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Discussione: I nomi della Padania

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    Predefinito I nomi della Padania

    Tratto da: Gilberto Oneto, La questione settentrionale. La Padania fra mito, storia e realtà, Editoriale Libero S.r.l., 2008, pagg. 30-38

    Le prime denominazioni

    I Greci e i Romani […] chiamano [la Padania] Gallia cisalpina in relazione al fatto che è abitata da Galli e che si trova al di qua delle Alpi: è la sola parte del grande universo celtico a sud della catena di montagne, che sono anche chiamate “monti celtici”. Essa è distinta in Transpadana e Cispadana in relazione al fiume che la attraversa; più rara ma piuttosto significativa è la denominazione di Gallia circumpadana. Più tardi viene anche detta Gallia togata, in contrapposizione con la Gallia bracata, e cioè quella posta al di là delle montagne, perché i suoi abitanti hanno – primi nel mondo celtico – adottato costumi romani, e cioè la toga, mentre gli altri mantengono l’uso delle bracae tradizionali. I Romani prima ne ufficializzano l’antica denominazione costituendo nell’82 a.C. la provincia della Gallia cisalpina e poi, nella partizione amministrativa augustea, la dividono in parecchie regioni, le maggiori delle quali sono la Liguria e il Veneto.
    L’espansione romana a nord ha portato con sé la risalita lungo la penisola del nome Italia, che era nel VI secolo a.C. originariamente attribuito alla sola Calabria meridionale. Era pronunciato alla greca, Italìa, e derivava dall’osco vitelìu, era cioè la “terra dei vitelli”. Nel III secolo serve a denominare la penisola fino al torrente Fine (sotto Pisa) e all’Esino, sopra Ancona. Nel I sec. a.C. l’Italia “arriva” all’Arno e al Rubicone e, solo con Augusto, ingloba anche la Padania. Con la divisione di Diocleziano dell’Impero in dodici “diocesi”, nel 297, quella “italiciana” arriva addirittura, tracimando le Alpi, a comprendere parte della Pannonia (fino alla Sava) e del Norico (fino al Danubio).
    Nel 326 con la ripartizione amministrativa della Diocesi italiciana, l’area padana viene chiamata Italia annonaria, per distinguerla da quella suburbicaria peninsulare, che ha per capitale Roma. Si tratta di una denominazione derivata dal fatto che questa è la parte di penisola che paga l’annona, e cioè la tassa per il mantenimento della corte imperiale. È una costante, quella di essere sottoposta al pagamento di balzelli, che ricompare assiduamente nella storia millenaria di questa terra, una sorta di iattura – allora evidenziata addirittura dalla denominazione – da cui evidentemente non riesce a liberarsi. Il fatto che si tratti di terra fertile e ricca, abitata da genti operose è una antica caratteristica che ha rappresentato la fortuna economica e di civiltà della Padania, ma anche la sua maledizione storica perché ha da sempre attirato la cupidigia di vicini prepotenti che l’hanno spesso privata della sua indipendenza relegandola al ruolo di pagatrice di tasse.
    È in questa occasione che inizia a prendere corpo il primo “transfert terminologico”: si comincia infatti a usare soprattutto nei documenti ufficiali il termine Italia solo per indicare quella annonaria, dando così origine alle tante confusioni successive. L’altra parte viene più semplicemente chiamata Roma.
    Con l’arrivo dei Longobardi e con il loro stabile insediamento, l’area prende a essere denominata anche Longobardia o Longobardia Maior, per non essere confusa con quella Minor, e cioè i Ducati longobardi di Spoleto e di Benevento. Il primo documento storico che riporta espressamente tale denominazione sono i Capitolari di Carlo Magno, del 805, nei quali si afferma che a Pipino è assegnata la parte d’Italia “quae et Longobardia dicitur”.
    Diverse sono le versioni sull’origine del nome dei Longobardi (dal tedesco Langobarden). Una prima e più fantastica spiegazione si riferisce alle “lunghe barbe” simulate dai capelli appiccicati al viso dalle donne longobarde per aumentare l’apparente numero dei guerrieri prima di un vittorioso scontro con i Vandali. La seconda è collegata al termine hellebarde che indica un’ascia da combattimento dal lungo manico, in verità più comune fra i Vichinghi che fra i Longobardi. L’ultima interpretazione si riferisce alla speciale devozione di quel popolo per Odino, cui ha affidato il suo destino. Questi è indicato nella mitologia nordica come “il Dio dalla lunga barba” (Lang-bardr).
    Longobardia si trasforma nella forma sincopata Lombardia, che compare la prima volta nella Pauli Continuatio, e poi nel 1049 nel Chronicon Barense.
    Che il termine sia usato per esprimere con chiarezza anche la distinzione etnica e culturale degli abitanti della Padania è dimostrato dal noto episodio della disputa avvenuta fra il vescovo di Cremona Liutprando, ambasciatore di Ottone I a Costantinopoli nel 968, e l’imperatore bizantino Niceforo Foca. All’imperatore, che gli fa notare con arroganza che: “Vos non Romani, sed Langobardi estis” (“Voi non siete romani ma longobardi!”), Liutprando risponde piccato che tutti i popoli dell’Occidente (“Langobardi, Saxones, Franci, Lotharingi, Bagovarii, Suevi, Burgundiones”), non solo sono felici di non essere chiamati romani, ma che lo considerano un insulto, perché nel nome di romani concentrano “quicquid ignobilitatis, quicquid avaritiae, quicquid luxuriae, quicquid mendacii, immo quicquid vitiorum est” (“tutto ciò che vi è di ignobile, vile, lussurioso, mendace: insomma ogni vizio”).
    Da allora e per molti secoli il termine Lombardia viene normalmente utilizzato per indicare l’intera area padano-alpina, i cui abitanti sono appunto detti Lombardi. È significativo a questo proposito che nelle lingue dei principali paesi europei i Longobardi si chiamino ancora oggi Lombard, e che per molti secoli siano così designati non solo i mercanti di Milano, Genova o Venezia, ma anche quelli di Firenze e di Siena. Sono i Lombardi a “inventare” e praticare le prime operazioni finanziarie nel XIII secolo (collegate soprattutto al commercio della lana e dei tessuti). Probabilmente sono i Piacentini i primi ad aprire filiali “bancarie” nelle grandi città dell’epoca o nelle sedi delle principali fiere, ben presto seguiti da senesi, lucchesi e fiorentini. Il termine “lombardo” diventa così quasi sinonimo di “banchiere”. Traccia di ciò rimane non solo nelle varie “Vie dei Lombardi” (Rue des Lombards, Lombard Street) che ancora sopravvivono nella toponomastica di città come Parigi e Londra, ma anche nel lessico tecnico delle operazioni bancarie e finanziarie. In Germania, Gran Bretagna e Paesi Bassi, il “credito Lombard” designa un’operazione di anticipazione su titoli e merci, e il “tasso Lombard” è quello stabilito dalle Banche Centrali.
    Per secoli Genova è chiamata la “porta della Lombardia”, con una appartenenza testimoniata dal cronista genovese Caffaro.
    Solo in seguito la Toscana trova una sua specifica differenziazione, quando “Emerge (…) una rappresentazione bipartita dell’Italia comunale duecentesca, una grande iniziale distinzione di massima (…) tra la Lombardia e la Tuscia, vale a dire tra la Padania in senso ampio (…) e la regione estesa tra l’Appennino e Roma”.
    Nel XIII secolo Salimbene de Adam scrive: “Si stende la Lombardia fino a Susa e al Moncenisio”. Dante la chiama “lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina”.
    Nel XIV secolo, il novarese Pietro Azario, nel suo Libro degli eventi accaduti in Lombardia scrive: “La Lombardia è resa celebre da trenta città ed è circondata da ogni parte dalle Alpi e da monti scoscesi; è attraversata e solcata da un solo fiume, chiamato Po”. Le città che elenca sono: Milano, Como, Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza, Lodi, Cremona, Mantova, Ferrara, Pavia, Piacenza, Parma, Reggio, Modena, Bologna, Bobbio, Tortona, Novara, Vercelli, Ivrea, Torino, Asti, Alba, Alessandria, Acqui, Albenga, Genova, Savona e Trento.
    Montesquieu scrive nel Settecento: “La Lombardia è tutta quella pianura che si stende fra le Alpi e l’Appennino: queste due catene di montagne, unite all’inizio dal Piemonte, divergono, formando un triangolo con il mare Adriatico, che ne è come la base, e racchiudendo la più deliziosa pianura del mondo, che comprende il Piemonte, il Milanese, lo Stato veneto, Parma, Modena, il Bolognese e il Ferrarese”.
    Fino a tutto il Settecento, e in parte anche nell’Ottocento, si continua a designare con il nome di Lombardia l’intera regione a settentrione dell’Appennino tosco-emiliano. Il granduca di Toscana Leopoldo II scrive nelle sue memorie a proposito di un suo viaggio nel 1854: “Alla Porretta si è già nel piano ubertoso di Lombardia”. La stessa indicazione si trova sulla cartografia dell’epoca.
    Ancora oggi su alcune carte inglesi la regione è indicata come Plane of the Lombards.
    In seguito il significato di Lombardia si contrae, per sottrazione, a denominare solo l’attuale regione. Il nome Piemonte deriva da una parte di territorio lombardo situato “ai piedi del monte”, un triangolo compreso tra il Po, le Alpi e il Sangone, e passa dal XII secolo a indicare i possedimenti sabaudi di qua dello spartiacque. Liguria ed Emilia sono reinvenzioni recenti tratte da un desueto repertorio classico: Liguria è un “recupero” napoleonico ed Emilia una riscoperta di Luigi Carlo Farini, “dittatore” dei Ducati e delle Legazioni fino all’annessione sabauda.
    In contrapposizione a Longobardia, il resto d’Italia rimasto sotto il dominio bizantino è detto Romanìa, da cui Romània, Romagna. Secondo altre versioni sostanzialmente simili, il termine verrebbe da Romaniola, Romandiola, piccola Roma, com’era chiamata nel tardo Impero l’area attorno a Ravenna.
    I Longobardi non sono stati il solo popolo di origine germanica a installarsi massicciamente e stabilmente in Padania: anche i Goti lo hanno fatto lasciando importanti presenze toponomastiche locali ma senza influire sul nome del paese. Il solo apparente riferimento a quel popolo è rimasto nella cosiddetta “Linea gotica”, oggi comunemente identificata con lo spartiacque dell’Appennino tosco-emiliano, che coincide in larga parte con il margine linguistico Massa-Senigallia, che costituisce il confine meridionale delle lingue gallo-italiche e cioè della koiné padana. In realtà si tratta di un termine che nulla ha a che vedere con la presenza storica dei Goti, ma che deriva dalla denominazione di una linea difensiva organizzata dai Tedeschi nelle fasi finali della seconda guerra mondiale. L’idea sarebbe stata del maresciallo Kesserling (o di un suo ufficiale) che avrebbe fatto un incerto riferimento alla divisione della penisola fra Goti e Bizantini durante le guerre gotiche. In realtà il nome ha successo proprio per la sua casuale coincidenza con un confine culturale e identitario molto definito, fra l’Europa continentale (identificata con il mondo germanico attraverso il termine gotico) e quella mediterranea. Questo spiega la straordinaria persistenza del termine nel linguaggio e nell’immaginario collettivo anche dopo la fine degli eventi bellici, anche dopo che gli stessi Tedeschi – forse impauriti dall’eccessiva importanza conferita a una linea militarmente piuttosto fragile – l’hanno ribattezzata da Gotische Linie a Grünen Linie (Linea verde).

    La migrazione dei nomi

    Dallo studio della semantica storica, la disciplina che indaga il significato che le parole assumono nel tempo, si impara che queste cambiano spesso di significato. Lo stesso vale evidentemente per le denominazioni geografiche.
    Per secoli il termine Lombardia è sopravissuto in parziale sovrapposizione con Italia: il primo ha una connotazione più popolare e culturale, il secondo un uso più letterario e politico. Il nome Italia ricompare infatti nel 888 per il Regno d’Italia, probabilmente ripescato dal Glossario di Reichenau, composto verso la fine del VIII secolo nella locale abbazia carolingia per spiegare parole latine ormai diventate misteriose: Italia vi compare infatti come sinonimo colto di Longobardia. L’utilizzo del termine Italia per il Nord è confermato da una sorta di disputa diplomatica fra il neoformato dominio normanno in Meridione, che si è autodenominato nel 1130 Regno di Sicilia e d’Italia, e gli imperatori tedeschi che intimano di togliere il riferimento all’Italia, che è “cosa loro”. Così, con l’intercessione papale, nel 1138 viene ufficialmente stabilito che l’Italia è la parte di territorio che comprende la Lombardia storica e – marginalmente – lo Stato pontificio. È in qualche modo proprio quest’ultimo a stabilizzare, con la sua funzione fisica di cuscinetto, la formazione di due Italie distinte anche lessicalmente fra la Lombardia (o Italia) e il Meridione, identificato a volte con la Sicilia e più spesso con Napoli.
    Di questa confusione è vittima anche la dichiarazione dei rappresentanti delle città lombarde che nel 1177 incontrano a Venezia papa Alessandro III e gli ribadiscono di essere disposti a combattere “per l’onore e la libertà d’Italia”.
    È solo verso la fine del XIII secolo che ricompare in Francia l’attributo “italiano” per indicare genericamente tutti gli abitanti della penisola, sostituendo molto lentamente “italo”, “italico” e poi anche “lombardo” e “napoletano”. Il termine Italia continua però a rimanere un po’ appartato, utilizzato solo come riferimento classico, anche piuttosto retorico. In questo senso, ad esempio, i Veneziani lo hanno adottato come grido di guerra nel 1508: un riferimento un po’ troppo intellettuale per avere presa.
    Sarà grazie a questa sua connotazione settentrionale e – soprattutto – al suo legame con il mondo antico, che Italia tornerà a essere ampiamente usato in epoca napoleonica, assieme a tutta una serie di simboli e nomi classici.
    Infatti, dopo un utilizzo temporaneo delle denominazioni “Cisalpina” e “Cispadana” (evidentemente ancora forti nell’immaginario collettivo transalpino), Napoleone riesuma il termine aulico di Italia, applicandolo prima alla Repubblica e poi al Regno, che costruisce quali vassalli della Francia, e i cui confini sono sintomaticamente limitati alla Padania.
    È solo nell’immediata vigilia e durante le prime fasi del processo risorgimentale che si sente il bisogno di usare con sistematicità il termine “italiano”, per denominare in forma molto generica tutto quello che è compreso nei confini geografici della penisola.
    Il nuovo utilizzo politico del nome Italia dà una sorta di colpo di grazia al termine Lombardia, che d’ora in poi contrassegnerà solo la parte centrale della pianura, essenzialmente il territorio del Ducato austriaco di Milano, poi riallargato alle terre venete a ovest del Mincio, quella che all’origine era solo una sorta di “Lombardia interna”, per dirla alla svizzera.
    È comunque ancora con il significato attribuitogli da Napoleone (in riferimento alla sola Padania) che il nome Italia si affaccia inizialmente sulla storia risorgimentale e questo genera tutta una serie di equivoci.
    Il primo e più grosso è politico. Chi vuole inizialmente l’indipendenza o comunque un diverso status politico per l’Italia intende la sola valle del Po. Giova ricordare un interessante brano di Piccolo mondo antico, uno dei libri fondanti del patriottismo risorgimentale.
    Vi si descrive la riunione dei patrioti nella casa di Franco e Luisa in Valsolda, alla fine della quale si discute su come sarà il Paese per la cui libertà e indipendenza si sta cospirando: “Un bel regno!”, diss’egli. “Piemonte”, disse Franco, “Lombardo-Veneto, Parma e Modena”. “E Legazioni”, fece V. Altra discussione. Tutti le avrebbero volute, le Legazioni, specialmente l’avvocato e Luisa; ma Franco e Pedraglio avevano paura di toccarle, temevano di suscitare difficoltà. (…) “E il nome?”, chiese l’avvocato. Tutti si fermarono. “Che nome?”. “Il nome del nuovo Regno”. Franco posò subito la candela. “Bravo”, diss’egli, “il nome!”, come se fosse una cosa da decidere prima di andare a letto. Nuova discussione. Piemonte? Cisalpino? Alta Italia? Italia? Luisa posò presto la candela anche lei, e Pedraglio, perché gli altri non volevano passargli il suo Italia, la posò pure. Perciò, siccome il dibattito andava troppo per le lunghe, riprese la candela e corse via ripetendo: “Italia, Italia, Italia, Italia!” (…)”. La vicenda è un po’ stralunata ma rende perfettamente l’idea del clima culturale del tempo: ciò che si vuole costruire è la Padania ma il nome che torna fuori dai meandri della storia più antica è Italia.
    L’identificazione fra Italia e Lombardia-Padania è contrastata dai cosiddetti reazionari creando ulteriore confusione: il legittimista borbonico Giacinto De Sivo rivendica, ad esempio, non solo la supremazia culturale del Meridione ma anche il suo buon diritto a impiegare da solo il nome Italia fin dai tempi di Pitagora, negandolo ai nuovi patrioti, in larga parte padani. “Ma niuno al mondo pensò mai l’Alpigiano fosse più italiano di chi nasce nella patria di Cicerone e d’Orazio, di Giovanni da Procida, del Tasso e del Vico. Era serbato a noi viventi l’onta del soffrire i rozzi frequentatori d’un semi-gallico dialetto, venire a insegnare l’italianità a noi, maestri d’ogni arte, e iniziatori d’ogni scienza”.
    In realtà il principale responsabile del nuovo utilizzo politico di un nome desueto e relegato da tempo all’ambito geografico (“la parola Italia è una denominazione geografica, una qualificazione che pertiene alla lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle”, aveva sentenziato il Metternich) è Mazzini: a lui va riconosciuta l’operazione di recupero lessicale e di riattribuzione del nome Italia all’intera penisola, isole comprese. È proprio Mazzini il grande inventore degli elementi più importanti e riconoscibili della nation building italiana: l’associazione dello spazio politico a quello geografico, l’attribuzione di ruolo di “sacro confine” allo spartiacque alpino, l’utilizzo del tricolore giacobino, l’ufficializzazione del nome Italia, sono tutta farina del suo patriottico sacco.

    ***


    carlomartello
    Ultima modifica di carlomartello; 24-04-10 alle 03:02

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    Predefinito Celti autoctoni del Nord Italia e fondazione di Medhelan

    La prima celtizzazione (autoctona) del Nord Italia

    La prima celtizzazione del nord della penisola italiana viene individuata nel fondamentale testo Celti in Italia di Venceslas Kruta e Valerio M. Manfredi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1999, già nell'età del Bronzo (che Alexandre Bertrand ancora nella seconda metà dell'800, preferiva chiamare, per Francia e Italia Settentrionale, come "era celtica") e ha trovato sviluppo organico (peraltro preceduto dalla civiltà di Canegrate, che ne anticipa forme e sviluppi) con la Civiltà di Golasecca (iniziata nel XII secolo a.C.), che a ragione viene considerata come una delle prime "civiltà celtiche" dell'intero continente europeo.
    Non è perciò strano che proprio nell'area archeologica golasecchiana sia stata rinvenuta la più antica testimonianza di una lingua celtica in Europa: da un corredo funebre del secondo quarto del VI secolo a.C., individuato nei pressi di Castelletto Ticino, rileviamo infatti il famoso genitivo gallico in alfabeto etrusco-capenate - Xosoio - graffito su vaso.
    Dal testo emergono poi i continui riferimenti allo scambio culturale, etnico e commerciale con le popolazioni alpine (tra cui i camuni!) e transalpine che vede un intreccio di relazioni fortissimo tra gli antenati di quelli che saranno i futuri popoli del Centro Europa.
    L'invasione celtica "storica" o "lateniana" dell'Italia è ricca di vicende storiche e militari che videro il confronto e lo scontro tra i Celti, e le popolazioni mediterranee e latine.
    Di questo scontro, durato per secoli, vi sono dettagli di grande interesse, approfonditi nel libro citato, e altri che meritano una evidenza particolare.Vi è ad esempio chi ha sostenuto la tesi che i galli senoni (forse con la collaborazione di altri popoli gallici come boi e insubri, come sembra adombrare Tito Livio, V, 35) che misero a sacco Roma, occupandola e costringendo alla fuga legioni ed esercito di quella che era già una grande potenza regionale, agirono istigati dai tiranni di Sicilia: ma la tesi è piuttosto bizzarra e sicuramente insostenibile se si considerano gli ottimi rapporti che Roma aveva in quel tempo con quei governanti, attestati da Tito Livio, IV, 52, dove dopo una grave carestia, a fronte della quale tutti i popoli vicini rifiutarono di vendere grano a Roma (avendo subito da essa innumerevoli guerre e sconfitte) "furono aiutati con generosità dai Tiranni della Sicilia".
    Va sottolineata la notevole capacità di sopravvivenza delle popolazioni celtiche anche in aree molto lontane dalle Alpi, come nel caso della popolazione celtica dei Senoni (stanziati tra i fiumi che Tito Livio indica come Utente e Aesim, tra Ravenna e Ancona), stanziatasi nelle attuali Marche superiori e duramente colpiti dalla politica di sterminio attuata dai Romani.

    Un passo "delle Historie Phillippicae di Pompeo Trogo ricorda l'alleanza militare offerta dai Galli, DOPO la conquista di Roma, a Dionisio I il Vecchio, Tiranno di Siracusa.Tutto lascia credere che sia stata conclusa e l'emporio siracusano di Ancona, a diretto contatto con i Senoni, sia stato senza dubbio uno dei principali punti di reclutamento di truppe celtiche. Questi mercenari combatterono per Dionisio non solo nel sud della penisola, ma addirittura in Grecia. Senofonte ne menziona nel 367 a.C. a fianco di mercenari iberici, nel corpo di spedizione siracusano impiegato contro i Tebani" (I Celti prima dell'espansione storica, pag. 206, in aa.vv. I Celti, Bompiani, Milano 1991).

    Ecco la eloquente testimonianza di uno storico latino abitualmente considerato degno di fede, Pompeo Trogo che parla di una ambasceria dei galli presso Dionigi I intento all'assedio di Reggio (GIUSTINO, Storie filippiche, introd., traduz. e note di L. Santi Amantini, Milano, Rusconi, 1981, Historiarum Philippicarum et totius mundi originum et terrae situs, ex Trogo Pompeio excerptarum libri XLIV a Nino ad Caesarem Augustum, GIUSTINO, Storie filippiche, introd., traduz. e note di L. Santi Amantini, Milano, Rusconi, 1981. Historiarum Philippicarum et totius mundi originum et terrae situs, ex Trogo Pompeio excerptarum libri XLIV a Nino ad Caesarem Augustum, Libro XX, 5):
    V. Abbiamo detto che Dionigi il Tiranno, aveva fatto passare la sua armata dalla Sicilia in Italia, dove era venuto per combattere i greci, ...
    Durante il corso di quella guerra, i legati dei Galli che mesi prima avevano lasciato Roma in fiamme, vennero a domandare l'amicizia e l'alleanza di Dionigi, facendo appello al fatto che erano "in mezzo ai loro nemici e che sarebbero stati di grande giovamento, sia quando si fosse combattuto in campo aperto, sia assalendo alle spalle i nemici impegnati in battaglia". Questa ambasceria riuscì gradita a Dionigi: così, stabilita l'alleanza e rafforzato, riprese come da capo la guerra.

    Per quanto riguarda l'eredità celtica, "il ruolo svolto dall’Italia è stato a lungo mal compreso e mal apprezzato. Da un lato dai difensori dell'eredità classica, che volevano vedere nella presenza celtica in Italia un'invasione di barbari incolti e, alla fine, fortunatamente respinta da Roma. Da un altro lato dai celtofili che consideravano questa presenza episodica e marginale, tanto meno significativa per il fatto che i Celti vi apparivano soltanto come una delle componenti di un insieme culturalmente ed etnicamente molto diversificato e mescolato".
    Recenti ricerche archeologiche e linguistiche "hanno permesso di riconsiderare la questione e di disegnare un quadro che rivela il posto importantissimo occupato dal popolamento di origine celtica nell'Italia settentrionale, e il ruolo fondamentale che ebbero le intense relazioni tra i Celti d'Italia - a contatto con Etruschi e Greci - e i loro congeneri transalpini..."..
    Alle vestigia archeologiche "si aggiungono le scoperte di diversi testi - purtroppo brevi e poco vari - scritti dai Celti antichi nella loro lingua utilizzando diversi tipi di alfabeti di origine mediterranea. Questi testi, oltre a fornire materia per lo studio delle lingue celtiche antiche, costituiscono una prova irrefutabile dell'estensione delle popolazioni celtofone".
    Il mondo dei Celti antichi, "che gli autori greci e latini ci hanno descritto sotto una luce così sfavorevole, si rivela invece più ricco e meno semplice di quanto voleva la tradizione, che attribuiva loro, come merito principale, se non l'unico, quello di aver assimilato i benefici imposti da Roma".
    Appare sempre più evidente "che la perdita dell'indipendenza non ha significato uno sconvolgimento immediato e radicale della situazione preesistente: il sistema socioeconomico preromano continua infatti a funzionare senza subire modificazioni importanti, e i Romani stessi integrano e sviluppano numerosi elementi già esistenti - santuari, insediamenti, reti viarie, mercati, ecc.".
    Gli aggettivi "gallo-romano" (riferito alla Gallia cisalpina e transalpina), "celto-romano" (per le regioni danubiane), o "romano-britannico" esprimono la doppia filiazione di queste facies provinciali e il ruolo che svolse il sostrato celtico nella loro formazione". (in Venceslas Kruta e Valerio M. Manfredi I Celti in Italia , Mondadori, Milano 1999, 2000, pagg. 12-14)

    CelticPedia: La prima celtizzazione (autoctona) del Nord Italia


    La fondazione (mitica) di Medhelan(ion) e la storia della Milano celtica

    La fondazione mitologica di Medhelan-Mediolanion (o Mediolanion secondo V.Kruta) può collocarsi attorno al 600-590 a.C.
    Mediolanium, (Milano), è la forma latinizzata del celtico continentale antico Medhelanion o Medhelan, ossia "santuario".
    La notizia è riportata sotto forma di mito da Tito Livio, Storia di Roma dalla fondazione, V, 33-35, che fornisce come termine di raffronto cronologico il regno di Tarquinio Prisco (616-579 a.C.) e la fondazione di Marsiglia da parte dei coloni focesi (600 a.C. ca.). Il leggendario fondatore è Belloveso, della tribù dei Biturigi, nipote del grande re transalpino Ambigato.
    Secondo una antica tradizione milanese, Belloveso vide un animale sacro, una scrofa semilanuta, animale sacro alla Dea celtica Belisama (ancora oggi presente in via Mercanti, con un antichissimo bassorilievo successivamente incorporato nel Palazzo della Ragione del 1200), e da questa apparizione, da questo segno degli Dei, venne indotto a fondare il centro sacro di Medhelan.
    Vi è un'altra leggenda che è interessante riportare.
    Il tutto inizia con la marcia di Belloveso, proveniente dalla Francia, che giunge in quella che viene definita "Gallia Cisalpina" nei dintorni del Seveso. Il Seveso viene indicato come piccolo fiume che attraversa una zona degli Insubres, stirpe affine alla gente di Belloveso. Secondo il calendario celtico era il giorno del capodanno celtico (il "giorno di Samhain") e, riporto come c'è scritto " in quell'istante Antares, la stella più brillante della costellazione dello Scorpione, sorgeva insieme al sole.".
    Non si sa a cosa fosse dovuta la sosta, forse ad un fatto straordinario, ma in ogni caso Belloveso ed i suoi si fermarono presso il fiume quando all'improvviso scoppiò un furioso temporale con grandi fulmini e tuoni che così raccontato mi ricorda certi temporali davvero terrificanti che ho visto solo qui in pianura padana. Ma, tornando al racconto, tra fulmini e tuoni cade anche una violenta folgore che scaricò tutta la sua potenza nel bosco provocando un'incendio così devastante che la pioggia non riuscì a salvare le piante dal rogo dal quale, il giorno seguente, risultarono salve solo due grosse querce che benché quasi distrutte si ergevano ritte in mezzo ai tizzoni ancora ardenti e la cenere.
    Il sole illuminando le due piante ne tracciò sul terreno l'ombra tanto che sembrava tracciasse in realtà un percorso. Così doveva apparire ai Celti che probabilmente ritennero tale fatto un dono degli dei e considerando quella somma di segni come di buon auspicio spianarono il terreno arso e lo ripulirono dai resti dei tronchi carbonizzati recintandolo. Tale area venne considerata sacra, un santuario all'aperto, e fu chiamata Medhelanon (luogo centro di perfezione) . Lo stesso nome fu dato al villaggio che nacque appena poco distante dopodiché nell'area bruciata rinacquero arbusti, piante, erbe e fiori (La Leggenda è tratta da "Il Mondo dei Celti nelle leggende Milanesi" di Giorgio Fumagalli. Saggio inedito.).
    I Galli stavano cercando un posto dove stanziarsi (all'epoca la pianura padana era un'enorme luogo di foreste e paludi) e avrebbero considerato sacrilega l'idea di distruggere gli alberi della foresta che per i Celti è sacra.Il fatto che gli Dei avessero provveduto a procurare loro un spiazzo attraverso l'incendio evitò loro di compiere un sacrilegio e quindi venne considerato un dono degli Dei stessi che posero fine al loro errabondare, secondo un modo di pensare peraltro comune ai diversi popoli di origine indoeuropea dell'epoca..

    CelticPedia: La fondazione (mitica) di Medhelan(ion) e la storia della Milano celtica


    Le origini di Milano tra storia e archeologia

    Scrive Ermanno Arslan:
    Gli "scavi hanno ... rivelato .. il più ampio contesto della cultura 'golasecchiana padana', in cui si inserisce l'esperienza protourbana milanese" (nella zona dell'attuale Policlinico un primo grosso insediamento)..
    Il mondo indigeno si organizza in grandi ambiti territoriali, con marcate differenze culturali e realtà protourbane centrali, che gravitano in parte verso le valli alpine a causa delle ricchezze minerarie: le valli del Ticino, la Valsasssina, la Valcamonica.
    I centri noti propongono con poche eccezioni la rete delle città dei secoli successivi: Brescia, Bergamo, Milano. L'antica Como (Comum Vetus) si svilupperà sulla sponda del lago in età romana: dai documenti epigrafici risulta che in essa era usata la lingua celtica.
    Queste città erano vaste quasi quanto quelle romane.
    Il centro golasecchiano di Milano ... si estendeva per decine di ettari. .. circa la struttura urbanistica di questi insediamenti .. l'esempio di Comum Vetus indica una occupazione a piccoli nuclei sparsi, con spazi liberi all'interno del perimetro urbano...
    ..le istituzioni ... dovevano essere evolute ... tanto da permettere il controllo di ampi territori e di fronteggiare gli Etruschi ai confini meridionali.
    Notevole doveva essere lo sviluppo economico, nel quale forse giocava un certo ruolo anche la moneta.
    Questi insediamenti protourbani della tarda cultura di Golasecca, e con essi Milano, non scompaiono con l'irruzione dei nuovi gruppi celtici all'inzio del IV secolo, con la presenza di materiali (fibule, ceramica anche dipinta) di origine celtica (cultrua di La Tene).
    (Ma) ...le città ... erano divenute sedi di culti comunitari dei clan insediati nelle campagne, o erano soltanto il luogo destinato a riunioni politiche o militariperiodiche, assemblee o concili. Ciò potrebbe spiegare la ridotta realtà demografica" (Archeo, aprile 1988, pag. 19).
    Scrive L'archeologo bolognese Daniele Vitali di Bologna, ne I Celti, Bompiani 1991, pag. 234, a cura di Sabatino Moscati:
    "Le diverse popolazioni celtiche, che nel IV e III secolo a.C. abitarono la vasta regione denominata Insubrium, si configurano come le eredi dirette delle precedenti comunità di Golasecca.
    La ricostruzione di Livio che sinteticamente narra dell'arrivo di Belloveso con "Biturgi, Arverni, Senoni, Edui, Ambarri, Carnuti, Aulerci" (Livio, V, 34) nell'Italia occidentale, dove la regione era chiamata da tempo immemorabile Insubrium (come un pagus degli Edui, fino ad allora celti transalpini) esprime bene la coscienza di una stratigrafia del popolamento di lunga data, parallela a quella delle regioni a sud del Po abitate da Etruschi, Umbri, e Liguri. Il buon auspicio portò alla fondazione di Mediolanum.
    Gli scavi urbani di Milano mostrano sorprendentemente l'antichità del centro cela il ruolo di perno politico degli Insubri".

    CelticPedia: Le origini di Milano tra storia e archeologia


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    Predefinito Rif: I nomi della Padania

    L’invenzione della Padania

    1 gennaio 2000 (19:15) | Autore: Michele Fabbri


    Gilberto Oneto è la punta di diamante dell’indipendentismo padano. Il suo libro L’invenzione della Padania, edito nel 1997, non mostra affatto i segni del tempo, ed è ancora oggi un testo estremamente attuale. In questo saggio Oneto descrive le ragioni che fondano la coscienza identitaria della Padania, rifiorita a partire dagli anni ’90, cioè proprio quando gli oligarchi mondialisti hanno dato un deciso impulso al processo di globalizzazione. Infatti il passaggio di poteri dai vecchi stati nazionali alle istituzioni internazionali ha prodotto come contraccolpo la rinascita del senso di appartenenza alla comunità locale: per la prima volta nella storia della Repubblica italiana il tema dell’identità etnica si è imposto all’attenzione dell’opinione pubblica, sfuggendo all’occhiuto controllo della classe dirigente. Proprio per inquadrare il dibattito di idee sull’argomento, Oneto precisa la distinzione fra stato e nazione: lo stato è una struttura burocratica che esercita il suo potere sugli individui che risiedono su un dato territorio, la nazione è un gruppo sociale formato da persone che hanno origini, lingua, usi e costumi simili, e che vogliono affermare questa comunanza.

    Venceslas Kruta, I Celti in Italia Già in questa distinzione di base si delinea il carattere artificiale di molti stati moderni, e in particolare dello stato italiano, che più di altri ha carattere composito. Oneto delinea il concetto di identità organiche vere, cioè fondato su un effettivo sentimento di appartenenza comune di cui si trova traccia già in epoche molto antiche: per i Greci e per i Romani l’attuale Padania era la Gallia Cisalpina, caratterizzata dalla presenza di popolazioni celtiche. Proprio l’insediamento celtico ha dato l’impronta fondamentale a questo territorio, trasmettendo alle genti padane i valori culturali e spirituali di questa grande civiltà, ma purtroppo anche i limiti che l’hanno caratterizzata: in primo luogo la difficoltà di creare una struttura federata che potesse dare alle tribù celtiche la possibilità di fronteggiare efficacemente gli invasori romani. Un altro evento che ha segnato in maniera indelebile l’identità padana è stato l’arrivo dei Longobardi: in questo momento decisivo i Longobardi fronteggiano i Bizantini, eredi dell’Impero Romano, per il dominio sulla penisola. I Longobardi, stabilmente insediati in Padania, si diffondono a macchia di leopardo sulle altre zone della penisola, creando in questo modo un importante fattore di differenziazione fra la Padania e le altre parti d’Italia. Queste vicende storiche hanno prodotto importanti differenze linguistiche fra i popoli che abitano la penisola italiana: i dialetti settentrionali hanno marcate origini celtiche e germaniche che non hanno mancato di far sentire le loro influenze anche sulla lingua italiana parlata nelle regioni del Nord: il libro documenta con cartine, grafici e apparato iconografico l’assetto etnico e culturale della Padania. Oneto individua anche i riferimenti mitici che hanno risvegliato l’identità padana: i simboli celtici, ampiamente diffusi in tutta l’area padana, il richiamo a vicende storiche come la battaglia di Legnano che ha visto le città padane unirsi contro un nemico comune e, ancor di più, la gloriosa battaglia di Lepanto che ha salvato l’Europa dalle orde dei turchi con il contributo decisivo di veneziani e genovesi.

    Gilberto Oneto, L'iperitaliano. Eroe o cialtrone? Biografia senza censure di Giuseppe Garibaldi Nel corso dei secoli le città padane si sono sempre distinte per vivacità intellettuale e per spirito imprenditoriale, e le popolazioni padane sono sempre state capaci di forme di organizzazione comunitaria che caratterizzano la Padania come un fenomeno di nazionalismo sociale. La Padania è una delle comunità più produttive del mondo, ma purtroppo ha beneficiato in misura minima delle sue grandi potenzialità, poiché la classe dirigente italiana ha messo in atto una vera e propria rapina fiscale ai danni di questo territorio e, come se non bastasse, ha fatto il possibile e l’impossibile per sfigurare l’identità etnica della Padania, violentando il territorio per mezzo di flussi migratori sapientemente manovrati: la Padania, colonizzata da prefetti, magistrati e poliziotti di origine meridionale, è praticamente sottoposta a occupazione militare. Poi, con l’invasione extracomunitaria, si è abbattuto un ulteriore diluvio di elementi allogeni sulla Padania e su tutta l’Europa, che ha dato origine a problemi di ordine pubblico ormai ingestibili. Lo stato italiano considera i cittadini come vittime sacrificali da immolare sull’altare massonico della società multirazziale, e utilizza le masse di immigrati clandestini come colpi di maglio per travolgere la società civile padana e piegarla ai capricci dell’ideologia mondialista.

    Daniele Conversi (ed.), Ethnonationalism in the Contemporary World: Walker Connor and the Study of Nationalism Tuttavia la storia a volte è capace di rivolgimenti inaspettati e niente affatto graditi ai burattinai che tirano i fili delle marionette nel teatrino osceno della politica italiana: gli oligarchi pensano di aver soffocato ogni tentativo di rivolta nella popolazione padana, ma le radici profonde non gelano e l’albero può ancora dare buoni frutti…

    * * *

    Gilberto Oneto, L’invenzione della Padania. La rinascita della Comunità più antica d’Europa, Foedus Editore, Bergamo, 1997, pp.228, euro 10,00.

    L'invenzione della Padania | Michele Fabbri


    carlomartello

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    Predefinito Rif: I nomi della Padania

    Figuraccia “storica” di Franceschini alle fonti del Po

    “PADANIA INESISTENTE!”. CHE ASINERIA...


    Squallida provocazione con tricolore e ombrellino del segretario Pd.

    Da Augusto le definizioni ufficiali di Cispadana e Traspadana


    di Elsa Franscini. Paisana – Fedele al suo soprannome di “cicca-cicca”, Dario Franceschini è andato a fare un dispetto ai piemontesi, piantando una bandiera tricolore alle sorgenti del Po, proprio nel punto in cui Umberto Bossi raccoglie in un'ampolla l'acqua cristallina che viene poi simbolicamente versata nella Laguna di Venezia. Per compiere questa eroica impresa al Pian del Re, Franceschini è riuscito a mettere assieme quattro buontemponi, residui attivisti della sezione del Pd di Paesana, con tanto di ombrellino: il segretario del Pd, notoriamente, si muove con la nuvoletta di Fantozzi alle spalle. Giunto alle sorgenti del Po, in una grigia mattina degna cornice della tristissima impresa, Franceschini ha ripetuto a pappagallo le consuete quelle frasi fatte sulla Padania che sono l'eloquente prodotto della sottocultura che caratterizza la sinistra.

    MAI ESISTITA “La Padania non esiste – ha sibilato il segretario uscente -, non è mai esistita e mai esisterà”. E così Franceschini ha perso l'ennesima occasione per evitare di parlare a vanvera: la consultazione preventiva di un buon manuale di storia delle scuole medie gli avrebbe spiegato che la Padania, come entità geopolitica, esisteva già ufficialmente ai tempi di Augusto e fu proprio l'imperatore a designare col nome di Gallia Traspadana (Piemonte, Lombardia e Veneto) i territori al di sopra del Po e di Gallia Cispadana (Emilia e Romagna) quelli al di sotto del grande fiume. La Padania, di qua e di là del Po, esistette ufficialmente almeno come regione dell'Impero romano.

    CERCA VISIBILITA'. L'esibizione di Franceschini è stata liquidata con una scrollata di spalle dal presidente dei deputati della Lega Nord, Roberto Cota. “Franceschini al Monviso? Lui – ha detto - ci è andato di passaggio a fare una gita, Bossi ci va sempre con un popolo dietro. Si vede che il segretario del Pd è in grande difficoltà, perchè ormai cerca visibilità con le provocazioni. E' inutile dargli peso, perchè ogni giorno perde sempre più voti ed è sempre più lontano dalla gente del Nord”.

    27 settembre 2009

    Il Padano


    carlomartello

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    Predefinito Rif: I nomi della Padania



    L POPOLO CONTRO IL TRICOLORE:
    LE INSORGENZE ANTIGIACOBINE


    La bandiera italiana era il drappo dei collaborazionisti


    di Redazione. Roma (Italia) - E' bastato che un senatore leghista chiedesse di attribuire un riconoscimento costituzionale alle bandiere regionali perchè una banda di esaltati urlasse alla bestemmia contro il tricolore, "simbolo del popolo italiano". Niente di più falso. Il drappo bianco, verde e rosso è percepito come bandiera simbolo di tradimento ed oppressione, odiato e combattuto dalle popolazioni dei legittimi stati preunitari. Si ispira infatti alla bandiera francese rivoluzionaria del 1789 e viene inalberato, a partire dal 1796, dai collaborazionisti giacobini che sostenevano l'occupazione degli invasori francesi. La nascita del tricolore italiano viene ufficialmente decretata il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia, come bandiera della Repubblica Cispadana, una delle repubbliche fantoccio dei francesi.

    OPPORTUNISTI. Mentre la parte più opportunista delle borghesie cittadine si schiera con gli invasori sotto il tricolore, nelle campagne e tra le fasce più sane della popolazione, legate ai valori tradizionali, inizia una strenua resistenza ai giacobini anticlericali e all'odiato drappo blu, bianco e rosso (o a quello con la variate verde nella prima fascia). E' l'Insorgenza, la nostra Vandea, che ottenne grandi successi militari proprio in virtù della considerevole partecipazione popolare. In questa guerra contro il tricolore, le popolazioni delle campagne scese in armi accolsero sempre gli austriaci quali liberatori, come nel caso dell'Insorgenza antinapoleonica nel Reggiano, guidata dal conte Giorgio Federico di Montalbano, che ridusse allo stremo le truppe francesi consentendo agli austriaci di ottere la vittoria.

    SPINA NEL FIANCO La guerra popolare contro il tricolore continuò per anni in tutta la Padania, e anche nelle terre borboniche, e costituì una spina nel fianco di Napoleone che, pur riuscendo con la ferocia a sottomettere i territori, non riuscì a estinguere mai del tutto l'eroica resistenza antigiacobina. Un libretto, ben documentato, racconta questa epopea della nostra gente: si chiama, non a caso, "Contro il tricolore", lo ha scritto Luca Tadolini per le Edizioni all’insegna del Veltro, Parma.

    INTERVENTO DI BOSSI. Sul fronte politico, invece, significativa la presa di posizione di Umberto Bossi. "Lasciamo stare la bandiera italiana, penso solo alla bandiera padana. Ognuno fa quello che vuole in un paese libero. Io sono lombardo e mi ricordo della mia Lombardia", ha detto il ministro delle Riforme intervistato da una tv privata.


    6 agosto 2009

    Nella foto: il primo tricolore italiano con, al suo interno, il fascio giacobino simbolo della repubblica francese.

    Il Padano


    carlomartello

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    Predefinito Rif: I nomi della Padania

    Come fare gli italiani

    di Gilberto Oneto (14-05-1998)


    L'unificazione della penisola italiana è stato il frutto di una brutale operazione militare voluta da una piccola minoranza di invasati, di massoni, di anticlericali e di affaristi, guidata da una dinastia opportunista e subita da milioni di cittadini che non parteciparono ai "gloriosi" eventi verso i quali erano indifferenti quando non ostili, come le popolazioni meridionali che sono state "convinte" solo con le carneficine della cosiddetta "guerra al brigantaggio". Una farsa di legittimazione è stata trovata in qualche modo con i "Plebisciti", primo episodio di bella democrazia italiona con il loro tristo corollario di violenze, brogli, menzogne, retorica e di mediterranea messinscena. Ma non bastava e, secondo una arcinota espressione attribuita al D'Azeglio, occorreva, una volta "fatta l'Italia", anche "fare gli Italiani". Convincere cioè i sudditi del Regno di essere i fortunati attori di un radioso spettacolo di riscatto civile, della riapparizione della Storia (con la S maiuscola) sui colli fatali di Roma.Sul come convincere i sudditi a essere degni di tanta fortuna si sono i quei giorni radiosi formati due partiti che intendevano risolvere il problema della "formazione degli Italiani" in due modi diversi. Le due tendenze vengono descritte bene da Sergio Romano nel suo Finis Italiae: "Il primo (partito) pensa che gli italiani debbano farsi "col ferro e col fuoco", nel vivo dell'azione, nel crogiolo delle guerre e delle battaglie. (..) Non v'è nazione in Europa che non abbia definito la propria identità e creato il proprio territorio senza lottare per la propria esistenza. La riscrittura romantica della storia italiana può servire a puntellare le pretese della classe dirigente, ma non può sostituire la storia vera. Lo voglia o no l'Italia ha bisogno, per esistere, di guerre e di sangue. Il secondo partito non nega l'utilità delle guerre, ma ne valuta più attentamente i costi e i pericoli. (..) Sa soprattutto, per diretta esperienza, che le guerre costano molto denaro e pesano per molto tempo sul bilancio dello Stato. Per "fare gli italiani" occorre quindi tentare una strada diversa, più graduale, meno rischiosa. Occorre unificare il territorio e le istituzioni, promuovere l'educazione dei cittadini, creare fra essi i vincoli della convivenza economica e della comunità culturale". Al primo partito appartengono commandevoli galantuomini come il Crispi che si inventò alcune stupide guerre coloniali per mettere alla prova i bellicosi istinti degli "eredi di Roma", o come il Di Rudinì che fece massacrare nel '98 i cittadini milanesi colpevoli di non mostrare la dovuta riconoscenza verso chi aveva loro concesso il privilegio di essere italiani. In coerenza con le stesse patriottiche intenzioni sono stati mandati a farsi ammazzare 650.000 giovani nella prima guerra mondiale ("per cementare l'unità nazionale"), si sono "italianizzati" Sloveni, Croati e Sudtirolesi capitati all'interno dei "sacri confini" e sono nati il fascismo e i suoi sgangherati e tragicomici corollari di passi romani, aquile e destini imperiali. Il secondo partito ha invece cercato di unificare gli Italiani nelle scuole, con l'imposizione di una lingua unica, con la commistione delle varie etnie nelle caserme, imponendo leggi uguali, esasperando il centralismo amministrativo e, più di recente, con la televisione e con la sua invadente presenza. Ha cercato di creare una nazione italiana attraverso l'invenzione di una cultura italiana, di un modo di vivere e di una tipologia umana comune, di un carattere che fosse il risultato della sommatoria delle varie realtà diverse che si sono ritrovate ospiti della stessa gabbia tricolore. L'idea era di costruire una sorta di melting pot patriottico, di cucinare un minestrone fatto con tanti ingredienti, di ricavare un colorino beigino dalla somma di tutti i colori diversi della penisola e di stenderlo a sostituire e a coprire tutti gli altri. Ma gli ingredienti di questa operazione alchemica si sono rivelati così diversi e incompatibili da rendere impossibile la loro unione e la distillazione di un loro concentrato nell'alambicco nazionale. Così, invece di sostituire le vecchie identità preunitarie con una nuova identità italiana sorta dalla loro impossibile unione, si è cominciato a sostituire ad alcune di esse l'identità della etnia dominante, quella italiana più propriamente detta e cioè quella meridionale. Al posto di "fare gli Italiani" si è tentato di trasformare in italiano chi non lo era mai stato ed evidentemente neanche voleva esserlo. Per lingua italiana non si è così più inteso il Toscano ma il trasteverino televisivo e cinematografico. La famiglia tipo è diventata quella partenopea delineata dalle soap-opere televisive, la società italiana "normale" quella descritta con commovente continuità dai film neorealisti fino agli sceneggiati sulla Piovra. Il "tipo" classico dell'italiano è diventato il furbastro cagasotto interpretato da Alberto Sordi, la cucina della penisola è quella mediterranea tutta pizza e spaghetti, la bellezza muliebre italiana è quella incarnata da certe attricette poppute e peluriose dall'incanto nord- magrebino, la canzone è quella partenopea, "O sole mio" il vero inno nazionale. La nazionale di calcio (unico vero e granitico baluardo di amor patrio) ha la stessa casacca del Napoli e della Lazio. Anche l'ambiente fisico italiano si è mediterraneizzato: pochi alberi, tanto ruffo e sbrodolate di casette col tetto piatto e color bianco-Panarea. Dalle più sciagurate giornate della nostra storia sono passati quasi centoquarant'anni e le hanno provate tutte: ferro e fuoco, spaghetti e pummarola, bagni di sangue e festival di San Remo. Non sono riusciti a "fare gli Italiani" ma solo a "far fare gli italiani" ad alcuni padani, sudtirolesi, toscani e sardi. Ma solo ai più mona.

    ***


    carlomartello
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    Predefinito Rif: I nomi della Padania

    Vera Storia di uno Stato creato dall'Inghilterra e dalla massoneria europea contro gli Imperi Centrali e la Chiesa

    Risorgimento: una guerra alla civiltà cristiana

    La vera storia della rivoluzione nazionalista “italiana”


    La Padania contro il Risorgimento


    1. 25 luglio 2001: Nazionalismo, mito importato - Furono gli anglo-francesi a far rinnegare all’Italia la sua tradizione cattolica.

    2. 27 luglio 2001: Dalla Carboneria “fiamme” sulla Chiesa - Distruggere il Cattolicesimo, secondo documenti del 1818, sarebbe stato lo scopo dell’associazione.

    3. 29 luglio 2001: Una guerra a colpi di scomuniche - Un capitolo poco noto del risorgimento: i rapporti tra Chiesa e Massoneria.

    4. 31 luglio 2001: «È l’Umanità il Profeta di Dio» - Mazzini, osannato dai nemici della Chiesa, propagandò la fede nel progresso.

    5. 2 agosto 2001: Unità nel nome della scienza - Durante il risorgimento le associazioni si riunivano per invocare «la gloria d’Italia».

    6. 4 agosto 2001: Carlo Alberto, nemico della Lega federale - Il Savoia osteggiò la proposta fatta da Ferdinando II di Borbone e appoggiata da Pio IX.

    7. 8 agosto 2001: D’Azeglio, cospiratore per noia - Nei suoi «Ricordi» l’agente della massoneria confessa le sue vere motivazioni.

    8. 10 agosto 2001: Pio IX, per 17 mesi fu tripudio - Appena eletto, venne scaltramente salutato come “papa liberale” dai rivoluzionari.

    9. 12 agosto 2001: Quando i Gesuiti erano odiati come i tiranni - Dal 1848 inizia la guerra del Parlamento subalpino alla potente Compagnia.

    10. 15 agosto 2001: La guerra alle Dame del Sacro Cuore di Gesù - Nella lotta alla potente Compagnia il Parlamento del ’48 non risparmia neanche le suore.

    11. 17 agosto 2001: Fu un sopruso la “liberazione” di Roma - Nel 1849 la città è guidata dal triumvirato: Pio IX, in esilio, ne denuncia le violenze.

    12. 18 agosto 2001: Torino capitale, covo di massoni - La città incarna le ragioni del laicismo contro quelle della chiesa.

    13. 22 agosto 2001: L’obiettivo di Cavour: uno Stato forte e potente - Per il primo presidente del Consiglio il popolo doveva acquisire la coscienza della propria dignità.

    14. 25 agosto 2001: Le mani di Cavour sugli Ordini - Monache e francescani furono giudicati «inutili, quindi dannosi» da Rattazzi.

    15. 29 agosto 2001: E il Parlamento si schierò contro la Chiesa - È del 1855 la proposta di legge per la soppressione degli ordini contemplativi.

    16. 1 settembre 2001: L’unità pagata con beni religiosi - Inizialmente ostile, anche Cavour si schiera per gli espropri. Ecco perché.

    17. 4 settembre 2001: I sogni premonitori di don Bosco - La legge di Cavour contro i conventi cattolici segnò la rovina dei Savoia.

    18. 6 settembre 2001: Uniti per scristianizzare l’Italia - Il Regno di Sardegna dichiarò il Cattolicesimo religione di Stato ma era retto da nemici della Chiesa.

    19. 8 settembre 2001: Negata la libertà di istruzione - Fin dall’Unità i governanti liberali anteposero la scuola di Stato a quella privata.

    20. 12 settembre 2001: Il volto protestante di Cavour - Ai Cattolici, privati di ogni contributo statale, l’onere di mantenere i valdesi.

    21. 22 settembre 2001: Massoni o Cattolici, chi sono i veri schiavi? - La propaganda contro la Chiesa in tal senso è da sempre violentissima e piena di accuse.

    22. 23 settembre 2001: Piemonte liberale? No, brutale - Il regno sardo eseguì molte più condanne a morte di qualsiasi altro stato.

    23. 25 settembre 2001: Elezioni? Valide se a favore di chi è al governo - Il voto del 1857 mise in agitazione Cavour perché il partito cattolico raddoppiò i consensi.

    24. 27 settembre 2001: Alla guerra contro l’Austria - Nel 1859 i Savoia ripresero il conflitto con la più terribile delle armi: la menzogna.

    25. 28 settembre 2001: La barbarie entra nelle ex capitali - A Parma, il dittatore dell’Emilia Carlo Farini depreda Palazzo d’Este e fa linciare un ufficiale.

    26. 7 ottobre 2001: L’“insurrezione” di Perugia? Un falso - Lo scontro armato con l’esercito pontificio fu voluto da Cavour e costò assai poche vittime.

    27. 17 ottobre 2001: Garibaldi? Un romantico negriero - L’“eroe dei due mondi” esercitava squallidi traffici e preferiva proteggere gli animali.

    28. 21 ottobre 2001: I Mille? Benedetti dal conte di Cavour - La spedizione in Sicilia sarebbe stata impossibile senza l’appoggio – segreto – del Regno di Sardegna.

    29. 23 ottobre 2001: I veri briganti stavano a Torino - Cavour affidò all’ammiraglio Persano ingenti capitali per corrompere i quadri dell’esercito borbonico.

    30. 25 ottobre 2001: Garibaldi? Voleva cacciare Cavour - In un libro sui Mille scritto nel 1859, il deputato Boggio indaga sulle reali intenzioni del generale.

    31. 27 ottobre 2001: Garibaldi, rovina della Sicilia - In un diario la spietata testimonianza di La Farina, che organizzò nell’ombra la spedizione dei Mille.

    32. 30 ottobre 2001: L’ultimo Borbone, un re in balìa dei “traditori” - Francesco II lasciò ingenuamente Napoli nel 1860 facilitando, senza volerlo, la conquista dei garibaldini.

    33. 1 novembre 2001: Un gatto scandalizza il Times - Un esempio efficace di come la stampa dell’epoca, sia pro che contro, riferiva del risorgimento.

    34. 15 dicembre 2001: Una dichiarazione di guerra che non c’è - Uno sguardo agli strani retroscena dell’invasione dello Stato pontificio da parte di Vittorio Emanuele II.

    35. 18 dicembre 2001: “Mercenari” e “briganti”: eroi dell’anti-risorgimento - Si opposero all’attacco liberal-massonico alle tradizioni, alla cultura e alla fede.

    36. 21 dicembre 2001: Plebisciti, una leggenda dura a morire - Uno sguardo ai retroscena, ora svelati, di una delle più colossali truffe di tutta la nostra storia.

    37. 3 gennaio 2002: Cavour, il ritratto vivente del massone - Eppure gli storici hanno spesso minimizzato o addirittura negato i suoi rapporti con le logge.

    38. 8 gennaio 2002: Vittorio Emanuele II: un re magnanimo? - Il vero volto del monarca che unì l’Italia fu quello di acerrimo nemico della Chiesa cattolica.

    39. 12 gennaio 2002: Risorgimento? Sì: del paganesimo - Dopo l’unità d’Italia, il pontefice Leone XIII si rese conto del magro affare fatto dalla Chiesa.

    40. 26 aprile 2002: Il conte di Cavour in azione - L’operato dello statista a Parigi nelle “Memorie per la storia dei nostri tempi” di don Margotti.

    41. 8 maggio 2002: Così gli Stati si sono lavate le mani - La diplomazia di Cavour sfruttò le macroscopiche contraddizioni della politica internazionale.

    42. 11 maggio 2002: La testa della rivolta? A Londra - Il quartier generale della lotta contro la Chiesa non era nella Francia post-rivoluzionaria.

    43. 15 maggio 2002: L’Armonia contro Cavour - Così il giornale di don Margotti replicava ai bollettini piemontesi.

    44. 17 maggio 2002: Annientare il Papato un pezzo alla volta - La politica di Cavour per eliminare la Santa Sede dallo scacchiere italiano.

    45. 21 maggio 2002: Giacomo Margotti: chi era costui? - L’autore delle “Memorie per i nostri tempi” che stiamo pubblicando.

    46. 25 maggio 2002: Ferdinando II? Un re modello - Così Margotti capovolge il giudizio storico sul sovrano delle Due Sicilie.

    47. 30 maggio 2002: Come dissanguare le casse dello stato - Perché nessuno parla degli altissimi costi finanziari sopportati per il “risorgimento”?

    48. 5 giugno 2002: Quanto costò al Paese “unire” l’Italia? - Il governo chiudeva il 1859 in forte passivo mentre la Corona chiedeva di approvare nuove imposte.

    49. 15 giugno 2002: Una grande congiura all’aria aperta - Non disponendo di forze - numeriche, politiche, militari - il risorgimento ricorse alle calunnie.

    50. 19 giugno 2002: Tra Francia e Inghilterra la partita di Sicilia - Le due superpotenze dell’Ottocento trovarono nel Piemonte un alleato per le loro strategie.

    51. 21 giugno 2002: Risorgimento, il grande saccheggio - Nel 1855, insieme alla confisca dei monasteri finirono in malora biblioteche e opere d’arte.

    52. 27 giugno 2002: Quella persecuzione per circolare - Documenti ministeriali provano l’accanimento contro la Chiesa cattolica.

    Gli articoli di Angela Pellicciari pubblicati sul quotidiano La Padania.


    carlomartello
    Ultima modifica di carlomartello; 09-05-10 alle 19:12

 

 

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