EKATLOS E IL LAPIS NIGER
A Roma esiste un monumento archeologico noto come Lapis
Niger (marmo nero). Si trova nel Foro. Venne scoperto il 10
gennaio 1899 da un famoso archeologo del tempo, Giacomo Boni,
“fanatico” del paganesimo romano; un caso raro, nel panorama
degli studiosi accademici del mondo antico. Sulla figura
dell’archeologo veneziano ha scritto un articolo S. Consolato,
direttore de La Cittadella, per il n° 46 del mensile Hera, nel
supplemento monografico dedicato a Esoterismo e Fascismo,
p.44-47, nonché sull’ultimo numero della rivista Politica Romana.
Se è pur vero che il paganesimo romano c’entra assai poco con il
Fascismo – la storia ha dimostrato che il Mussolinianesimo1[1]
strumentalizzò il mito di Roma per dare corpo al regime fascista e
che elemento aggregatore fu solo una comune volontà di
imperium, un “imperialismo” che più che pagano si sarebbe potuto
e dovuto definire “nazionalista”, la famosa boria delle nazioni di
cui parlò anche Evola -, fu grazie a questa convergenza di interessi
tra il Boni e il desiderio mussoliniano di dare un abito diverso ed
efficace al suo regime che si potettero riesumare dal passato
insigni vestigia, le quali sarebbero certamente rimaste in buona
parte sottoterra se al potere ci fosse stato un governo diverso.
Contrariamente all’uso comune del termine latino lapis (pietra),
nel caso specifico la parola significa “marmo, pavimentazione”.
Ciò è già sufficiente a sfatare quell’idea – non priva di
reminiscenze guenoniane2[2] - che in alcune persone porta a
credere che anche a Roma ci sia un equivalente della famosa
1[1]
J. Evola, nella sua opera Gli Uomini e le Rovine, ha giustamente inquadrato Mussolini come un
“bonapartista”, nel senso che come ideale supremo aveva l’idealizzazione di se stesso.
2[2]
L’influsso dello scrittore franco-islamico Renè Guénon sugli ambienti della cosiddetta “scuola
italica” è in genere sottaciuto ma ben evidente nell’opera e negli scritti di un Guido de Giorgio, per
fare un esempio, fino a continuarsi ai nostri giorni con personaggi ancor meno noti.
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Kaaba islamica della citta di La Mecca. E’ questa una pietra nera
meteoritica venerata dai maomettani con un rituale che di
monoteistico ha molto poco. A Roma non esistette nessuna pietra
nera di tal genere. Gli scrittori Dionisio di Alicarnasso e Pompeo
Festo ricordarono per la prima volta, nei loro scritti, l’esistenza di
un lapis niger posto nel Foro. Si trattava (e si tratta, perché esiste
ancora) di una pavimentazione in marmo nero di pochi metri
quadrati, edificata a bella posta forse al tempo di Augusto, per
differenziare il sito da tutto il resto della pavimentazione
adiacente, di ben più vaste dimensioni. Ecco, in sostanza, cos’è il
lapis niger.
Ma per quale motivo i Romani dell’epoca vollero enucleare un
pezzetto di suolo e distinguerlo a futura memoria da tutto il
circostante? Gli scrittori appena citati lo spiegarono allusivamente,
forse perché a loro stessi ne sfuggiva il motivo. Fu Giacomo Boni
che lo scoprì. Scavando infatti sotto la pavimentazione in
questione, il Boni rinvenne a circa 1,5 metri di profondità, tutta
una struttura che finì per rivelarsi essere stata un sacrario, del
quale permane incerta l’attribuzione: secondo alcuni si tratta della
tomba di Faustolo (il pastore che trovò i gemelli Romolo e Remo)
o del padre di Tullo Ostilio, o il posto dove scomparve Romolo,
oppure una parte del Volcanal, il tempio antichissimo del Dio
Vulcano. Parte essenziale della struttura è una stele di tufo – ed è
questa che volgarmente viene spacciata per lapis niger – sui cui
lati è incisa una scrittura latina arcaica (550 a.C. circa) cosiddetta
bustrofedica verticale, le cui righe quindi si leggono dall’alto in
basso e dal basso in alto, da sinistra a destra e da destra a sinistra.
La frammentarietà dell’iscrizione ha permesso solo di farne una
vaga traduzione ma quanto basta per capire che doveva trattarsi di
una legge, di un decreto, il quale dichiarava sacro e inviolabile il
luogo sotto pena di sanzioni. A causa di eventi bellici
(l’occupazione della città da parte dei Celti di Brenno) o per la
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ristrutturazione del Foro occorsa in più periodi della storia
romana, questo sacrario venne fortemente danneggiato e forse si
perse anche il ricordo del suo vero significato, cosicchè, alla fine,
si volle conservarne la memoria ricoprendo quelle arcaiche e sante
vestigia e rivestendone la superficie con una pavimentazione di
marmo nero che la distinguesse per sempre dall’anonimità dello
spiazzo circostante.
Alla luce di questi riscontri e specialmente alla luce del fatto che
nel lapis niger si potrebbe identificare il luogo di un evento
fondamentale nella storia di Roma – luogo che il lapis niger stesso
non tramanda che indirettamente, facendo presagire in tale sito lo
svolgimento di un evento ancor più arcaico del VI secolo a.C. –
noi ci spieghiamo alcuni fatti recenti della nostra storia
“esoterica”, che videro come protagonisti appunto Giacomo Boni
(si leggano gli articoli di Consolato che ne illustra la personalità) e
più tardi Julius Evola.
Nel 1929 infatti la rivista Krur (ex Ur), diretta da Julius Evola e
dopo la rottura con Reghini, pubblicò un singolare documento
retrospettivo (Ekatlos: “La Grande Orma”: la scena e le quinte) nel
quale in forma sfumata e allusiva, si faceva cenno al manifestarsi
di “segni che qualcosa di nuovo richiamava le grandi forze della
tradizione nostra” e ad un rituale pagano celebrato nel 1913 e
volto a propiziare, grazie all’apparizione preternaturale “degli Eroi
della razza nostra romana”, l’intervento vittorioso dell’Italia in
guerra3[3]. Del resto il titolo, La Grande Orma, era un trasparente
anagramma per La Grande Roma. Inoltre si parlava di come fosse
consegnato a Mussolini un fascio etrusco originale e di come si
3[3]
Tra virgolette riportiamo le parole originali della rivista Krur e non il testo che Evola rielaborò
per la successiva edizione in tre volumi, alcuni decenni dopo. Le modifiche dell’Evola sembrano
orientate verso una presa di distanza dalle posizioni di Ekatlos, e non in senso solo ideale ma anche
pragmatico. Nella sua autobiografia scrisse infatti che molte esperienze vantate dal Gruppo di Ur
dovevano essere prese con il beneficio dell’inventario. A maggior ragione, quindi, aggiungiamo noi,
le esperienze di estranei al Gruppo incluse nelle monografie!
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continuasse nella celebrazione di rituali – peraltro di sapore
commemorativo e analogico - anche negli anni seguenti.
Sull’argomento esprime con competenza ricostruttiva le sue
interessanti considerazioni G. Lo Monaco, nell’articolo della
rivista Atrium (Anno VI, 1-2). Noi affronteremo solo la questione
riguardante il Lapis Niger.
Articoli pubblicati da diversi autori in più occasioni, ci permettono
di avanzare il fondato sospetto che il documento in questione fosse
espressione di un gruppo abbastanza occulto, attivo già nella
seconda metà dell’800 (ne avrebbe fatto parte l’archeologa Ersilia
Caetani Lovatelli e l’artista R. Musmeci Ferrari-Bravo), che a
cavallo del secolo seguente avrebbe avuto come suo membro
autorevole l’archeologo Giacomo Boni, e sintetizzasse appunti
suoi personali, che una discepola (Cesarina Ribulsi) dopo la sua
morte, avvenuta nel 1925, passò ad Evola nel 1929. Comunque
Evola, come abbiamo già detto alla nota precedente, poco avvezzo
ai voli pindarici, non deve aver nutrito molta fiducia nelle
affermazioni di Ekatlos se avvertì la necessità, nella edizione in tre
volumi che fece successivamente della rivista, di scrivere
scetticamente a piè di pagina “relazione trasmessaci nel 1929 e
che qui si pubblica a semplice titolo di documento”.
Una delle quattro facce della stele rinvenuta dal Boni sotto al lapis
niger comincia con una riga riportante le seguenti lettere, ma
scritte in caratteri arcaici: “M....KALATO” che però solo
successivamente e non dal Boni, vennero riassemblate e tradotte
assieme al resto dell’iscrizione in maniera corretta. Quelle che
infatti apparvero al Boni e a chi vide per la prima volta il reperto
erano i caratteri vetusti di un alfabeto greco calcidese (euboico)
adattato al primitivo latino. Ebbene all’epoca tutto ciò non si
sapeva così come non si sapevano tradurre quelle parole. A causa
della particolare conformazione di quei caratteri, che non sono
affatto uguali – anche per assetto geometrico (una M rovesciata
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può apparire come una E) – ai caratteri dell’alfabeto latino
classico, si può essere indotti a leggere...EKATLO! Che Boni non
leggesse quell’alfabeto arcaico lo si deduce dal fatto che quando
fu incaricato di disegnare i caratteri arcaici che figurano sulla
copertina dell’edizione ufficiale della tragedia Rumon (evento che
all’epoca ebbe una notevole risonanza4[4]) non riprese affatto gli
autentici caratteri arcaici romani del lapis niger ma, tranne la
lettera E, ne stilizzò di più semplici.
Ora, ci sono validi indizi sia nel documento che nei fatti della vita
del Boni riferiti negli articoli di Sandro Consolato – che si rifà alla
biografia dell’archeologo – per attribuirgli la paternità originaria
dei riti di cui si parla: “Quando fu scoperto il lapis niger, il suo
volto ardeva di gioia, perché aveva ricevuto una rivelazione
divina, la notte avanti, in sogno”. E di esperienze trascendentali si
parla appunto anche nel documento, in relazione
all’identificazione di un luogo archeologico dove poi egli avrebbe
trovato degli antichi reperti e celebrato dei riti. Ciò avvalendosi
anche delle facoltà medianiche forse sempre di quella Cesarina
Ribulsi. Questa donna sarebbe la stessa che, molti anni dopo,
scrisse un curioso romanzo nel quale si parlava di un personaggio
chiamato “Ekatlo Lartio5[5]”, senza la S finale. Una
sgrammaticatura? Forse, ma sicuramente è uno strafalcione vero e
proprio quello che appare nel documento e che nemmeno l’attenta
revisione di Evola riscontrò: infatti, quando si accenna alla
celebrazione del rito si scrive che questo avvenne “nel periodo
sacro alla forza che rialza il sole nel corso annuale, dopo che ha
toccato la magica casa di Ariete: nel periodo del Natalis Solis
Invicti”. Ora, il periodo del natale del sole invitto è il 25
Dicembre, ma il sole tocca la costellazione dell’ariete il 21 Marzo!
4[4]
Ignis [R. Musmeci Ferrari-Bravo]: RUMON - Sacrae Romae Origines. Libri del Graal, Roma
1997. Si tratta di un lavoro nel quale trapela al massimo grado la plebea “boria delle nazioni”.
5[5]
Lartio è la contrazione del nome Laerte, così come si chiamava anche il padre di Ulisse.
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Come spiegare ciò? Dobbiamo ascriverlo al Boni o più facilmente
alla sua distratta discepola?
In ogni caso pare di capire, se l’identificazione di ekatlos con
kalato è vera, che “l’arcaico sepolcro” dove fu celebrato il rito e
trovato il reperto – che poi sarebbe divenuto una specie di pignum
imperii – era proprio il lapis niger. Del resto solo la posizione del
Boni avrebbe permesso di celebrare in quel posto “per mesi e
mesi, ogni notte, senza sosta” un rito così sfacciatamente non
cristiano. Boni abitava, unico essere umano, dal 1910 sul Palatino
ed era il Direttore degli scavi del Foro.... Invece il Prof. R. del
Ponte, sempre nel citato supplemento della rivista Hera (p.27),
parla di “un antico sepolcro sulla via Appia Antica”. Da dove
tragga questa certezza non è dato sapere6[6].
Il documento è suddiviso in quattro brani; si capisce che è di Boni
che si tratta. La visione dell’aquila e dei Dioscuri sul Palatino e lo
stato d’animo provato gli appartiene in pieno. Ma anche questa
frase è indicativa: “1917. Vicende varie. E poi il crollo.
Caporetto”. E’ quel vicende varie che è significativo; sembra fuori
luogo, a meno di non vedere in esse la grave malattia che colpì
Boni e lo costrinse ad abbandonare il fronte di guerra dove si era
recato come volontario. Si accenna poi a vicende successive cui le
stesse forze e persone avrebbero partecipato per influenzare
Mussolini a favore della Romanità pagana. Si parla di un’ascia
bipenne etrusca, presa da una tomba e donata al Duce. Si scrive
“oggi si lavora al Vittoriale nella cui nicchia centrale sarà
6[6]
Anche il Lo Monaco segnala il sepolcro sulla via Appia ma soltanto, come ci ha gentilmente
detto, sulla scorta dell’affermazione di R. del Ponte. A titolo di curiosità segnaliamo quanto si legge
nel libro di T. Antongini, Vita segreta di Gabriele d’Annunzio (Mondadori, Milano 1938, p.406):
“Il sortilegio ebbe luogo a Roma la notte del 20 Giugno 1915. Vi presero parte attiva d’Annunzio e
la marchesa Luisa C. [Casati] ... La curiosa cerimonia si svolse alla tomba degli Orazi e dei Curiazi
sulla Via Appia, allo scoccare della mezzanotte”.... A testimonianza dell’episodio rimase un
curiosissimo e audacissimo poemetto in prosa che d’Annunzio scrisse in francese e intitolò: “La
figure de cire”. Di questa rarissima composizione non esistono che due copie, delle quali una è nelle
mani della Marchesa C. [Casati]. L’originale fu distrutto dall’autore”.
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collocata la statua di Roma arcaica”. Si tratta del Vittoriano7[7],
iniziato nel 1885 e terminato nella sua struttura nel 1911 e nelle
ultime decorazioni nel 1935. La statua della Dea Roma vi fu
collocata solo nel 1925, anno in cui morì lo stesso Giacomo Boni.
Il documento intitolato “La Grande Orma” venne redatto dunque
in origine non oltre il 1925 (terminus post quem). Il terminus ante
quem può essere identificato nel 1922, poiché in un passo si scrive
“...chi oggi regge il governo” (alludendo a Mussolini). Pertanto
non fu un documento di Boni, ma un insieme di estratti a lui
riferibili.
Boni fu attivo fino al momento della morte ed il suo gruppo
occulto continuava ad agire ritualmente per propiziare in seno al
Fascismo una rinascita dell’antico spirito di Roma. Vogliamo anzi
aggiungere che secondo noi tutta la messinscena della consegna a
Mussolini del fascio antico ed altre iniziative analoghe provennero
proprio dal gruppo segreto di Boni e Musmeci Ferrari-Bravo! In
una data imprecisata ma comunque tra il 1922 e il 1925, recatisi in
un sito romano posto “in una propinqua via”, cioè nelle vicinanze
del Vittoriano, avrebbero infatti apposto “nella più recondita parte
di questa costruzione” un segno, affatto romano ma molto
ermetico: una fenice; con il che si può ipotizzare essere quello del
Boni un gruppo con non troppo velati richiami al mondo osirideo
egizio, fatto che del resto stona con una romanità genuina e pura,
facendo invece pensare ad inquinamenti più o meno evidenti - e
molto meno arcaici - di carattere massonico-martinista8[8]. Ekatlos
infatti precisa che al luogo prescelto “corrispondeva il luogo del
culto isiaco” al tempo dell’antica Roma. Il tempio di Iside e
Osiride sorgeva nell’antico quartiere della Suburra (oggi rione
Monti), dove nacque anche Giulio Cesare. Non dovrebbe essere
7[7]
Il Vittoriano è il monumento funebre di Vittorio Emanuele II. Divenne Vittoriale e Altare della
Patria quando prevalse l’idea di commemorarvi i morti della Grande Guerra. Da notare che Evola
cancellò “Vittoriale” e sostituì con “un grande monumento”. Perché questa spersonalizzazione?
8[8]
Noi stessi abbiamo contribuito a smascherare un’analoga confusione traducendo La Threicie di
Quintus Aucler, opera del 1799 nella quale le influenze martiniste sono preponderanti
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difficile per chi lo voglia identificare il posto esatto, cioè “uno
strano piccolo edifizio”.
Questo gruppo misterioso se non misterico, esiste ancora oggi? Da
notizie che abbiamo raccolto pare che la “base” abbia subito la
frattura con i vertici e che cerchi per conto suo un ricollegamento
che evidentemente non può essere ristabilito dal basso.
Certamente qualcosa è ancora vivo (ci riferiamo alla presunta
continuazione della trasmissione del nome arcano di Roma e ai
legami con la città di Gubbio) e la legge di analogia continua a
mandare i suoi misteriosi messaggi. Non si spiega diversamente
una curiosa nota di carattere ermetico-alchemico che abbiamo
trovato nel sito di un personaggio non estraneo ai temi di un certo
esoterismo, Mario Farneti, la quale riecheggia proprio le ultime
righe de La Grande Orma: “... Nel mezzo della stupenda
decorazione grottesca, troneggia la Fenice risorgente dalle proprie
ceneri calcinate dal fuoco di spirituale natura e, immediatamente
sotto, il sigillo della Romanità, tra due pesci allegorici in
circonvoluzione fino a formare una metaforica Lira, geroglifico
del Vetriolo filosofico e della sua universale virtù dissolvente e
armonizzante (ROMANITA’! anagrammato in ARMONIA T,
ovvero la concordia e la pace del fine)”.