Quando i repubblicani non erano neocon

Intervista ad Henry Kissinger (25-10-05)


di Marcello Villari

[a seguire, un'intervista a Henry Kissinger di Der Spiegel tradotta per Megachip da Giulia Sandri]


La "realpolitik" è stata la linea di comportamento a cui Henry Kissinger si è sempre ispirato, fin dall'epoca in cui era Segretario di Stato. Non si è mai discostato da quell'approccio alle grandi questioni planetarie nemmeno nei tempi più recenti, in cui, lontano da incarichi importanti, ha esercitato il ben remunerato mestiere di consulente. In questa intervista a "Spigel", l'ex capo della diplomazia americana dei tempi di Nixon, al quale dell'esportazione della democrazia tanto cara ai Neocon non gliene importa niente, dice - con molto realismo appunto - alcune cose importanti,che possiamo riassumere così:

GUERRA ALL'IRAQ. Il messaggio che Kissinger rivolge agli europei, francesi e tedeschi in particolare, che, a differenza dell'attuale Amministrazione di Washington, ritiene alleati strategici per gli Usa, è dettato da una presa d'atto della situazione: volete, dice, che in Iraq vincano gli integralisti islamici? Se così fosse le conseguenze si sentirebbero non solo in tutto il Medio oriente, ma anche nel Sud est asiatico, fino in India. Dunque è interesse di tutti,anche degli europei, stabilizzare la situazione e trovare soluzioni positive. Naturalmente Kissinger non arriva a dire che questo pericolo è la conseguenza più devastante della guerra di Bush, che anzi giustifica, ma solo con parole di circostanza. Si capisce che lui quella guerra non l'avrebbe fatta.

ESPORTAZIONE DELLA DEMOCRAZIA. Qui la sua critica è radicale: il concetto occidentale di democrazia, dice, non garantisce nulla in società divise da etnie diverse, clan e gruppi religiosi. Senza un bilanciamento fra i vari gruppi, nessuno si sentirebbe garantito, dal momento che un qualunque governo, "democraticamente" eletto,è sempre espressione di uno dei gruppi in campo, quello più numeroso. In altre parole, elezioni all'occidentale in questi paesi non significano niente, mettono in pericolo le minoranze etniche o religiose e non garantiscono la sicurezza.

LA CINA. Kissinger è stato sempre un vecchio sostenitore della Cina, ieri in funzione antisovietica, oggi antirussa. I tempi sono cambiati, ma soviet o zar, per lui, Mosca resta il vero pericolo per gli Stati Uniti. Dei cinesi ha sempre apprezzato il pragmatismo per cui, pur non chiudendo gli occhi sul significato dell'emergere della Cina come grande potenza mondiale invita l'amministrazione americana a non trattare Pechino come un possibile nuovo antagonista geopolitico, ma di affrontare il problema per quello che è: una grande sfida economica.

Kissinger parla a un giornale tedesco, ma spera che i suoi "consigli" vengano ascoltati anche a Washington, dai suoi amici repubblicani che siedono alla Casa Bianca. Consigli di un realista, non certo dettati da grandi aspirazioni ideali o fumisterie del tipo "il nostro modo di vivere", l'"american way" e così via: non voleva esportare niente quando, su sua iniziativa, l'amico amerikano, tal Pinochet, faceva fuori Salvador Allende, ma solo mantenere il controllo degli Stati Uniti su quella parte del mondo. Ecco perchè non ha mai sentito il bisogno di giustificarsi.


Kissinger: Meglio non avere paura

di Georg Mascolo e Gerhard Spörl

da Der Spiegel
traduzione per Megachip di Giulia Sandri


L'ex Segretario di Stato degli Stati Uniti, Henry Kissinger, 82anni, parla dei rischi della guerra in Iraq, dei contrasti con l'Europa e del ruolo futuro della Cina nel sistema politico internazionale.

SPIEGEL: Signor Segretario, l'Iraq è diventato un grande problema per la potenza mondiale americana. Cosa dovrebbe accadere, secondo lei, affinché l'Iraq possa raggiungere la stabilità e rimanere unito?

Kissinger: L'Iraq non è più un problema solo per l'America. Qualsiasi cosa la gente possa pensare riguardo alle decisioni precedenti, nel caso in cui gli islamici radicali dovessero vincere, gli effetti verrebbero sentiti da ogni nazione con una vasta popolazione musulmana. Nelle regioni come il Sud Est Asiatico, perfino in India, questo fatto verrebbe visto come una vittoria degli jihadisti su quel mondo tecnicamente superiore a cui avevano dichiarato guerra. In Iraq stanno per tenersi le elezioni proprio adesso. In seguito, dovremmo riunirci con i nostri alleati, così come con tutte le altre nazioni implicate, e studiare come la situazione politica possa essere stabilizzata. Il riconoscimento internazionale è una parte importante di tale stabilità

SPIEGEL: Però sembra che l'America abbia esaurito il suo ottimismo. La maggioranza dei suoi cittadini pensa che l'intervento militare sia stato un errore. Forse la guerra è stata persa in patria, in America?

Kissinger: Possiedo un'esperienza speciale in tale ambito a causa della guerra del Vietnam. E' da questa prospettiva che ora sto osservando la guerra in Iraq. Il governo Nixon, a cui ho preso parte come Consigliere per la Sicurezza Nazionale, ereditò una guerra che non aveva cominciato. I principali membri dell'amministrazione che aveva iniziato la guerra avevano in seguito raggiunto le file del movimento pacifista. Il nostro più grande desiderio era di mettere fine alla guerra. E volevamo concluderla in modo tale da non compromettere la stabilità internazionale. Noi volevamo anche evitare di danneggiare il ruolo che l'America aveva giocato nella difesa dei suoi alleati.

SPIEGEL: Come è possibile raggiungere entrambi questi obiettivi nel caso dell'Iraq?

Kissinger: Certamente, non si può comparare ogni singolo aspetto della situazione in Iraq con quella in Vietnam. Ma per portare la guerra irachena ad una conclusione, abbiamo bisogno di un dialogo adeguato in America e della buona volontà di tutti gli attori coinvolti. Non ha nessun senso, adesso, definire un calendario per il ritiro delle truppe dall'Iraq. E' possibile che l'Iraq venga distrutto come conseguenza della nostra situazione politica interna? Ho già avuto esperienza di qualcosa di questo genere. Ognuno dovrebbe fare del suo meglio per metter fine alla guerra in modo responsabile, secondo delle modalità con cui sia noi che il resto del mondo possa convivere.

SPIEGEL: Lei ha criticato gli europei perchè non avevano fornito aiuto sufficiente in Iraq. Cosa dovrebbero fare adesso?

Kissinger: Dovremmo riparlarne dopo lo svolgimento delle elezioni in Iraq e dopo la formazione del nuovo governo in Germania. Guardando in primo luogo alla situazione in America, i neo-conservatori hanno sviluppato un forte sfiducia nei confronti dell'Europa. Nel passato, tali punti di vista contrastanti venivano chiariti parlandosi gli uni con gli altri. Tuttavia, le elezioni tedesche del 2002 hanno ulteriormente esacerbato il problema. Il Cancelliere Schröder ha fatto dell'Iraq, e di un certo tipo di antiamericanismo, i punti forti della sua campagna. Di conseguenza, la politica estera tedesca ha perso del tutto flessibilità nelle sue relazioni con l'America.

SPIEGEL: Tuttavia la Francia ha catalizzato il risentimento dell'America molto più che la Germania.

Kissinger: Dal mio punto di vista, questo fatto era più legato ad un conflitto personale tra i leaders delle due nazioni che aveva escluso qualsiasi forma di compromesso. Originariamente i nostri funzionari di Washington erano convinti che, alla fine, nel corso delle discussioni al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Francia avrebbe dato il suo accordo esattamente come aveva fatto durante la Guerra del Golfo nel 1991. Con la possibilità, però, di imporre alcune condizioni aggiuntive. Dopo tutto, una portaerei francese era già in rotta verso il Mar Rosso. Tuttavia, dopo che la Germania decise di arroccarsi sulla sua posizione, la Francia fu costretta a decidere se lasciare o meno i suoi vicini isolati in mezzo al continente - cosa che avrebbe significato che il ruolo di leader europeo contrario all'unilateralismo americano sarebbe passato alla Germania. Non sono interessato a criticare nessuno qui, sto solamente analizzando come il comportamento della Germania, della Francia e dell'America abbia condotto a questa crisi.

SPIEGEL: Quali sono state le cause profonde di questo grave litigio?

Kissinger: Il nucleo duro dell'Europa è cambiato drasticamente. Dopotutto, lo stato nazione ha le sue radici in Europa. Lo stato vedeva nel sacrificio dei suoi cittadini una strumento legittimo per raggiungere un obbiettivo di politica estera mondiale. Nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, c'erano ancora dei leaders in Europa che rappresentavano nazioni deboli, ma che possedevano un senso profondo della politica estera mondiale. Oggigiorno, d'altro canto, ci sono politici che rappresentano nazioni piuttosto potenti, i cui cittadini, tuttavia, non sono preparati a sacrificare se stessi per lo stato. L'Europa sta permettendo che lo stato-nazione classico venga sacrificato senza avere una comunità politica sufficientemente organizzata logisticamente ed emozionalmente, diciamo una forma di Stati Uniti d'Europa, che ne possa prendere il posto. D'altra parte, l'America è ancora uno stato nazione tradizionale.

SPIEGEL: In Europa c'è una scuola di pensiero che vorrebbe vedere il vecchio continente come un contrappeso per l'America.

Kissinger: Sì, questa tendenza esiste. Ho letto numerose osservazioni sullo Spiegel che indicavano che la politica estera della Germania mira ad affrontare di petto l'America. Questo potrebbe rivelarsi necessario in certe situazioni, ma il confronto diretto con l'America non dovrebbe costituire un fattore determinante della politica estera tedesca.

SPIEGEL: Nel 1989, Bush padre disse generosamente che la Germania era un "partner nella leadership."

Kissinger: Per la mia generazione, le relazioni con l'Europa costituivano il punto centrale della politica estera americana. Anche durante il periodo che ho passato al governo ci sono stati dei disaccordi, alcune volte molto forti. Ma erano tutti dei litigi all'interno di una famiglia. Noi sapevamo quanto fu dolorosa la decisione negli anni ‘50 e ‘60 di accettare la divisione della Germania, perché una metà potesse rimanere in Occidente. Era lo stesso modo in cui ha pensato George Bush padre. Era la ragione per cui era facile per l'America approvare l'unificazione della Germania. Non sono sicuro che l'attuale generazione, che non ha avuto queste stesse esperienze, abbia la stessa visione delle cose.

SPIEGEL: Molte persone in Germania pensano che la situazione caotica in Iraq sia una chiara prova che la Guerra è stata un errore.

Kissinger: La Germania è riuscita a rimanere al di fuori della fase militare della guerra. E' assolutamente giusto che il governo americano chieda quale avrebbe potuto essere l'alternativa. Dopo l'11 settembre era difficile immaginare che il regime di Saddam potesse rimanere intatto. L'Onu ha confermato numerose violazioni dell'accordo di cessate il fuoco del 1991. Saddam possedeva il petrolio, aveva l'esercito più grande di tutta la regione e c'era la ben fondata preoccupazione che potesse detenere armi di distruzione di massa. La decisione di agire era basata su delle buone ragioni. Se questo si possa dire ancora oggi, è un'altra questione. Ma ho anche pensato, sin dall'inizio, che fosse sbagliato credere che l'occupazione dell'Iraq potesse essere priva di problemi come fu per la Germania ed il Giappone.

SPIEGEL: L'instaurazione della democrazia in Iraq ed in Medio Oriente può essere la soluzione del problema?

Kissinger: Il concetto occidentale di democrazia è basato sull'idea che chi perde un'elezione avrà la possibilità di vincere la prossima volta. Ma nel caso di una nazione divisa etnicamente e religiosamente, nella quale le minoranze non riescono a convivere in pace, questo equilibrio indispensabile non può essere garantito adeguatamente dalla democrazia. Quando ogni gruppo etnico è armato, non sorprende che l'esercito del nuovo stato sia visto da una parte della popolazione come una milizia ideologica.

SPIEGEL: Lei è conosciuto come il più importante difensore della scuola di pensiero realistica, la quale imputa una grande importanza alla stabilità nelle relazioni internazionali. Lei è anche scettico nei confronti dei grandi cambiamenti, come quello che i neo-conservatori hanno in mente per il Medio Oriente. I politici come lei stanno forse godendo di un ritorno in auge?

Kissinger: Per me il realismo in politica estera significa un'attenta considerazione di tutti gli aspetti pertinenti alla questione prima di prendere una decisione. Questo è l'unico modo in cui ci si può muovere da un punto verso un altro. I realisti non sono così tanto concentrati sul potere come alla gente piace credere. Il realismo è costituito da una chiara serie di valori, poiché le decisioni in politica estera sono spesso decise con la più piccola delle maggioranze. Senza nessun senso di quello che è giusto o sbagliato, si annegherebbe in una marea di decisioni difficili e pragmatiche. Anche Bismarck credeva che la cosa migliore che un politico possa fare sia “assicurarsi di vedere il Signore marciare attraverso la storia mondiale e poi saltare e attaccarsi alle sue falde, in modo da essere trasportato il più lontano possibile”.

SPIEGEL: In questo momento Lei sta scrivendo un libro nel quale mira a descrivere le differenze di base tra gli statisti ed i profeti.

Kissinger: Sì, gli statisti pensano in termini di storia e vedono la società come un organismo. I profeti sono differenti poiché credono che i fini assoluti possano essere raggiunti nel futuro immediato. Sono state uccise più persone dai crociati che dagli statisti.

SPIEGEL: Uno dei profeti è stato Mao che, in un nuovo libro che ha attirato molta attenzione, è stato descritto come l'assassino di massa del ventesimo secolo.

Kissinger: E' vero che egli ha causato alla sua gente un'incredibile quantità di sofferenze ed è un esempio di profeti di cui scrivo. Quando Richard Nixon incontrò Mao nel 1972 gli disse che i suoi insegnamenti avevano trasformato la civiltà e la cultura cinese. Mao gli rispose: “Tutto quello che ho cambiato è Pechino ed alcune periferie”. Era un incubo per lui il fatto che, dopo vent'anni di lotta e dopo tutti quegli sforzi per fondare una società comunista, egli avesse raggiunto così poco in termini di valori duraturi. Questo è ciò che lo ha condotto a sacrificare sempre più vite per completare il suo lavoro prima della sua morte. Egli credeva che altrimenti la sua eredità morale sarebbe stata distrutta.

SPIEGEL: L'ironia della storia è che alla fine i profeti causano il loro proprio fallimento.

Kissinger: Nel tentativo di prevenire il loro fallimento essi si rifugiano sempre più nella violenza ed in questo modo, se tutto va bene, causano la propria rovina.

SPIEGEL: Quale statista lei ammira di più – Bismarck, Churchill?

Kissinger: Ho grande rispetto anche per Charles de Gaulle. Rispetto Bismarck, ma con alcune condizioni. Egli realizzò l'unità tedesca, cosa in cui nessuno dei suoi processori era riuscito. Tuttavia, egli lasciò a coloro che vennero dopo di lui un compito che era al di là dei loro mezzi. Per Bismarck la politica estera era basata principalmente sull'equilibrio di potere. Coloro che vennero dopo di lui mancavano della moderazione che lui possedeva.

SPIEGEL : Tornando ai leaders di oggi: la politica estera americana estera americana è cambiata molto negli ultimi mesi. Un membro dell' “asse del male”, la Corea del Nord, adesso dovrebbe ricevere degli aiuti del valore di miliardi di dollari in cambio dell'interruzione del suo programma nucleare a fini militari. E nel caso dell'Iran, nonostante tutti i contrattempi, l'amministrazione Bush sta ricorrendo alla diplomazia. Questo cambio di direzione è il risultato di una convinzione o di pura necessità?

Kissinger: Per quello che posso vedere il governo non si sente così tanto sotto pressione come invece riportano i media. E inoltre le politiche americane sono normalmente il risultato di un risultato pragmatico e non filosofico. Nessuno a Washington ha detto che ora preferiamo il multilateralismo. Nel caso della Corea del Nord, sono ottimista. Questo non è un problema americano. La diffusione delle armi di distruzione di massa è una questione che riguarda tutti. Né il Giappone, né la Cina, né la Russia vogliono vedere un'altra potenza atomica in Asia. Tali sforzi congiunti condurranno ad un risultato. Ci sarà un po' più di andirivieni per quanto riguarda i dettagli, ma le decisioni di base sono state prese.

SPIEGEL: lei è altrettanto ottimista per quanto riguarda la situazione in Iran?

Kissinger: Ad un certo punto a Washington la decisione più importante dovrà essere presa. La questione è chi avrà il sopravvento: coloro che credono al cambio di regime o coloro che sono a favore delle negoziazioni? Ma mi faccia sottolineare un fatto: sono stato coinvolto nei processi decisionali quando c'erano due superpotenze. A quell'epoca si poteva essere piuttosto sicuri che entrambe le parti avrebbero esercitato la stessa moderazione prima di cominciare una guerra atomica. E, al vertice di tutto ciò, immagini solo quanto complicati fossero divenuti i processi decisionali nel tentativo di prevedere il possibile comportamento dell'avversario. L'intero sistema delle relazioni internazionali deve essere cambiato. Dobbiamo tenerlo bene a mente quando guardiamo all'Iran. Le nazioni democratiche devono tenere d'occhio le conseguenze della diffusione delle armi nucleari e devono chiedersi cosa avrebbero fatto se le bombe di Madrid fossero state nucleari. Oppure se i terroristi di New York avessero usato armi nucleari, oppure se 50000 persone fossero morte a New Orleans in un attacco nucleare. Il mondo sarebbe molto differente da come è adesso. Dobbiamo quindi chiedere a noi stessi quanta energia vogliamo mettere nella lotta al problema dell'ulteriore proliferazione delle armi nucleari.

SPIEGEL: A che punto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe cominciare ad occuparsi del programma atomico dell'Iran?

Kissinger: Dovremmo evitare un nuovo confronto diretto nel Consiglio di Sicurezza finché non sapremo esattamente cosa vogliamo e cosa siamo in grado di realizzare. L'Iran è più importante della Corea del Nord.. E' una nazione più significativa e ci sono più opzioni.

SPIEGEL: C'è una opzione militare?

Kissinger: A livello tattico sarebbe imprudente escludere un'opzione militare. Ma ogni volta che qualcuno afferma che l'America dovrebbe considerare questa opzione, si scatena un putiferio.

E' importante che tutti siano d'accordo sui pericoli della proliferazione. E con questo non intendo solamente l'organizzare un altro vertice dei ministri degli affari esteri. Dovremmo considerare quali pressioni ed incentivi abbiamo a disposizione. Ma l'Iran deve anche capire che facciamo sul serio. Naturalmente, nessuno vuole un'altra crisi in quella regione.

SPIEGEL: Nel Medio Oriente tutto gira sempre intorno agli interessi strategici ed al petrolio. Lei una volta ha scritto: “l'accesso alle risorse naturali può diventare una questione di sopravvivenza per molti stati. Sarebbe un'ironia della storia se il petrolio diventasse l'equivalente moderno della disputa sulle colonie durante il diciannovesimo secolo”. La grande sfida è già cominciata?

Kissinger: Sì, è cominciata, ma solo fino ad un certo punto. Oggi l'accesso all'energia non è solo un problema puramente economico ma anche politico. Finché le risorse sono limitate e la domanda è sempre in crescita, le nazioni consumiste dovrebbero giungere ad un accordo prima che la competizione porti a tensioni molto serie.

SPIEGEL: Tale conflitto è causato dal bisogno energetico della Cina?

Kissinger: Rispetto ad altre nazioni, la Cina possiede davvero una concezione razionale della politica estera. La Cina stimola il bisogno di svilupparsi economicamente. In cambio, la globalizzazione creerà nuove nazioni industrializzate. Questo condurrà ad una maggiore competizione per le risorse.

SPIEGEL: In America c'è una fazione politica che vorrebbe comportarsi con la Cina in modo altrettanto spietato di come aveva fatto con l'Unione Sovietica. Potrebbe essere questa una buona idea?

Kissinger: La sfida è costituita dal fatto che la Cina è un paese con una popolazione enorme che sta lavorando sistematicamente al proprio sviluppo economico e che sta mirando a tassi di crescita senza pari. Questo significa che il centro di gravità della politica mondiale si sta spostando dall'Atlantico al Pacifico. Ma questa non è una sfida che può essere affrontata con un confronto militare o ideologico.

SPIEGEL: La Cina ha imparato dalla caduta dell'Unione Sovietica che deve svilupparsi economicamente e divenire stabile senza abbandonare la sua dottrina comunista.

Kissinger: La Cina è uno stato a partito unico e tale partito si considera comunista. Ma il sistema non è basato sulla pianificazione centralizzata. Ciò significa che le persone possono svilupparsi in una maniera che non è mai stata possibile nell'Unione Sovietica. Il sistema sovietico è sempre stato stalinista, anche durante le fasi di riforma. Tuttavia, prima o poi la Cina arriverà al punto in cui le nuove classi sociali, che saranno emerse grazie allo sviluppo economico, dovranno essere integrate nel sistema politico. Non vi è nessuna garanzia che tale processo funzionerà in modo scorrevole.

SPIEGEL: Il nazionalismo come ideologia di sostituzione è una tentazione di massa per la Cina?

Kissinger: Sono contrario alla descrizione della Cina come il debole della comunità politica mondiale. La Cina ha afferrato più rapidamente rispetto agli altri paesi quello che la globalizzazione significa e quello che comporta. Questa nazione ha imparato come usare le innovazioni altrui a proprio beneficio. L'India, a proposito, non è molto lontana dalla Cina in questo processo. Entrambe non sono nazioni nell'accezione europea del termine, ma piuttosto comunità culturali dotate di enormi mercati. La sfida del futuro è di trovare il modo per affrontare tutto questo.

SPIEGEL: In America la gente spera di essere in grado di sorvegliare l'ascesa cinese e perciò di controllarla in qualche maniera.

Kissinger: Ho detto spesso che il desiderio di dare lezioni alla Cina su come dovrebbe comportarsi nel mondo è sbagliato. La Cina esisteva migliaia di anni prima che l'America venisse scoperta. Potrebbe anche accadere che la potenza crescente della Cina permetta a se stessa di essere rallentata. Tuttavia, finché questo immenso impero non cadrà in pezzi, esso diventerà un fattore molto importante della politica mondiale.

SPIEGEL: Quando Lei parla della Cina, è evidente che ha molto rispetto per questa nazione.

Kissinger: Ho osservato la Cina per più di trent'anni e sono impressionato dal modo logico e saggio con cui affronta i suoi problemi. Ovviamente il sistema internazionale può venire sbilanciato dalla potenza crescente della Cina – se non ci prepariamo per la nuova situazione di competizione, intendo. Ma si tratta di una sfida economica, non di un'aggressione militare al livello di Hitler.

SPIEGEL: Trova che il mondo sia più pacifico oggi, oppure che lo fosse all'epoca della Guerra Fredda?

Kissinger: Oh, vede, la gente sta cominciando solamente ora a spiegare la Guerra Fredda. Anche durante le crisi dell'epoca era in gioco la sopravvivenza di milioni di persone. E noi dovevamo minacciare la superpotenza avversaria di rappresaglie per evitare che essa facesse qualcosa di male a noi. No, quelli non erano tempi felici. Noi eravamo fortunati poiché l'Unione Sovietica era più debole di quello che pensavamo. Oggi viviamo in un mondo nel quale molte cose sono in un flusso. Questo fatto genera molta paura. Ma questa è anche un'epoca di grandi opportunità. Ed io vorrei chiedere agli statisti di oggi di non permettere ai loro pensieri di essere guidati dalla paura.

SPIEGEL: Signor Segretario, grazie per averci concesso questa intervista.


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