contatti con il KGB. I due vengono licenziati, ma Mary Jane viene assunta pochi mesi dopo dalla delegazione statunitense all’Onu, con l’aiuto di Alger Hiss.

    Fino a quando McCarthy non fa il suo nome e prova definitivamente la sua colpevolezza, Mary Jane Keeney resta sul libro paga dell’amministrazione democratica. Oltre che, naturalmente, su quello del KGB.

    Harlow Shapley, dei quattro, è senza dubbio il meno colpevole. Astronomo con una spiccata predilezione per lo stalinismo, Shapley lavora all’Unesco (e riceve il suo stipendio dal Dipartimento di Stato), malgrado sia iscritto ad almeno una ventina di organizzazioni radicali vicine al partito comunista, di cui otto messe fuorilegge.

    La vera star del gruppo, invece, è John Stewart Service. Arrestato nel 1945 dopo lo scandalo Amerasia, Service ha tranquillamente mantenuto il suo posto nell’amministrazione dopo un breve soggiorno in carcere. Figlio di un missionario, è senz’altro uno degli esperti più accreditati di politica cinese. Tanto accreditato da diventare il primo civile americano ad incontrare ufficialmente Mao Tse-tung.

    Convertito alla causa maoista, fa di tutto per boicottare il governo nazionalista di Chiang e passa informazioni segrete a Philip Jaffee ed Andrew Roth, rispettivamente spie comuniste di Unione Sovietica e Cina. Dopo il “caso Amerasia”, Lauchlin Currie, il referente di Mosca alla Casa Bianca per la politica nel sudest asiatico, lo protegge dalla “persecuzione anticomunista” e riesce a farlo tornare al Dipartimento di Stato.

    Prima che Mc-Carthy faccia pubblicamente il suo nome, Service trova il tempo di collaborare strettamente con Solomon Adler del Tesoro, un altro agente sovietico, e Chi Ch’ao Ting, la “talpa” maoista all’interno del governo nazionalista cinese.

    Fuochi d’artificio in Senato

    Nel tardo pomeriggio del 20 febbraio 1950, McCarthy entra al Senato per pronunciare un discorso in cui denuncia formalmente le lacune del programma di sicurezza del Dipartimento di Stato. Si tratta di un atto d’accusa durissimo nei confronti dell’amministrazione Truman, più che agli 81 funzionari federali (incluso uno speechwriter della Casa Bianca) che vengono presi di mira da Tail-Gunner Joe.

    Sono sei ore di battaglia, sotto un fuoco incrociato di applausi e interruzioni, ma il messaggio di McCarthy arriva forte e chiaro: il governo ha permesso, e permette, che decine di persone che rappresentano un rischio per la sicurezza nazionale continuino a lavorare nel Dipartimento di Stato. Un paio di volte McCarthy esagera la portata delle informazioni di cui è in possesso.

    Un “sospetto comunista” diventa un “membro del partito comunista”, un “amico di qualcuno sospettato di essere comunista” diventa “un caro amico di un noto comunista”; ma il più delle volte McCarthy si spinge verso i confini del bluff soltanto per esercitare una maggiore attrazione mediatica, per ottenere il massimo impatto possibile sull’opinione pubblica. Si tratta di un metodo che il senatore del Wisconsin, negli anni successivi, avrebbe imparato ad adoperare a vantaggio proprio e della causa anticomunista da lui sostenuta. Sul momento, però, queste imprecisioni e forzature lasciano agli avversari dei repubblicani lo spazio di manovra necessario per reagire alla minaccia politica, potenzialmente devastante, che si sta profilando all’orizzonte.

    Il 21 febbraio la leadership del Senato decide che le accuse di Mc-Carthy verranno esaminate da un sottocomitato creato ad hoc all’interno del Foreign Relations Committee, controllato dai democratici.

    A presiederlo viene chiamato Millard Tydings, un senatore del Maryland che ha già avuto modo di incrociare la propria spada con Tail-Gunner Joe. E’ la più classica delle trappole.

    2 - continua
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    Predefinito Rif: DOCUMENTI - La vera storia di Joe McCarthy

    LA VERA STORIA DI JOE MCCARTHY – PARTE TERZA


    Tail-Gunner Joe va alla guerra

    McCarthy all’attacco di Foggy Bottom e pure del mito di Marshall



    Il comitato Tydings si riunisce per la prima volta l’8 marzo del 1950 nel palazzo degli uffici del Senato, sotto le luci abbaglianti dei riflettori televisivi. In teoria, Joe Mc-Carthy dovrebbe illustrare in dettaglio le sue accuse nei confronti del dipartimento di Stato dimostrando la negligenza con cui la Casa Bianca ha affrontato il problema dell’infiltrazione di spie comuniste nel cuore del potere esecutivo. In pratica, il vero bersaglio dell’inchiesta è proprio McCarthy.

    La composizione del comitato è stata pianificata con cura dal leader della maggioranza al Senato, Scott Lucas. Il presidente è Millard Tydings, cinquantanove anni, eletto in Maryland, un caro amico di Truman che ha intenzione di barattare lo scalpo di Mc- Carthy con la candidatura alla vicepresidenza (o con qualsiasi posto di prestigio nel governo) alle elezioni del 1952.

    Il suo attaccante di sfondamento è Brien McMahon del Connecticut, un classico progressive democrat che si è distinto per un rumoroso dissenso contro il discorso tenuto da McCarthy al Senato poche settimane prima. Per Mc-Mahon, Tydings e Theodor Francis Green, un ricco aristocratico eletto nel Rhode Island, la falsità delle affermazioni del junior senator del Wisconsin è un dato di fatto.

    Una verità che non ha alcun bisogno di essere approfondita. E se il senatore repubblicano dell’Iowa, Bourke Hickenlooper, può essere considerato un potenziale alleato di McCarthy, lo stesso non vale per Henry Cabot Lodge del Massachusetts, un esponente del Gop con una lunga carriera bipartisan alle spalle sul cui voto Lucas e Tydings confidano per mettere sistematicamente in minoranza il “red hunter”.

    McCarthy, con molta cautela, cerca di marcare i confini del territorio all’interno del quale è costretto a muoversi, vista la quasi totale assenza di poteri investigativi che i democratici hanno voluto attribuire al comitato. Dichiara di essere un semplice “testimone” pronto a collaborare con i suoi colleghi nella ricerca della verità. Ma i suoi avversari non hanno alcuna intenzione di accettare queste regole del gioco. “Lei è l’uomo che ha provocato la creazione di questo comitato – gli dice Tydings, senza troppi giri di parole – e dunque sarà l’oggetto di una delle indagini più meticolose mai effettuate nella storia della repubblica”. Il senatore del Maryland cerca immediatamente di ottenere una trascrizione del discorso di Wheeling, con l’obiettivo di provare che McCarthy ha detto il falso quando ha denunciato l’esistenza di 205 comunisti al dipartimento di Stato. Cifra già limata dallo stesso McCarthy a 58. Poi prova a far sì che le sue dichiarazioni del 20 febbraio in Senato siano considerate come “rilasciate sotto giuramento” per poterlo successivamente accusare di falsa testimonianza.

    McMahon tenta addirittura di additare McCarthy come responsabile della decisione di rendere pubbliche le sedute del comitato, decisione a cui tutta la delegazione repubblicana ha invece provato a opporsi senza successo.

    In questa atmosfera di caccia all’uomo (la cui vittima, per ironia della sorte, è proprio McCarthy), le prime udienze si rivelano un disastro. La stampa si schiera immediatamente dalla parte della maggioranza e dipinge i vecchi senatori democratici e segregazionisti come un manipolo di eroi dal grande cuore liberal che vuole evitare una serie disdicevole di palesi ingiustizie. Quando Dorothy Kenyon, il primo dei target di Tail-Gunner Joe, compare davanti al comitato, ammette di aver fatto parte di una dozzina di organizzazioni comuniste e spiega che nessuno, al dipartimento di Stato, le ha mai chiesto spiegazioni per questo suo passato turbolento. Poi accusa McCarhty di adoperare metodi simili a quelli di Hitler e Stalin. La sostanza delle dichiarazioni della Keynon, però, conferma totalmente il nocciolo duro della teoria di McCarthy: il dipartimento di Stato era stato lento e pigro nel trattare con gli impiegati che rappresentavano un rischio per la sicurezza nazionale. Ma questo è esattamente il terreno di scontro che i democratici stanno disperatamente cercando di evitare. E così Tydings insiste, udienza dopo udienza, nel tentativo di obbligare McCarthy a provare in dettaglio ogni singola accusa: un’impresa oggettivamente impossibile, viste le limitazioni a cui il comitato è stato sottoposto dallo stesso Tydings.

    Il rapporto su Owen Lattimore

    Spinto dalla scarsità di tempo e di risorse a disposizione, McCarthy si imbatte in un rapporto dell’Fbi su Owen Lattimore. E nella sessione speciale del 22 marzo lo indica come una “top spy di Mosca alla testa dello stesso circolo di spie di cui Alger Hiss faceva parte”. In quei giorni, Owen Lattimore è il direttore della scuola di relazioni internazionali della Johns Hopkins University. Ma la sua carriera è cominciata molti anni prima. Esperto di Mongolia, nel 1941 diventa il consigliere personale di Roosevelt sulle questioni cinesi e nel 1944 accompagna l’allora vicepresidente William Wallace in un lungo viaggio in Russia ed Estremo Oriente. L’influenza di Lattimore nella definizione della politica estera americana va oltre il ruolo ufficiale: i suoi libri e articoli sulla Cina sono trattati con deferenza dai giovani funzionari del dipartimento di Stato, tanto che le sue tesi pro-maoiste diventano la base teorica della disastrosa politica statunitense nell’area (che porta al crollo della Cina nazionalista e all’alleanza tra Mao e l’Urss). Ancora più imbarazzante è la sua visione dell’Unione Sovietica.

    Lattimore considera la dittatura sovietica come un “modello progressista” e le purghe staliniste degli anni Trenta come un “esempio di democrazia”. Nella sua visita con Wallace ai campi di lavoro di Magadan, riesce a comparare i gulag siberiani con la Tennessee Valley Authority, parlando con calore del senso civico degli aguzzini di Stalin.

    Ardente isolazionista durante gli anni del patto di non aggressione nazi-comunista, Lattimore cambia improvvisamente idea nel giugno del 1941, quando Hitler decide di invadere l’Unione Sovietica.

    Come direttore della rivista Pacific Affairs, Lattimore sostiene costantemente – ma con scaltrezza – la strategia di politica estera di Stalin. E nel 1948 partecipa ad un vertice di altissimo livello in cui convince il segretario di Stato, George C. Marshall, che l’interesse degli Stati Uniti è quello di interrompere qualsiasi appoggio, economico e militare, alla Cina nazionalista per stringere una fruttuosa amicizia con i comunisti di Mao, ormai destinati (a suo dire) a una rapida conquista del paese. Marshall credeva di ascoltare i consigli di un esperto dell’area.

    In realtà, siede di fronte a un portavoce ufficioso dell’ideologia sovietica. McCarthy, che ha in mano un dettagliato rapporto dell’Fbi, è pronto a chiamare l’ex direttore del Daily Worker, Louis Budenz (comunista “pentito”), a testimoniare di fronte al comitato per confermare che Lattimore è parte attiva di una cricca di agenti sovietici.

    I democratici fiutano il pericolo e serrano le fila, deridendo le “insensate accuse” di McCarthy. Lattimore, da parte sua, organizza un poderoso contrattacco mediatico-accademico. Di fronte al comitato, circondato dalla famiglia, da colleghi e da simpatizzanti, il magro e occhialuto professore legge per un’ora e quarantacinque minuti la sua autodifesa, giudicando l’intera vicenda come “il parto di una mente perversa”. Quattro giorni più tardi, Budenz conferma che Lattimore lavorava per Mosca, sotto la copertura dell’Institute of Pacific Relations e che John Stewart Service (il funzionario del dipartimento di Stato in carcere per lo scandalo Amerasia) era un suo protégé. La reazione di Lattimore e compagni è devastante. Con un gioco incrociato di indiscrezioni alla stampa ed attacchi personali, Lattimore distrugge la credibilità di Budenz; poi si lancia in un accorato appello alla nazione nel tentativo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal suo caso per concentrarla su Mc-Carthy e i suoi metodi, paragonati a “una invasione barbarica che avrebbe distrutto il tessuto civico dell’America”. L’operazione è un temporaneo successo: per i liberal, Lattimore diventa l’eroe del giorno. Il New York Times, il Washington Post e il Baltimore Sun lo portano in trionfo e pubblicizzano senza ritegno il suo libro “Ordeal by Slander”, in cui per la prima volta viene adoperato il termine “mccarthyism”.

    L’attacco dei barbari anticomunisti all’establishment liberal sembra sventato per sempre. In realtà basteranno un paio d’anni per iniziare a rendersi conto che l’Owen Lattimore di McCarthy è molto più vicino alla realtà di quello dipinto con tanta enfasi dalla stampa. Nel 1952 il nuovo leader del comitato senatoriale per la sicurezza interna, Pat McCarran, avrebbe ripreso a indagare su Lattimore partendo dalla pista abbandonata da McCarthy, scoprendo che il junior senator del Wisconsin aveva ragione quasi su tutto. Soltanto un errore di procedura eviterà all’eroe dei liberal il carcere per falsa testimonianza. Qualche decennio dopo, poi, la decrittazione dei messaggi intercettati grazie al Venona Project e le memorie della spia comunista cinese Chen Han-shen confermeranno, senza ombra di dubbio, che Lattimore era lo strumento “cosciente” di una cospirazione sovietica ai danni degli Stati Uniti.

    McCarthy aveva ragione, dunque. Ma la fretta e l’inesperienza gli avevano impedito di giocare al meglio le sue carte.

    Il caso Philip Jessup

    Frustrato dal caso Lattimore, McCarthy decide di cambiare tattica. E sposta il confronto su un piano più squisitamente politico, scegliendo un obiettivo ancora più vicino ai processi decisionali dell’amministrazione Truman: l’ambassador-at-large Philip Jessup. McCarthy accusa Jessup di aver fatto parte di una serie di organizzazioni prosovietiche negli anni Trenta e sottolinea il suo ruolo di vicepresidente dell’American Council all’interno del chiacchieratissimo Institute of Pacific Relations. McCarthy non si spinge fino a definire Jessup una spia: si limita a catalogarlo come un liberal ingenuo che i veri comunisti come Lattimore riescono a ingannare senza troppi sforzi.

    Malgrado la reazione indignata dei democratici e di Jessup, che sventola in faccia ai membri del comitato le lettere scritte in suo sostegno da Dwight Eisenhower e George Marshall, McCarthy riesce finalmente ad ottenere il risultato minimo che si è prefissato: attirare l’attenzione di settori sempre più vasti dell’opinione pubblica. La campagna di stampa dei giornali liberal, naturalmente, raddoppia d’intensità, ma anche i suoi avversari iniziano a rendersi conto che Mc-Carthy è un osso duro.

    Le schermaglie nel comitato Tydings vanno avanti per settimane, fino a quando il 4 maggio Truman accetta a malincuore di concedere al Senato la visione dei documenti riservati che riguardano i funzionari “a rischio” del dipartimento di Stato. La maggioranza democratica, però, non ha alcuna intenzione di indagare a fondo. E si limita a prendere atto della linea ufficiale dell’amministrazione, secondo cui non esiste alcun concreto rischio di spionaggio.

    Il 25 giugno, proprio mentre i repubblicani stanno ancora protestando per l’atteggiamento irresponsabile di Tydings e colleghi, a migliaia di chilometri da Washington le truppe di terra nordcoreane attraversano il 38° parallelo ed invadono la Corea del Sud. Per McCarthy e per la maggior parte dei cittadini americani non servono prove ulteriori. Le amministrazioni democratiche hanno pericolosamente sottovalutato la minaccia comunista.

    Il 6 luglio, con un impetuoso discorso al Senato, McCarthy si prende una solenne rivincita e attribuisce la responsabilità della fallimentare politica asiatica degli Stati Uniti a un gruppo di “altolocati consiglieri rossi” del dipartimento di Stato, i cui consigli “sono stati più letali delle mitragliatrici coreane”.

    Intanto, incurante dell’accelerazione degli eventi, il comitato prosegue il suo inutile lavoro come se niente fosse successo. Il 29 giugno, mentre Tydings cerca di convincere i democratici più riluttanti ad approvare la relazione finale, l’esercito nordcoreano entra a Seoul. E il 17 luglio, mentre il senatore del Maryland sta limando il rapporto con cui ribadisce che McCarthy è un pazzo visionario e che “il governo è assolutamente privo di infiltrazioni comuniste”, l’Fbi annuncia l’arresto di Julius Rosenberg con l’accusa di spionaggio.

    I coniugi Rosenberg

    Julius Rosenberg non è un funzionario del dipartimento di Stato, ma durante la Seconda guerra mondiale ha lavorato per l’esercito degli Stati Uniti in una delle operazioni top-secret più importanti del secolo: il Manhattan Project per lo sviluppo della bomba atomica. Il suo arresto (insieme a quello della moglie Ethel dell’11 agosto) prova, oltre il più ragionevole dei dubbi, che McCarthy ha perfettamente ragione nel denunciare la negligenza del governo rispetto ai problemi della sicurezza nazionale e dell’infiltrazione di spie comuniste nei gangli del potere esecutivo.

    Spinto in un angolo dalle dinamiche politico-mediatiche del comitato Tydings, il senatore del Wisconsin riesce così a uscire sorprendentemente vincitore dal gioco al massacro voluto dai democratici a Capitol Hill. Anche se i reporter e i vignettisti del Washington Post iniziano a prenderlo regolarmente di mira, infatti, Tail-Gunner Joe diventa improvvisamente il politico conservatore più ricercato dai cronisti in cerca di qualche replica pungente alle dichiarazioni di Truman o Lucas. E intorno alla sua figura inizia a compattarsi un numero sempre maggiore di sostenitori. Celebri anticomunisti come Whittaker Chambers e J.B. Matthews gli offrono consigli e informazioni, ma anche i vertici del Partito repubblicano cominciano a rendersi conto che – in vista delle elezioni di mid-term di novembre – la battaglia di McCarthy può rivelarsi un fattore vincente.

    Coccolato dalla base del partito, che apprezza anche il suo recente coinvolgimento sentimentale con la giovane impiegata del Senato, Jean Kerr, McCarthy diventa la lama più affilata della campagna elettorale repubblicana e il 9 giugno a Milwaukee pronuncia il “keynote address” alla convention del partito in Wisconsin. Il junior senator è improvvisamente cresciuto.

    Per i democratici, invece, sembra che i guai non finiscano mai. Dopo l’invasione della Corea, l’approval rating di Truman è crollato al 39 per cento, mentre quello del suo segretario di Stato, Dean Acheson, veleggia ormai intorno al 20.

    La fiducia degli americani nei confronti di un’amministrazione che preferisce condurre la guerra a colpi di risoluzioni Onu invece che sfruttare fino in fondo la propria superiorità militare è ai minimi storici. E in questo contesto già difficile si innesta lo scontro durissimo tra Truman e il generale Douglas MacArthur, che si è dimostrato in grado di frenare l’avanzata nordcoreana ribaltando le sorti del conflitto.

    Nell’ottobre del 1950, le truppe americane espugnano la capitale nordcoreana Pyongyang. Il 24 novembre, MacArthur dice alla stampa che conta di concludere vittoriosamente le operazioni militari entro Natale. Il giorno dopo, 300 mila soldati cinesi irrompono nel conflitto, attaccando le forze alleate sulle rive del fiume Yalu.

    Inizia una fase completamente nuova della guerra. Un confronto totale con la Cina comunista rischierebbe di coinvolgere anche l’Unione Sovietica e le sue armi nucleari (prodotte grazie alle spie infiltrate nel Manhattan Project).

    Così, senza poter organizzare una risposta militare massiccia, per tutto l’inverno l’esercito statunitense è costretto a ritirarsi verso Sud. La Casa Bianca, aizzata dai “wise men” del dipartimento di Stato, è convinta che l’escalation della crisi sia stata provocata dall’avanzata troppo temeraria di MacArthur in Corea del Nord. Una tesi che la storiografia avrebbe poi smentito categoricamente.

    In realtà i cinesi, grazie anche all’aiuto delle due spie inglesi Guy Burgess (all’Onu) e Donald Maclean (all’ambasciata britannica di Washington), erano in grado di anticipare qualsiasi mossa di americani e alleati.

    Truman e i “wise men” vietano a MacArthur di coinvolgere le truppe della Cina nazionalista di Chiang nel conflitto e gli proibiscono anche di bombardare le linee di rifornimento dell’esercito maoista che si trovano sul lato cinese del confine. Furioso con l’amministrazione democratica, MacArthur riesce comunque a capovolgere, ancora una volta, la dinamica del conflitto. Il 14 marzo del 1951 le truppe Onu guidate dagli Stati Uniti riconquistano Seul. Il 19 marzo Truman, il segretario di Stato Acheson e il ministro della difesa Marshall decidono di invitare Mao ad un tavolo di negoziati per la pace. MacArthur non ci sta. E lancia un secco ultimatum alla Cina comunista: ritiro delle truppe dalla penisola coreana o guerra totale.

    La proposta di negoziato fallisce e la Casa Bianca decide di rimuovere MacArthur dall’incarico, accusandolo di aver sabotato la strategia dell’amministrazione.
    Per i democratici, si tratta di una mossa dalle conseguenze disastrose. Il generale scrive al leader repubblicano della Camera, Joe Martin, per lamentarsi della “strana difficoltà” con cui l’esecutivo elabora le proprie strategie di contenimento della minaccia globale comunista.

    “Se perdiamo questa guerra – spiega MacArthur – anche la caduta dell’Europa sarà inevitabile. Non c’è nessun sostituto per la vittoria”.

    Il 30 marzo Julius ed Ethel Rosenberg vengono giudicati colpevoli di spionaggio.

    Il 4 aprile il giudice Irving R. Kaufman, nel firmare la condanna a morte, dice chiaramente che li reputa in qualche misura responsabili anche per il sangue americano versato in Corea.

    L’82° Congresso e l’attacco a Marshall

    Dopo la rimozione di MacArthur, la Casa Bianca riceve 100 mila telegrammi di protesta in un solo giorno. Secondo un sondaggio Gallup, il 66 per cento dei cittadini americani disapprova la decisione di Truman e appoggia l’intransigenza anticomunista di MacArthur.

    E i repubblicani, che hanno appena vinto le elezioni di mid-term (ma non abbastanza nettamente da riconquistare il controllo di Camera e Senato), decidono di cavalcare l’ondata di sdegno che sta attraversando il paese in vista delle presidenziali.

    MacArthur torna in America il 18 aprile, accolto a San Francisco con una parata degna di un imperatore romano. Nei giorni immediatamente successivi, tutti gli esponenti di rilievo del Gop si scagliano violentemente contro Truman. Sotto i colpi durissimi di Taft, Nixon, Jenner e McCarthy, i democratici sono costretti a concedere l’apertura di un’inchiesta congressuale sulla politica dell’amministrazione in Estremo Oriente. Per la prima volta, il partito di Wilson e Roosevelt inizia ad essere pubblicamente identificato come “il partito del tradimento”.

    “I democratici disprezzano McCarthy, ma in realtà sono terrorizzati”, scrive il settimanale Newsweek all’apertura dei lavori dell’82° Congresso. Per il New York Times, Tail-Gunner Joe è addirittura “uno dei senatori repubblicani più potenti”, mentre il Christian Century, che lo ha attaccato a ripetizione negli ultimi anni, afferma che “il senatore è qui per restare, che ci piaccia o no”.

    Malgrado il clamore della stampa, McCarthy non è ancora una stella di prima grandezza nel firmamento di Capitol Hill.

    Il comitato senatoriale sulla Sicurezza Interna presieduto dal repubblicano Pat Mc-Carran, che indaga su Lattimore e l’IPR seguendo la stessa pista di McCarthy, non lo vede neppure tra i suoi membri. I “vecchi” repubblicani del Senato ancora non si fidano di lui e preferiscono lasciarlo confinato nel Permanent Subcommittee on Investigations. Sebbene il suo indice di riconoscibilità pubblica non riesca ancora a sfondare il muro del 50 per cento, però, McCarthy comincia ad avere un impatto decisivo sulle scelte degli elettori.

    Alle elezioni del 1950 ha combattuto praticamente da solo contro le candidature democratiche di Tydings e Lucas in Maryland ed Illinois. E i candidati repubblicani, da lui scelti, hanno vinto nettamente. Per tutto il 1951, McCarthy continua la sua battaglia per identificare comunisti e spie sovietiche nel governo. Il suo bersaglio preferito, anche se indiretto, è il segretario di Stato Dean Acheson, che rappresenta l’incarnazione perfetta del suo opposto. Laureato a Yale, protetto di Felix Frankfurter e Louis Brandeis, elegante e raffinato, con un accento dell’Est che molti scambiano per inglese, Acheson disprezza profondamente McCarthy, mentre il senatore del Wisconsin spesso si limita a prenderlo in giro (lo chiama“ il decano rosso dell’alta moda”) con il suo humour greve e popolano.

    In autunno, McCarthy riesce a bloccare la nomina di Jessup come ambasciatore alle Nazioni Unite, convincendo il democratico Harold Stassen a schierarsi dalla sua parte nell’attribuire a Jessup la parziale responsabilità del fallimento della strategia americana in Cina. Questo inaspettato successo lo convince a mirare ancora più in alto, verso la figura apparentemente intoccabile di Marshall.

    La tesi di McCarthy è che la lunga carriera di Marshall sia costellata da gravissimi errori di giudizio, incompetenza e negligenza, oltre che da una continua e servile sottomissione agli interessi dell’Unione Sovietica. Il cahier de doléance di McCarthy è pesante: dal ruolo di Marshall a Pearl Harbor al suo sostegno alle concessioni ottenute da Stalin a Yalta; dai fallimenti come segretario di Stato nell’indagare sulla presenza di spie comuniste nell’Onu alla fretta di aprire un “secondo fronte” durante la guerra; dal tentativo di far ottenere gli aiuti economici del “piano Marshall” anche all’Urss e ai suoi alleati alla decisione di tagliare ogni forma di appoggio alla Cina nazionalista.

    “Se Marshall fosse soltanto stupido – sostiene Mc-Carthy di fronte agli attoniti colleghi del Senato – la legge delle probabilità imporrebbe che almeno qualcuna delle sue decisioni sia stata presa nell’interesse degli Stati Uniti”.

    Marshall, insomma, non sarebbe soltanto l’ennesimo liberal ingenuo e senza attributi, ma avrebbe fatto parte di “una cospirazione così immensa da sminuire qualsiasi impresa del genere nella storia dell’umanità”.

    La reazione della stampa, dei democratici, dei moderati repubblicani e perfino di qualche “taftiano” in ordine sparso è violentissima. Il Capital Times di Evjue definisce il discorso “una maratona denigratoria” (smear marathon rende molto meglio l’idea), il senatore Leverett Saltonstall dice di aver provato un “nauseabondo disgusto”, il settimanale Collier scrive che McCarthy ha raggiunto “vette inesplorate di irresponsabilità” e si appella alla leadership repubblicana perché si dissoci dalle accuse lanciate dal senatore del Wisconsin.

    Ancora una volta, spiega lo storico Arthur Herman, McCarthy “affronta una questione ragionevole con irragionevolezza”. Spinto da un irrefrenabile impulso demagogico, oltre che dalla convinzione assoluta di essere dalla parte della ragione, McCarthy riesce a sconcertare perfino un anticomunista tutto d’un pezzo come Taft, che comincia a considerarlo troppo testardo e imprudente per essere davvero utile alla causa che sostiene.

    Ma i vertici del Partito repubblicano sanno anche che non possono permettersi di essere troppo schizzinosi nei confronti di McCarthy. Il 1952, anno di elezioni presidenziali, è appena iniziato. E per la prima volta dal 1924 il Gop vede distintamente la possibilità di ritornare alla Casa Bianca.

    Sarà una lunga, lunghissima campagna elettorale.

    3 - continua
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    Predefinito Rif: DOCUMENTI - La vera storia di Joe McCarthy

    LA VERA STORIA DI JOE MCCARTHY – PARTE QUARTA


    Joe McCarthy nella polvere

    Brutta fine e vendetta postuma di un cacciatore di streghe rosse



    Il 9 luglio 1952 la convention repubblicana di Chicago accoglie il senatore Joe McCarthy con un boato.Mentre la banda attacca “The Halls of Montezuma”, i delegati del Wisconsin si alzano in piedi sventolando i vessilli dello Stato. Tra la folla, impegnata in una frenetica snake dance, compaiono tre cartelli decorati con scritte di colore rosso fiammante.

    Sono i nomi di Hiss, Lattimore e Acheson: i commies del Dipartimento di Stato.

    McCarthy arringa i repubblicani con un discorso vigoroso. Il mondo libero – dice – sta cedendo alle dittature comuniste una media di 100 milioni di persone all’anno; e i responsabili principali di questa emorragia globale si trovano ancora a Washington.

    Poi si rivolge direttamente a Truman: “Signor presidente, il suo telefono sta squillando stanotte. Cinquemila americani la stanno chiamando, dalle prigioni dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti. Hanno nostalgia del loro paese. Sono soli e probabilmente spaventati. Risponda al telefono, Mr. Truman, risponda!”. Infine, in un crescendo finale sottolineato da un ruggito di applausi della platea: “Io dico che un comunista in una caserma dell’esercito è un comunista di troppo. Un comunista nella facoltà di un’università è un comunista di troppo. Un comunista tra i consiglieri americani di Yalta è un comunista di troppo. E anche se ci fosse stato un solo comunista al Dipartimento di Stato, sarebbe stato un comunista di troppo”.

    Il discorso, naturalmente, scatena le repliche feroci della stampa e dei democratici, che sperano di riuscire a organizzare un qualche fronte anti McCarthy in vista delle primarie repubblicane e delle elezioni generali di novembre. Gli insider di Washington confidano nell’incompatibilità di carattere tra il senatore del Wisconsin e il candidato repubblicano alla Casa Bianca, il generale Dwight D. Eisenhower.

    Ike, però, anche se incarna l’anima più pura del moderatismo repubblicano (oggi li chiamano, con un pizzico di disprezzo, rino: republicans in name only), non può permettersi di ignorare (o peggio, di alienarsi) quella parte della propria base elettorale che vede in McCarthy il più integerrimo combattente anticomunista di Capitol Hill. Così, dopo aver scelto Richard Nixon come candidato alla vicepresidenza tra il malumore dei simpatizzanti centristi, Eisenhower è perfino costretto a fare un salto ad Appleton, in piena “McCarthy Country”, per rastrellare qualche voto extra. Si tratterà di una visita fruttuosa.

    Il trionfo repubblicano del 1952

    Il ticket Eisenhower-Nixon vince le elezioni presidenziali di novembre con quasi 11 punti percentuali di vantaggio sulla coppia democratica formata da Adlai Stevenson e John Sparkman. I repubblicani trionfano ovunque, a eccezione che nella Bible Belt del Sud, in Kentucky e in West Virginia, conquistando 442 voti elettorali contro 89. E’ un massacro di proporzioni storiche, accentuato dal fatto che il Gop, seppure di misura, riesce a riconquistare il controllo di Camera e Senato.

    In Wisconsin il distacco tra i due partiti sfiora il 25 per cento e McCarthy, che ha stravinto le primarie repubblicane, passeggia sopra il suo avversario democratico e viene rieletto al Senato. Tail-Gunner Joe si concede addirittura il lusso, a pochi giorni dal voto, di andare a fare campagna elettorale in Connecticut contro William Benton che, negli ultimi mesi della legislatura appena conclusa, aveva inutilmente condotto una crociata politico mediatica per estrometterlo dai ranghi del Senato.

    Benton perde clamorosamente (e nettamente) contro lo sconosciuto repubblicano William A. Purtell.

    McCarthy, aiutato nell’impresa da un giovane neolaureato di Yale, William F. Buckley Jr., ottiene la sua vendetta. Tre anni più tardi, Buckley sarebbe diventato il fondatore della “National Review”, la rivista che avrebbe trasformato il conservatorismo statunitense da un coacervo di dottrine locali (del Sud, del Midwest, dell’Ovest) a un vero movimento culturale nazionale.

    In Arizona, un altro dei nemici giurati di McCarthy, l’ex leader della maggioranza democratica Ernest W. McFarland, viene sconfitto di misura da un giovane astro nascente dell’Ovest: Barry Goldwater.

    Il 3 gennaio 1953 il nuovo Congresso entra a Capitol Hill. Due settimane dopo, Eisenhower prende possesso della Casa Bianca. Fin dal discorso d’insediamento, diventa lampante che Ike non potrà mai essere il presidente desiderato ed eletto dalla destra repubblicana. Il nuovo leader della minoranza al Senato, Lyndon Johnson, definisce le sue parole “un ottimo riassunto dei programmi democratici degli ultimi vent’anni”.

    E non ha tutti i torti, visto che Eisenhower resta in assoluto silenzio sulla minaccia comunista, la necessità di tagliare le tasse e la riforma del welfare (sull’intero programma del Gop, insomma), ribadendo invece la necessità di appoggiarsi alle Nazioni Unite per evitare il rischio di un conflitto nucleare con l’Urss.

    Ma dopo quasi tre decenni di latitanza dal potere la maggior parte dei repubblicani è distratta. L’unico che potrebbe avere il carisma per protestare sarebbe Robert Taft, Mr. Republican in persona. L’eroe dell’America conservatrice, però, non vuole sollevare un polverone di critiche contro Eisenhower e i suoi all’indomani della vittoria elettorale.

    Qualche mese più tardi Taft morirà di cancro, lasciando a Joe McCarthy l’onore (e l’onere) di essere “il più importante repubblicano del Senato”. Tail-Gunner Joe non si dimostrerà all’altezza del compito.

    A McCarthy non interessano ruoli di rilievo nella gerarchia di partito. E, dopo la nomina di William Knowland a leader della maggioranza al Senato, si “accontenta” della presidenza del Government Operations Affairs Committee, conquistando così – dopo sei anni di anticamera – la testa del Permanent Subcommittee on Investigations.

    Dopo un tentativo andato a vuoto con Robert Morris, suo vecchio alleato nel comitato Tydings, McCarthy sceglie come chief counsel del Psi il giovanissimo (26 anni) Roy Cohn, figlio di un noto giudice di New York molto influente nel partito democratico durante gli anni del New Deal.

    Cohn, che si è laureato alla Columbia Law School a 19 anni, ha già lavorato per l’accusa nei processi contro William Remington, i coniugi Rosenberg e Owen Lattimore.

    Come il giornalista George Sokolsky, che lo ha presentato nel dicembre del 1952 a Mc- Carthy, si considera la prova vivente che non tutti gli ebrei newyorkesi sono comunisti o “compagni di viaggio” dei comunisti. Come assistant counsel arriva, invece, Robert F. Kennedy (27 anni), che il padre Joseph (amico e sostenitore di McCarthy da anni) ha provato fino alla fine a piazzare al posto di Cohn. A completare l’immagine di un comitato giovane ed aggressivo c’è David Schine (25 anni), figlio di un milionario voluto fortemente a bordo da Cohn.

    Il mito maccartista

    Il comitato comincia immediatamente ad indagare sul vecchio spauracchio di Mc-Carthy: il Dipartimento di Stato. Nel febbraio del 1953 viene ascoltata la testimonianza di Helen Balog, supervisore dell’archivio del foreign service, che conferma come le falle del programma di sicurezza abbiano consentito a centinaia di persone non autorizzate (compreso John Stewart Service) l’accesso a documenti top-secret. Poi è la volta dei responsabili di Voice of America, che devono rispondere delle presunte infiltrazioni comuniste nella produzione delle trasmissioni radiofoniche destinate, in teoria, alla propaganda filoamericana oltre la cortina di ferro.

    In estate il Psi si occupa del Government Printing Office, l’agenzia federale incaricata della stampa e della diffusione di tutte le comunicazioni governative. In settembre tocca all’esercito e alle Nazioni Unite. In ottobre vengono acquisite le prove che evidenziano il ruolo di Harry Dexter White nello scandalo che vede, nella Germania del dopoguerra, i cliché per la stampa delle banconote finire in mano ai sovietici.

    Queste indagini e questi interrogatori, insieme all’analoga attività svolta alla Camera dall’Huac, sono le fondamenta su cui gli avversari del senatore del Wisconsin costruiranno il mito della “caccia alle streghe” maccartista.

    Anche se i metodi, tanto avversati dai liberal, sono esattamente gli stessi adoperati in passato nella lotta contro il crimine organizzato (e in futuro contro l’amministrazione Nixon nel Watergate).

    Se il Pecora Committee del 1932 o il Nye Committee del 1934, però, si servivano di procedure sbrigative e un po’ rozze nell’investigare contro i banchieri di Wall Street o i mercanti d’armi, McCarthy aveva il grande torto di aver preso di mira i comunisti infiltrati nel governo.

    E questo particolare, per i liberal “compagni di viaggio” dei rivoluzionari rossi, faceva tutta la differenza del mondo. Erano gli obiettivi di Mc-Carthy, non la sua mancanza di tatto o il suo invincibile istinto demagogico, a dare realmente fastidio all’establishment.

    In realtà, il comitato ricorre a metodi estremi soltanto di fronte a testimoni particolarmente ostili, come Philip Foner, Howard Fast o William Mandel. Mentre nella maggior parte dei casi si limita a uno scrupoloso e quasi cauto lavoro di ricerca e ricostruzione dei fatti. Perfino il giornalista inglese Alistair Cooke, che per anni aveva criticato senza mezzi termini Tail-Gunner Joe dai microfoni della Bbc, è costretto ad ammettere che “tra McCarthy e il maccartismo esiste una differenza sostanziale che i liberal detestano dover ammettere”. Proprio come non vogliono ammettere l’evidenza dei fatti quando il Psi svela che, nei primi tre mesi del 1953, alcuni alleati degli Stati Uniti (come Italia, Grecia, Norvegia, Francia e Giappone) hanno violato l’embargo contro la Cina comunista per dare vita a un giro d’affari (illegale) di oltre 2 milioni di dollari.

    Questa sortita in politica estera, che pure gli procura il plauso dell’opinione pubblica e di un settore consistente dei media, rappresenta però il primo segnale di tensione tra McCarthy e la Casa Bianca.

    Le prime ombre del tramonto

    Nei primi giorni dell’estate 1953, la posizione di McCarthy sembra più forte che mai. Il suo matrimonio con Jean Kerr è l’evento più mondano di Washington dalla cerimonia d’inaugurazione della presidenza Eisenhower. Partecipano tutti: Bill Jenner, Richard e Pat Nixon, Harold Stassen, Allen Dulles, Barry Goldwater, Jack Dempsey, John e Robert Kennedy. Un’altra rampolla dei Kennedy, Eunice, è la damigella d’onore.

    Roy Cohn è il maestro di cerimonia. “Baciala, Joe!”, urla la folla impazzita quando i due sposi scendono gli scalini della chiesa di St. Matthew.

    Il 3 agosto McCarthy è l’ospite d’onore alla convention nazionale dei Veterans of Foreign Wars. Il 25 settembre riceve una medaglia d’oro dall’American Legion per il suo “outstanding americanism”. Sembra il culmine di una carriera politica luminosa, ma in realtà la sua stella sta per tramontare. Tail-Gunner Joe, infatti, sta cominciando a perdere il suo proverbiale fiuto. Prima si scontra con la Casa Bianca sulla nomina di James B. Conant (ex presidente dell’università di Harvard) ad alto commissario in Germania. E perde. Poi tenta inutilmente di opporsi alla candidatura di Charles Bohlen come ambasciatore a Mosca, che viene approvata dal Senato a larga maggioranza. Infine si scaglia contro William Bundy, genero di Dean Acheson, accusandolo di aver favorito l’infiltrazione di comunisti nella Cia. Ma prima l’opinione pubblica e poi Eisenhower lo costringono a fare marcia indietro.

    Come se non bastasse, Cohn e Schine si imbarcano in una disastrosa missione europea, alla ricerca di libri di propaganda pro-sovietica diffusi dal servizio d’informazione del Dipartimento di Stato nel Vecchio Continente. L’indagine è assolutamente legittima, come sottolinea la stessa amministrazione Eisenhower, ma il “fantastico duo” riesce soltanto ad attirarsi gli strali della stampa francese e tedesca, che non aspettava un’occasione migliore per protestare contro la Nato e la presenza statunitense in Europa.

    Poche settimane più tardi, poi, arriva un’altra doccia fredda per McCarthy. J.B. Matthews, un suo vecchio collaboratore appena entrato a far parte del Psi, che si sta rivelando un ottimo organizzatore (oltre che un “filtro” perfetto per smussare l’incompatibilità di carattere tra Cohn e Kennedy), è costretto a dimettersi dopo la pubblicazione di un controverso articolo in cui sostiene una sorta di continuità ideologica tra le gerarchie del clero protestante e l’apparato comunista.

    Le dimissioni di Matthews non frenano la rivolta dei membri democratici del comitato, che precipita velocemente nel caos.

    Per spezzare questa spirale negativa, Mc-Carthy ha assolutamente bisogno di trovare una nuova pista. Crede di averla individuata all’inizio di agosto, quando inizia a far circolare la voce che il comitato ha le prove di un’infiltrazione comunista nell’esercito. Sarà una mossa fatale.

    Contro l’esercito

    E’ Roy Cohn a convincere McCarthy della necessità di indagare sulla negligenza dell’esercito nel garantire la sicurezza delle proprie basi, spinto da un inquietante rapporto sul laboratorio di ricerca di Fort Monmouth, in New Jersey. In assenza dei membri democratici, che stanno ancora boicottando le sedute del comitato dopo il caso Matthews, il Psi inizia a interrogare i suoi testimoni, trovando una inaspettata fonte di informazioni nel comandante di Fort Monmouth, il generale Kirk Lawton, che si dimostra preoccupato quanto Mc-Carthy sui rischi di una possibile infiltrazione di spie nel laboratorio.

    Lawton è perfettamente a conoscenza del fatto che, collaborando spontaneamente con il comitato, la sua carriera militare è praticamente terminata. Questa sua sensazione si trasforma in certezza nell’ottobre del 1953, quando viene prima trasferito e poi rimosso dalle forze armate.

    Intanto, i rapporti tra il comitato e l’amministrazione Eisenhower sono peggiorati sensibilmente. Ike, che il 27 luglio ha firmato l’armistizio con la Corea del Nord e la Cina, non gradisce le intrusioni del senatore nella gestione dell’esercito e, dietro le quinte, manovra per sbarazzarsi dall’impiccio.

    Con un timing perfetto, il 3 novembre David Schine riceve una cartolina precetto ed è costretto a partire per il servizio militare. Per McCarthy, ma soprattutto per Cohn (che è legato a Schine da un rapporto strettissimo, che molti non esitano a definire omosessuale), si tratta di una dichiarazione di guerra.

    In soccorso di Tail-Gunner Joe arriva la notizia che il ministro della Giustizia, Herbert Brownell, ha raccolto una serie di prove schiaccianti che dimostrano come Harry Dexter White, alto funzionario del Tesoro nel dopoguerra, sia da anni una spia sovietica. E che nel 1945 Truman era stato ripetutamente messo in allerta dall’Fbi, ma aveva deciso ugualmente di raccomandare White per la presidenza del Fondo monetario internazionale.

    E’ una clamorosa conferma delle tesi di McCarthy, che il senatore tenta di sfruttare per riconquistare la credibilità politica che i problemi interni al comitato hanno messo pesantemente in dubbio. Ancora una volta, però, McCarthy esagera e, in un durissimo discorso trasmesso in radio e in televisione, non si limita ad attaccare Truman e le amministrazioni democratiche ma prende di petto Eisenhower e la sua politica sull’embargo alla Cina.

    In più, il Psi inizia a indagare sul caso di Irving Peress, un dentista dell’esercito con trascorsi nel partito comunista al quale l’ignavia della burocrazia militare ha permesso di essere promosso a maggiore, a dispetto delle raccomandazioni della loyalty board, della legge e del buon senso. In una infuocata udienza del comitato, McCarthy si scaglia senza freni contro uno dei testimoni, il generale Ralph Zwicker, accusandolo senza motivo di essere un complice dello spionaggio sovietico e provocando la sdegnata reazione della stampa, dei vertici militari e della Casa Bianca.

    Eisenhower decide che è arrivato il momento di affrontare il problema alla radice. E lascia al ministro della difesa, John Adams, il compito di fare il lavoro sporco. Adams prepara un rapporto di una quarantina di pagine per dimostrare che Cohn e McCarthy hanno provato a esercitare pressioni sull’esercito per far ottenere a Schine un trattamento preferenziale durante il servizio militare.

    Sono accuse in larga parte infondate. Visto che lo stesso Adams, per ammorbidire McCarthy, aveva più volte tentato di usare il giovane consigliere del comitato come “merce di scambio”.

    Ma il documento – sapientemente distribuito nelle redazioni del Washington Post, del New York Times e del Baltimore Sun – provoca un terremoto mediatico devastante.

    La polemica irrompe nei corridoi di Capitol Hill, dove il senatore repubblicano del Vermont, Ralph Flanders, accusa pubblicamente McCarthy di essere un elemento di divisione nel partito che va fermato a ogni costo.

    Poi, dall’etere, arriva il colpo più pesante. Una trasmissione televisiva della Cbs – il programma “See It Now” di Edward R. Murrow – dipinge un quadro terrificante dell’attività del senatore, utilizzando tecniche di distorsione della realtà che fanno impallidire qualsiasi forzatura “maccartista” del passato.

    Il 12 marzo, tre giorni dopo la trasmissione del “documentario” della Cbs, il New York Times spara in prima pagina una notizia sensazionale: l’esercito accusa ufficialmente McCarthy e Cohn di aver fatto ricorso a minacce per ottenere un trattamento di favore per Schine.

    E’ l’assalto finale a Tail-Gunner Joe.

    Contro se stesso

    Il Psi, che per l’occasione ha visto il ritorno all’ovile dei senatori democratici, decide di indagare sulle accuse dell’esercito nei confronti del suo presidente. McCarthy, naturalmente, non è più nella posizione di poter dirigere i lavori del comitato. Al suo posto viene scelto Karl Mundt, senatore repubblicano del South Dakota. Ray Jenkins, un taciturno penalista del Tennessee, viene assunto come consigliere legale.

    Su richiesta dei democratici, McCarthy acconsente di buon grado alla trasmissione pubblica in televisione. Si tratta di un macroscopico errore di valutazione. Nella tarda mattinata del 22 aprile 1954, i network Abc, Nbc e Du Mont trasmettono in diretta l’udienza di apertura dell’inchiesta. Per milioni di cittadini americani è la prima occasione di vedere all’opera quell’ossessione nazionale che risponde al nome di Joe McCarthy. La maggior parte dei telespettatori, naturalmente, non si rende conto che questa volta il senatore del Wisconsin non rappresenta l’accusa, ma veste i panni dell’imputato.

    L’esercito sceglie un avvocato di Boston, Joseph N. Welch, come capo del proprio team legale. E’ una scelta che si rivela azzeccatissima, perché con i suoi modi eleganti e le sue tattiche spregiudicate Welch comprende molto meglio di McCarthy l’impatto del mezzo televisivo. E riesce costantemente a mettere in difficoltà il senatore del Wisconsin, mettendone in luce i lati negativi del carattere (che non sono pochi).

    L’avvocato dell’esercito, inoltre, riesce a sostenere con brillantezza qualsiasi scontro dialettico con McCarthy, dando la sensazione che le prove in suo possesso siano molto più consistenti di quello che sono in realtà.

    Mentre gli attacchi di Flanders e dei moderati repubblicani si moltiplicano a Capitol Hill, il 9 giugno Mc Carthy compie un altro clamoroso errore tattico, accusando in diretta tv uno degli assistenti di Welch (l’avvocato Fred Fisher) di essere stato un membro della National Lawyers’ Guild, un’organizzazione forense vicina al partito comunista. Il fatto è vero, ma la rivelazione viene vista dall’opinione pubblica come un trucco per sviare l’attenzione dalle proprie responsabilità.

    L’approval rating del senatore precipita in tutto il paese ai minimi storici. Messo in un angolo, e abbandonato dalla gran parte degli alleati, McCarthy perde la testa e inizia a scivolare nel baratro dell’alcolismo.

    Dopo 36 giorni di udienze e 187 ore di copertura televisiva, i lavori del comitato si concludono il 17 giugno. Il 20 luglio Cohn si dimette. E in Senato iniziano le grandi manovre per la resa dei conti con Tail-Gunner Joe.

    La relazione finale del Psi viene resa pubblica il 31 agosto 1954. Si tratta di un atto d’accusa imponente nei confronti di Mc- Carthy, colpevole di aver permesso a Cohn di intraprendere una campagna personale a protezione di Schine, ma anche nei confronti dell’amministrazione Eisenhower, responsabile di aver interferito nell’inchiesta del comitato su Fort Monmouth.

    Ma alla stampa, ai democratici e ai moderati repubblicani non interessa affatto che, ancora una volta, il “red hunter” abbia dimostrato come il nocciolo duro delle sue accuse sia fondamentalmente vero. Perché l’attenzione di tutti è concentrata sul tentativo, capeggiato dal leader della minoranza Lyndon Johnson, di far passare al Senato una mozione di censura contro McCarthy.

    La censura del Senato

    Come spiega con candore Hubert Humphrey, che nel 1968 sarebbe stato sconfitto da Nixon nella corsa alla Casa Bianca, “la vera minaccia rappresentata da Mc-Carthy consiste nel fatto che egli è riuscito ad immobilizzare il movimento liberal americano”.

    I liberal, sul finire dell’estate 1954, hanno la ferma intenzione di uscire da questa impasse. Johnson capisce che, giocando sulle divisioni interne al partito repubblicano, l’operazione può essere condotta in porto.

    Convince Knowland (il leader della maggioranza Gop) a depennare qualsiasi potenziale alleato di McCarthy dalla lista dei membri del subcommittee incaricato di investigare sulla condotta del senatore del Wisconsin. E mette in piedi una squadra di congressmen compiacenti e facilmente manipolabili, guidati dal moderato repubblicano Arthur V. Watkins, eletto nello Utah.

    Il comitato, che stavolta ha scelto di non aprire le proprie udienze al pubblico, lavora su cinque capi d’imputazione, ma nella relazione finale – presentata il 27 settembre – la raccomandazione per una censura nei confronti di McCarthy viene motivata soltanto con due fatti: il “vilipendio al Senato” relativo a un vecchio (e piuttosto insignificante) episodio accaduto nella passata legislatura; e il comportamento “riprovevole” tenuto da McCarthy nell’interrogatorio del generale Zwicker.

    Troppo poco, forse, per giustificare la terza mozione di censura nella storia del Senato statunitense.

    Ma abbastanza per influenzare l’esito delle elezioni di midterm, in cui i democratici riescono a riconquistare il controllo di entrambi i rami del Congresso. Lyndon Johnson diventa il leader della maggioranza al Senato. I candidati pro McCarthy perdono in Illinois, Montana, Wyoming, Oregon, Michigan e perfino in Wisconsin. La strada verso l’omicidio politico di McCarthy è finalmente spianata.

    Il 10 novembre, la sessione speciale del Senato si apre con un’atmosfera pesante: i democratici sono pronti a reclamare la loro vendetta. McCarthy, con un discorso coraggioso ma provocatorio in cui difende integralmente la sostanza e il metodo della propria attività investigativa, non fa niente per smussare i toni dello scontro. E si presenta come l’ultimo bastione del mondo libero di fronte alla minaccia comunista. I campioni della destra taftiana – come Barry Goldwater, William Jenner e Herman Welker – lo difendono fino alla fine, ma i democratici e i moderati repubblicani come Prescott Bush (padre del futuro presidente George Bush e nonno di George W.) lo attaccano senza mezzi termini. Pochi giorni prima della votazione finale, McCarthy viene ricoverato per un violento attacco di borsite, che molti attribuiscono all’ormai smodato vizio del bere.

    Goldwater lo va a trovare in ospedale, proponendogli la bozza di una lettera di scuse da consegnare a Watkins per salvare il salvabile, ma il senatore rifiuta con sdegno. Alla fine, dopo tre settimane di infuocato dibattito, il Senato vota (67-22) a favore della censura. La carriera politica di Mc-Carthy finisce con un tonfo.

    Estinzione e morte di Tail-Gunner Joe

    “Da oggi in poi – scrive con soddisfazione New Republic – Joe è l’uomo con la lettera scarlatta: una enorme ‘C’ scritta sul suo soprabito dagli uomini che lo conoscono meglio di chiunque altro”.

    Mentre il fronte anti McCarthy tira un sospiro collettivo di sollievo e Richard Rovere si prepara a scrivere la biografia “Senator Joe”, che avrebbe cristallizzato il dibattito intorno alla suafigura per decenni, Tail-Gunner Joe si incammina mestamente sul viale del tramonto.

    Con sua moglie Jean, al riparo dai clamori della stampa e della battaglia politica, McCarthy cerca la tranquillità necessaria per superare il problema dell’alcolismo.
    Gli amici che gli sono rimasti, come William F. Buckley e Brent Bozell, fanno il possibile per distrarlo dal bere e sollevarlo dalla depressione in cui è precipitato. I suoi ultimi interventi al Senato passano totalmente sotto silenzio. Anche quando, come nell’ottobre del 1955, avverte il paese dell’importanza cruciale della sfida missilistica con l’Unione Sovietica. Un discorso quasi profetico, pronunciato due anni prima dello Sputnik.

    Qualche mese più tardi, è l’unico senatore non invitato al tradizionale party di Natale della Casa Bianca. Il suo staff riesce a convincerlo che si è trattato soltanto di un disguido postale. Nel 1956, per qualche settimana, Mc-Carthy si diletta con l’idea di sfidare Eisenhower alle primarie repubblicane.

    Ma un sondaggio privato gli rivela che ormai lo appoggia soltanto il 3 per cento degli elettori del Gop. In estate, dopo una disastrosa apparizione alla convention nazionale del partito, McCarthy entra nuovamente in ospedale per una cura di disintossicazione.

    Al termine di una terribile crisi di delirium tremens, i medici gli diagnosticano una forma gravissima di cirrosi epatica. La moglie, disperata, tenta di convincerlo ad annunciare la sua ricandidatura per le elezioni del 1958, nella speranza che la passione politica riaccenda in lui il fuoco ormai spento.

    Ma è tutto inutile. Il 28 aprile del 1957, Mc-Carthy viene ricoverato al Bethesda Navy Hospital per l’ultima volta. Jean Kerr dice alla stampa che si tratta di una banale operazione chirurgica al ginocchio. In realtà, il suo fegato lo ha abbandonato definitivamente.

    Il 2 maggio, alle 5.02 del pomeriggio, Joseph Raymond McCarthy muore.

    Dopo la più poderosa campagna di diffamazione post-mortem mai architettata nella storia contemporanea, la decrittazione dei messaggi intercettati dal Venoma Project e l’apertura degli archivi sovietici avrebbero vendicato, nell’indifferenza generale di storici e giornalisti, la sua memoria.
    Ci sarebbero voluti più di quarant’anni per scoprire che, tutto sommato, Joe Mc- Carthy aveva ragione.


    4 - fine

    archivio
    SADNESS IS REBELLION

 

 

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