A partire da una critica serrata tanto dell’approccio green economy quanto delle teorie della decrescita, un libro tenta di rispondere al “rompicapo del secolo”: come stabilizzare il clima soddisfacendo il diritto allo sviluppo di 1,3 miliardi di persone.

di Marco Zerbino

«Il modello attuale ha ormai toccato il fondo dei suoi limiti, sia per il miglioramento delle condizioni di vita che è in grado di offrire ai più poveri, sia per l’impronta ecologica che possiamo imporre al pianeta, ma i miei clienti investono solo se ci sono aspettative di profitto, e questo non cambierà». Economista e banchiere della Deutsche Bank, coordinatore della Green Economy Initiative, un progetto di ricerca del Programma Onu per l’Ambiente teso a dimostrare che “la riconversione ecologica dei sistemi economici non è un freno per la crescita, ma piuttosto una nuova forza motrice di essa”, Pavan Sukhdev ha forse deluso i suoi “clienti” (e con ogni probabilità anche i suoi datori di lavoro) pronunciando nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano francese Le Monde [1] parole così inequivocabili e lapidarie. Ce lo immaginiamo mentre si allenta il nodo alla cravatta, sospira e si lascia andare sullo schienale della poltrona, per poi dare sfogo a tutto il suo amaro scetticismo di fronte all’imbarazzato cronista in attesa del parere dell’esperto. L’esperto, una volta tanto, ha parlato chiaro, centrando il nocciolo di un problema al quale molti altri commentatori e studiosi (per non parlare della classe politica e di quella imprenditoriale) semplicemente girano attorno: che rapporto c’è fra la crisi ecologica globale (e il fenomeno del riscaldamento climatico in particolare) e quel determinato modo di produrre e consumare che va sotto il nome di “capitalismo”? In termini meno teorici e più pratici, la questione potrebbe anche essere riformulata nel modo seguente: è possibile contrastare efficacemente l’emergenza climatica senza sacrificare il legittimo diritto allo sviluppo di quanti e quante non hanno niente, o molto poco, e che tuttavia di quell’emergenza sono anche le principali vittime?

Secondo Daniel Tanuro, autore del volume L’impossibile capitalismo verde. Il riscaldamento climatico e le ragioni dell’eco-socialismo (Alegre, Roma 2011, pp. 224, € 16,00), si tratta del “rompicapo del secolo”. Attenendoci alla nostra seconda formulazione, la sua risposta, in estrema sintesi, è la seguente: “dipende da cosa intendiamo per sviluppo”. Se per sviluppo si intende una crescita economica illimitata, sul tipo di quella che ha caratterizzato i paesi dell’Occidente capitalistico e il Giappone, e che caratterizza impetuosamente oggi i paesi emergenti, la risposta è: no. Non si può pensare di stabilizzare il clima nel quadro economico dato, assecondando cioè la logica del “produrre per produrre” e del “consumare per consumare”, ovvero senza mettere in discussione il dogma della crescita, di per sé irriguardosa del consumo complessivo di materia e di energia e dei limiti fisici (la cosiddetta carrying capacity o “capacità di carico”) del pianeta. “Eccone un altro!”, dirà il lettore impaziente, “l’ennesimo sostenitore della ‘decrescita’, che vorrebbe farci tornare tutti quanti a zappare l’orto e a fare il pane in casa!”.

Decrescere o morire?

Calma. Tanuro ci tiene a smarcarsi da teorie molto in voga negli ultimi tempi, in special modo Oltralpe, cui pure riconosce dei meriti. L’ubriacatura antisviluppista o, per ricorrere ad un orribile neologismo, “decrescentista”, che affligge alcune componenti della sinistra italiana e francese da circa un decennio, gli è in realtà del tutto aliena. Ce ne accorgiamo se passiamo a considerare la prima formulazione del nostro rompicapo: che rapporto c’è fra il riscaldamento climatico e le leggi che regolano il funzionamento del capitalismo? Tanuro non ha dubbi: “Se per ‘capitalismo verde’ si intende un sistema in cui i parametri qualitativi, sociali ed ecologici sarebbero tenuti spontaneamente in considerazione dai tanti capitali concorrenti […] allora si naviga nella più completa illusione. Dovrebbe, infatti, trattarsi di un capitalismo nel quale non avrebbe più corso la legge del valore, cosa che è una contraddizione in termini. Immaginare che un sistema di produzione basato su questa legge possa cessare di saccheggiare le risorse naturali è altrettanto assurdo che immaginare che possa smettere di sfruttare la forza lavoro. Del resto, al di là del suo entrare in gioco in determinati contesti storici, questa forza altro non è, in ultima analisi, che una risorsa naturale fra le altre”.

Ci siamo permessi di citare estesamente questo brano perché, oltre a racchiudere il cuore dell’argomentazione dell’autore, tende a rimarcarne la distanza proprio dai teorici della decrescita. Chiunque abbia un po’ di dimestichezza con la copiosa produzione editoriale di un Serge Latouche, sa bene che in essa il termine “capitalismo” o non compare, a tutto vantaggio delle onnipresenti nozioni di “crescita” e di “sviluppo”, oppure compare in una forma del tutto impropria, e cioè come sinonimo di “sviluppo”, di modo che, sostiene Tanuro, “il suo anticapitalismo non è, alla fin fine, che una denuncia dello sviluppo umano”. L’apparente radicalismo di Latouche, in sostanza, conduce a esiti decisamente reazionari, oltre a non alludere a nessuna concreta proposta politica. La decrescita, di fatto, non propone un progetto di società, dal momento che insiste soprattutto su una critica culturale del consumismo. Una critica sacrosanta e indispensabile, beninteso, ma che non centra il vero problema e non mette in luce quelle che sono le cause profonde della crisi ecologica in atto (dovuta, non c’è dubbio, anche agli stili di vita iperconsumistici di una parte dell’umanità). L’approccio di Tanuro si distingue da quello degli epigoni di Latouche proprio perché, dei due lati della medaglia, produzione e consumo, egli sceglie il primo, laddove i teorici della decrescita privilegiano decisamente il secondo.

L’impossibile capitalismo verde

Di fatto, l’allarme globale sul riscaldamento del pianeta giunge dopo due secoli di massiccio sviluppo capitalistico dell’economia. Secondo Tanuro, e del resto si tratta di un fatto abbastanza evidente a chiunque voglia considerare seriamente la questione, le ragioni del “sovraconsumo” di materia e di energia che caratterizzano le società capitaliste avanzate e quelle emergenti vanno ricercate nella sovrapproduzione, cui il sistema è costretto in virtù del suo ossequio a determinate leggi.
Il capitalismo consiste nella produzione generalizzata di valori di scambio, altrimenti detti merci. L’astrazione del valore di scambio, che, spinta alle estreme conseguenze, si esprime nel denaro, è in questo sistema lo scopo e la misura di tutto. La legge del valore genera tre caratteristiche ben precise del modo di produzione capitalistico, che cozzano frontalmente con l’esigenza di regolare razionalmente e in maniera non nociva per chi verrà dopo di noi gli scambi fra esseri umani e ambiente: “[…] la produzione per il profitto, la tendenza all’accumulazione e la concorrenza tra capitali (che si manifesta anche nella rivalità fra Stati)”.

Il capitalismo non è nemmeno concepibile senza una rincorsa continua all’accumulazione e alla sovrapproduzione di merci, ed è precisamente questa sua caratteristica a renderlo un nemico giurato dell’ecosistema: la rincorsa del profitto grazie alla tecnologia implica inevitabilmente quantità sempre crescenti di merci, che si mettono in circolazione alla ricerca di una domanda solvibile. Certo, il progresso tecnologico può, in una certa misura, portare ad una riduzione della quantità di energia e materia necessarie a produrre una data unità di Pil (cioè ad una diminuzione dell’“intensità energetica” del sistema), ma questa diminuzione viene presto compensata dall’aumento del volume della produzione. Nel campo del consumo, si parla di un “effetto rimbalzo”: le lampadine a risparmio energetico consumano di meno, ma proprio per questo vengono tenute accese più a lungo, aumentando così il consumo complessivo di energia. Tuttavia, sostiene giustamente Tanuro, il fenomeno ha la sua origine nel campo della produzione. L’unico modo che il sistema ha per ridurre, di tanto in tanto, la pressione che esercita sull’ambiente sono le sue periodiche crisi di sovrapproduzione. Ma queste, com’è ben noto, comportano miseria sociale, sperpero di ricchezze e aumento delle disuguaglianze.

Alla legge del valore non sfuggono neanche le tecnologie verdi (incluse le energie rinnovabili) e i tanti stratagemmi messi in opera dalla comunità internazionale, nel quadro del protocollo di Kyoto, per contrastare il riscaldamento climatico senza uscire da una logica capitalistica e di mercato, ovvero per ottenere un’impossibile quadratura del cerchio.
L’effetto fotovoltaico è stato scoperto dal fisico francese Edmond Becquerel nel 1839, eppure lo sviluppo di questa tecnologia è pesantemente in ritardo rispetto a quelle che ne sarebbero le potenzialità. Bruciare carbone, gas naturale e petrolio costa molto meno, mentre il nucleare risulta favorito perché ha un interesse anche militare. Inoltre i combustibili fossili e l’uranio costituiscono un’energia di stock, della quale gli investitori possono impossessarsi costituendo un monopolio e quindi una sorta di rendita. Il sole, al contrario, è diffuso su tutta la superficie terrestre.
Quanto al mercato delle emissioni e a simili stratagemmi, non è possibile, in questa sede, seguire nel dettaglio l’analisi che l’autore fa della loro totale inefficacia sul piano del loro fine dichiarato, ovvero quello di ridurre la concentrazione di gas serra nell’atmosfera; basterà dire che essa è strettamente connessa al predominio del fattore quantitativo (il valore) su quello qualitativo: il mercato delle emissioni, proprio perché è un mercato, si basa solo su considerazioni quantitative, mentre non tiene nella dovuta considerazione gli elementi qualitativi indispensabili a pilotare la transizione energetica.

Ecosocialismo o barbarie

E allora? Se né la critica dell’ipertrofia dei consumi del mondo sviluppato, né il puro e semplice affidamento alle logiche capitalistiche di mercato costituiscono una risposta adeguata alla crisi ecologica e al problema del riscaldamento climatico, sorge spontanea la domanda: che fare? Come evitare di “sprofondare nell’abisso”, secondo le parole usate dal segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon?
La risposta è abbastanza semplice, purché la si voglia ascoltare. Se l’iperconsumo è dovuto a iperproduzione, e se quest’ultima è a sua volta intimamente connessa con le leggi capitalistiche del profitto e dell’accumulazione, ne consegue che sono quelle leggi a dover essere messe in discussione. Si tratta cioè di sottrarre la sfera della produzione e del consumo alla legge del valore, cosa che necessita la chiamata in causa dell’idea di una trasformazione socialista della società.

Marx, sostiene Tanuro, è molto più “eco” di quanto non pensi la maggior parte dei marxisti. La nozione chiave per dare una risposta efficace ai problemi ambientali è quella di “metabolismo sociale”, cioè di “regolazione razionale degli scambi uomo/natura”, espressa con estrema chiarezza dal filosofo di Treviri nel terzo libro del Capitale. Nel quadro di una discussione del problema dell’impoverimento dei suoli determinato dall’urbanizzazione capitalistica, Marx arriva, in linea con le teorizzazioni ambientaliste più avanzate di oggi, a porre il problema generale dello scambio di materia fra il genere umano e l’ambiente: “La libertà […] può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa” [2].

Nel passo appena citato, per “libertà” Marx intende la possibilità che l’essere umano ha di affrancarsi dal lavoro materiale. Questa viene esplicitamente condizionata alla “regolazione razionale” degli scambi fra l’uomo stesso e la natura. “Razionale”, per Marx, e anche per noi, ha qui evidentemente il doppio significato di “in linea con i progressi della scienza e della tecnica” e di “assennato”, “ragionevole”, tale cioè da non pregiudicare il futuro della natura stessa né quello, in essa, dell’essere umano. Tutto ciò, sembra chiaramente alludere all’idea, propria dell’ambientalismo più serio e consapevole, che il progresso tecnologico non è qualcosa da incensare o da demonizzare a seconda dei casi, ma semplicemente da svincolare dalla legge del valore, per metterlo al servizio dello sviluppo (che non è sinonimo di crescita economica) del genere umano nel rispetto dei limiti naturali. È senz’altro un grande merito dei teorici della decrescita quello di aver evidenziato tali limiti, contro l’idea, espressa a suo tempo da George Bush Jr. e condivisa per ovvi motivi dall’establishment economico e finanziario globale, secondo cui “la crescita non è la causa dei problemi ambientali, essa ne è la soluzione”. Ma il problema non può essere risolto se, dal lato del consumo, non ci si sposta a considerare quello della produzione, optando per una coerente visione anticapitalista.

Attenzione, però. La consapevolezza ecologica di Marx compare solo qua e là (sia pure in maniera molto chiara) nelle sue opere, e si accompagna ad un’altra visione, ad essa antitetica, di tipo più “produttivistico”. Questa entra in gioco se, dal problema dei suoli e dell’agricoltura, ci si sposta ad osservare il modo in cui Marx considera le fonti energetiche, omettendo cioè di fare una distinzione fra quelle di stock (ad es. il carbone) e quelle di flusso (ad es. il legno). Le prime sono esauribili, le seconde no. In sostanza, accanto ad uno schema ciclico evolutivo (quello, molto moderno, che Marx mostra di preferire quando considera la questione dei suoli) sembra coesistere uno schema lineare (risorsa>utilizzo>rifiuto) che è poi quello dell’economia classica. La questione energetica, secondo Tanuro, costituisce un vero e proprio “cavallo di Troia” nell’ecologia di Marx, ed è alla base del produttivismo e dell’ottimismo tecnologico dei marxismi, che infatti sono stati colti impreparati dall’esplodere del problema ambientale oramai quarant’anni fa.

In buona sostanza, l’alternativa socialista è l’unica possibile, ma va esplicitamente ridefinita in senso ecologico. Provocatoriamente, Tanuro sostiene che non si tratta di “comprendere l’ecologia nel socialismo, ma di integrare il socialismo all’ecologia”. In termini marxisti, ciò significa che, oltre all’ostacolo del profitto, c’è da rimuovere anche quello dell’accumulazione, ovvero della tendenza del sistema alla crescita economica illimitata e al crescente consumo di risorse. Per venire definitivamente alle prese con la crisi ecologica, non è sufficiente sottrarre l’economia e la produzione alla dittatura del profitto: bisogna anche rivedere tutta una serie di consumi, collettivi e individuali, per diminuire considerevolmente la quantità di energia necessaria a far marciare il sistema. Ciò è particolarmente evidente nel caso del riscaldamento globale, e l’autore lo dimostra con dovizia di argomentazioni tecniche. Da questo punto di vista, i sostenitori della decrescita hanno tutte le ragioni, pur non rendendosi conto che i problemi da loro posti sono risolvibili solo in una prospettiva socialista e anticapitalista. Inutile dire che, quando Tanuro delinea tale prospettiva, non ha in mente l’esperienza storica dello stalinismo, che anzi critica aspramente da un punto di vista politico, economico e ambientale, ma quella, tutta da costruire, di una forma di organizzazione umana che individui nei “produttori associati”, ovvero nell’economia pianificata in stretto rapporto dialettico con il controllo operaio della produzione, i “regolatori razionali” della società e della natura che verrà.

NOTE

[1] Le Monde, 3 dicembre 2008.
[2] K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 19654, L. III, p. 933.

(31 marzo 2011)

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Mio commento:

Ma come possiamo realizzare il (vero) socialismo?

La rivoluzione minoritaria leninista ha fallito miseramente, come pure il gradualismo riformista socialdemocratico. L'unica strada ancora da provare è la rivoluzione maggioritaria e consapevole senza leader con l'uso dei mezzi democratici.
Movimento Socialista Mondiale