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Discussione: il sanscrito

  1. #1
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    Predefinito il sanscrito

    Il Sanscrito



    A questo indirizzo, Sanskrit vi è una buona spiegazione di cosa sia il Sanscrito.
    Per coloro che non hanno voglia di tradurre dall’inglese, lo trascrivo qui in italiano.
    saṃskṛtam (संस्कृतम्) o, in breve, sanskrit o saṃskṛtā vāk (संस्कृता वाक्) è un’antica lingua sacra della regione di bharatavarsha (attualmente India, Pakistan, Bangladesh, Afghanistan, Nepal, Bhutan, Ladakh, Sri Langka e parte del Tibet), cioè la lingua dell’Induismo e dei Veda e della letteratura classica dell’India.
    Il nome Sanskrit significa ‘rifinito’, ‘consacrato’ e ‘santificato’.
    È sempre stato considerato un linguaggio elevato ed usato essenzialmente per discorsi religiosi e scientifici.
    Vi sono attualmente centinaia di milioni di persone che lo parlano, ma la sua importamnza va ben al di là di questi numeri.
    É il più antico linguaggio conosciuto. É anzi considerato la vera origine di tutti i linguaggi; la lingua da cui tutte le altre si sono evolute. I Vedas, comunemente accettati come i primi testi scritti dell’umanità, sono scritti in Sanscrito.
    Fra gli Indiani è profondamente radicata la credenza che il Sanscrito fosse la lingua dei Devas (divinità), ed è questo il motivo per cui durante il periodo Vedico (6.000 – 8.000 anni fa) era conosciuto col nome Daivi Vak (la lingua divina).
    Panini, il grandissimo grammatico, strutturò questa lingua con la sua grammatica nel settimo secolo prima di Cristo e da quel momento ci si riferì ad essa col nome di Samskritam.
    Numerosissimi sono i lavori culturali, spirituali e scientifici scritti in questo antico linguaggio. Tutta la letteratura classica Veda fu scritta in Sanscrito, inclusi i testi classici di Yoga, il Vedanta e altri saggi spirituali e filosofici antichi. Sempre in Sanscrito si trovano testi storici, astrologici, astronomici, di medicina, architettura e fisica.
    La lingua è estremamente regolare, quasi matematica nella sua grammatica e formulazione. Come già detto è considerata la lingua degli Dei. La scrittura è chiamata Devanagari, che significa ‘usta nelle città degli Dei’.
    Le parole vengono costruite partendo da un certo numero di radici, ciascuna delle quali è considerata avere una qualità intrinseca che incarna il significato stesso, e quindi non è un semplice simbolo.
    Il suono è considerato il più sottile di tutti i cinque elementi e il suo controllo può manipolare la materia, come avviene tramite il canto dei Mantra.
    Essendo il più antico linguaggio del mondo, il Sanscrito fu per tre millenni la lingua franca del subcontinente indiano. la lingua della scienza, del sapere, della spiritualità e della cultura. È il linguaggio delle Scritture Hindu, dei Vedas, delle Upanishad, della Bhagavad Gita, del Mahabarata, del Ramayana e dei Puranas. La letteratura Sanscrita è probabilmente la più ricca nella storia dell’umanità. La parola Sanscrito letteralmente significa ‘la Lingua Perfetta’ o ‘il linguaggio portato alla perfezione formale’. È un nome altamente appropriato se si considera che la NASA lo ha dichiarato come ‘l’unico linguaggio non ambiguo del pianeta’. E recentemente alcuni scienziati hanno espresso l’idea che il Sanscrito sia la lingua migliore da usare nel mondo dell’informatica.
    Il Sanscrito è la base di molte lingue moderne indiane – Hindi, Gujarati, Marathi, Punjabi – così come del classico Prakrit e delle lingue delle scritture Buddiste, del Pali. Ha influenzato il Francese, il Tedesco, il Russo, l’Inglese, le lingue del Sud Est asiatico come il malese, il giavanese, il Cambogiano, il vietnamese, il tailandese e il filippino.
    In esso ritroviamo molte antiche forme di parole come ‘father’, ‘through, ‘shampoo’, ‘trigonometry’ e ‘mouse’, mentre centinaia di parole sanscrite, come ‘guru’, pundit’, ‘dharma’, ‘bandh’ e ‘yoga’ si trovano nel dizionario di Oxford.
    Il Sanscrito, come molte altre lingue Indiane e del Sud Est asiatico, usa come alfabeto il Devanāgarī.
    Il Devanāgarī è un alfabeto fonetico che consiste in tredici vocali (svara) e 34 consonanti (vyanjana). É conoscito come una scrittura sillabica – ogni lettera ha un suono univoco e costituisce una singola sillaba di ogni parola. Si scrive da sinistra a destra e non usa maiuscole e minuscole. La maggior parte delle lettere ha una linea in alto. Quando si scrivono parole questa linea generalmente si estende sopra l’intera parola. Ci sono comunque alcuni casi in cui una singola lettera può interrompere la linea.
    Contrariamente all’inglese dove ogni consonante ha un suono (b = bi, f=effe, ecc.),in Sanscrito le lettere che rappresentano una consonante incorporano il suono a (pronunciato ah – ka, ta, pa, ecc.) rendendo ogni simbolo una singola sillaba. La vocale ‘a’ può essere rimpiazzata da qualsiasi altra vocale con l’aggiunta di simboli extra.
    Le consonanti possono essere congiunte. Ve ne sono migliaia, la maggior parte combinazione di due o tre consonanti. Ma ve ne sono anche con quattro e, almeno una, con cinque.
    Storia
    La tradizione Vedica ci informa che gli esseri umani nell’antichità erano fisicamente e intellettualmente molto più abili che non ai nostri giorni. La conoscenza era trasmessa per via orale dal momento che i discepoli erano in grado di memorizzare qualsiasi cosa avessero sentito per una volta. Per questo motivo la scrittura non era assolutamente necessaria. Ma all’alba della nostra era – il kali yuga – la mente umana si è degradata sempre di più e un po’ alla volta ha perso tutte le sue buone qualità. La durata della vita è diminuita e con la perdita della memoria l’antico sistema di trasmissione del sapere non era più applicabile. Per evitarne la decadenza, la saggezza Vedica doveva essere conservata in forma scritta. Ciò avvenne circa 5.000 anni fa per merito dell’incarnazione divina Shri Vyasadeva. Fu lui a comporre la letteratura vedica che noi conosciamo, e precisamente i quattro Veda, le Upanishads, i Puranas e il Mahabharata. Egli pertanto non creò alcuna nuova conoscenza, ma cercò semplicemente di preservare l’originale conoscenza umana per le generazioni a venire.
    A quel tempo devanagari era la lingua dell’intera popolazione civilizzata della terra. Ma a causa della mancanza di esercizio e alla poca cura della pronincia, il popolo ignorante cominciò a sviluppare numerosi dialetti. Prima di allora questa decadenza linguistica era stata con grande cura evitata perchè era ben risaputo che il potere materiale e spirituale di un linguaggio dipende in grande misura dalla sua purezza. Ora comunque nascevano molti dialetti che, deviando sempre più dall’originale, non potevano più essere chiamati devanagari.Ne derivarono nuove lingue, chiamate prakrta.
    Con l’avanzare del kali yuga qusti dialetti praktra si diffusero sempre più sino a superare il linguaggio puro originale. Infine furono adottati anche dalle classi colte. I saggi ed i discepoli del tempo si allarmarono. Insieme al loro linguaggio videro la decadenza anche della cultura Vedica. Per questo motivo profusero enormi sforzi e tempo per costruire una grammatica standardizzata con l’intento di preservare la lingua devanagari nella sua originale purezza. Sebbene sino ad allora ciò non fosse stato necessario, ora questo sforzo sembrava l’unica possibilità per controbilanciare il decadimento culturale, intellettuale e spirituale della società.
    Il più importante, e quello che ebbe maggior successo, tra questi grammatici, fu Panini. La sua grammatica supera tutte le altre per solidità e precisione, divenne lo standard e rimase indiscussa sino ai nostri giorni. Panini riuscì ad unire il linguaggio originale devanagari aud una rete esatta di regole, preservandolo perciò per i posteri. Da quel momento la lingua fu chiamata Sanskrit, che significa ‘associato, rifinito’.
    Secondo i Veda, il Sanscrito non è il risultato di qualche lingua prakrta, ma sono quete che sono state sviluppate dall’originale linguaggio Snscrito, chiamato Devanagari. Al giorno d’oggi il sanscrito non è altro che il tentativo riuscito di conservare l’antico linguaggio e di prevenirne futuri cambiamenti. E lo sviluppo della scrittura no è affatto visto come un progresso della civilizzazione umana, ma piuttosto come un sintomo della degradazione continua delle qualità umane.
    Secondo la tradizione il Sanscrito è il linguagio originale dei Vedas. Essi sono stati trasmessi direttamente dal mondo spirituale all’alba della creazione. Per questo il loro linguaggio ha il potere di connettere chi recita e chi ascolta i mantra e gli sloka con l’eterna relatà spirituale.- in maniera speciale se i mantra contengono uno dei numerosi nomi di Dio. Di conseguenza il Sanscrito produce una vibrazione sonora trascendentale che è in grado di liberare le entità viventi dall’esistenza materiale chiamata samsara, il ciclo di vite e di morti.
    Oggi, mentre siamo costretti da sempre nuove scoperte archeologiche a spostare all’indietro l’origine dell’uomo, questa versione non appare assurda. O quanto meno non vi sono evidenze concrete per scartarle come mitologica.
    Non ha importanza comunque se accettiamo l’opinione accademica o la versione fornita dai Veda. Noi non possiamo guardare al Sanscrito che come ad uno dei grandi linguaggi culturali del pianeta. Ha influenzato molte zone del nostro pensiero e della nostra cultura ed è ancora parlato da molti discepoli dentro e fuori dell’India. Senza conoscere la cultura Sanscrita, L’india attuale e le sue tradizioni non potrebbero essere comprese.
    Fino al 1100 dopo Cristo il Sanscrito fu senza interruzioni la lingua ufficiale dell’intiera India. La sua dominanza è dimostrata da una ricca letteratura di diversi generi tra cui la religione, la filosofia, le favole, i racconti, la scienza, la legge e la politica.
    Al tempo dell’invasione mussulmana, il Sanscrito venne gradualmente rimpiazzato da lingue comuni patrocinate dai mussulmani allo scopo di sopprimere la tradizione culturale e religiosa dell’India per suppiantarla con la propria. Ma non riuscirono ad eliminare l’uso letterario e spirituale del Sanscrito. Persino oggi in India vi è un forte movimento che chiede il ritorno del Sanscrito come lingu aufficiale dell’intiero Paese. Il Sanscrito infatti, essendo un linguaggio derivato da semplici radici monosillabiche a cui vengono aggiunti prefissi e suffissi in base a precise regole grammaticali, ha un’infinita capacità di crescere, adattarsi ed espandersi in base alle richieste di un mondo che si evolve rapidamente.
    In questi ultimi due secoli la letteratura sanscrita è stata arricchita da un vasto vocabolario di nuove parole. Sebbene queste aggiunte siano tutte basate sui principi grammaticali del Sanscrito, e per la maggior parte composte da radici sanscrite, vi sono anche contributi derivanti dall Hindi e da lingue internazionali. Ad esempio per la parola televisione si è creata la parola duradarshanam, che significa ‘ciò che provvede la visione di quello che è distante’, e che deriva interamente da radici sanscrite; per la parola motocicletta, invece, si usa invece motaryanam che deriva dall’inglese..
    Oggi vi sono almeno una dozzina di periodici in sanscrito, un’agenzia di notizie, la All-India-News, che trasmette in Sanscrito, la televisione che trasmette programmi e films in sanscrito, un villaggio di 3.000 abitanti in cui si parla solo sanscrito e un’infinità di piccole comunità sparse in tutta l’India insieme ad alcune scuole dove il sanscrito è la lingua utilizzata. Il sanscrito moderno è vivo e in buona salute.
    La cosa straordinaria riguardante il sanscrito è che esso offre a ciascuno l’accessibilità a quel livello elevato dove la matematica e la musica, il cervello e il cuore, la mente analitica e quella intuitiva, la scienza e lo spirito si uniscono diventando un’unica realtà.
    Come già detto la NASA ha dichiarato il sanscrito come l’unica lingua del pianeta non ambigua (e quindi più adatta per l’uso nell’informatica). Tale giudizio appare in un articolo, intitolato [Article Index & Artificial Intelligence], apparso nel periodico AI (Artificial Intelligence) nella primavera del 1985, scritto dal ricercatore della NASA Rick Briggs:
    “Negli ultimi vent’ann, molto tempo sforso e denaro è stato impiegato nel disegnare una rappresentazione di linguaggi naturali non ambigua per renderla accessibile al calcolo computeriale. Questi sforzi si sono accentrati nel creare schemi disegnati da relazioni logiche parallele con relazioni espresse dalla sintassi e dalla semantica di linguaggi naturali, che sono chiaramente poco adatti e ambigui nella loro funzione di veicoli per la trasmissione di dati logici. É comprensibile quindi che sia molto diffusa l’idea che i linguaggi naturali non siano adatti alla trasmissione di molti concetti che il linguaggio artificiale può rendere con grande precisione e rigore matematico. Ma questa dicotomia (dualismo) che è servita come premessa per molti lavori nell’area della linguistica e dell’intelligenza artificiale, è falsa. C’è almeno una lingua, il Sanscrito, che è stato per circa un millennio una lingua parlata, con una considerevole letteratura propria. A fianco ad opere di valore letterario, vi è stata una lunga tradizione filosofica e grammaticale che continua ad esistere con pari rigore anche ai giorni nostri. Tra le realizzazioni dei grammatici si può ricavare un metodo per trasformare il Sanscrito in una maniera che è identica non solo nell’essenza, ma anche nella forma con gli attuali lavori sull’intelligenza artificiale. Questo articolo domostra che un linguaggio naturale può servire anche come linguaggio artificiale e che la maggior parte del lavoro nell’intelligenza artificiale è stato il reinventare una ruota che esisteva già alcuni millenni fa.”
    Questa scoperta è di enorme significato. É sbalorditivo pensare che abbiamo a disposizione un linguaggio che è stato parlato per almeno 5.000 anni e che sembra essere sotto tutti i punti di vista il linguaggio perfetto per la comunicazione più alta. Ma l’aspetto più straordinario è che secondo la NASA, attualmente il centro di ricerca più avanzato nel mondo, ha scoperto che il sanscrito, la lingua spirituale più antica, è anche l’unico linguaggio del pianeta privo di ambiguità.
    Basato su radici sonore e vibrazioni dell’universo.
    Come la fisica quantica ci ha rivelato, tutto e ogni cosa consiste di vibrazioni. L’essenza primaria di qualsiasi oggetto o fenomeno può così essere pensata come il suo caratteristico, unico (oppure composto) schema di vibrazione.
    Si dice cje il Sanscrito stesso sorge dalle varie radici sonore o dalle vibrazioni dell’universo. Le varie vocali e consonanti che costituiscono le parole sanscrite rappresentano queste radici sonore, conosciute come bijas. In stati di profonda risonanza con il cosmo (in altre parole in meditazione), i Rishis, gli antichi scienziati spirituali, potevano percepire questi suoni bijia; e da questo profondo senso di percezione, essi riconoscevano i suoni inerenti a ciascuna cosa.
    Una parola sanscrita, pertanto, non è semplicemente un nome scelto per indicare qualcosa, ma il riflesso del suono inerente tale oggetto, concetto o fenomeno. In realtà la giusta, o meglio perfetta, pronuncia delle parole sanscrite può replicare l’esatta natura o essenza di ciò a cui ci si riferisce.
    Si dice anche che in una mente perfettamente pura, l’udire la parola sanscrita, pronunciata in maniera perfetta, fa apparire come risultato l’immagine dell’oggetto, dell’idea, eccetera, anche se tale oggetto, idea, eccetera, non era mai stato visto nè era mai stata udita una sua descrizione. Similmente la perfetta pronuncia di una parola snascrita ha il potere di manifestare e/o influenzare l’oggetto corrispondente. Il Sanscrito, proprio per questa ragione è chiamato ‘il linguaggio perfetto’.
    Questa è in sostanza l’essenza di uno dei principi che nella tradizione vedica riguardano il canto dei mantras. Oggi vi sono solo pochi che posseggono la conoscenza e l’abilità di una ‘perfetta pronincia’. E ancora meno che abbiano una mente sufficentemente pura da essere in grado di ricevere l’innata verità di questa lingua ascoltandola.
    Il Sanscrito è il linguaggio del mantra
    Parole di potenza che sono sottilmente sintonizzate con gli schemi non visibili di armonie della matrice della crazione, del mondo non ancora formato.
    Vak (parola) incorpora sia il senso della voce che della parole. Ha quattro forme di espressione. La prima, para, rappresenta l’idea cosmica che sorge dall’assolota, dalla presenza divina. La seconda, pasyanti (vedere), è vak come soggetto, che vede chi crea l’oggetto come madhyama-vak, la terza e sottile forma della parola prima che si manifesti come vaikhari-vak, la grossolana produzione di lettere nel linguaggio parlato. Ciò implica la possibilità di avere parole orientate a vivere direttamente la verità che trascende la preoccupazione individuale con le informazioni limitate accessibili tramite i sensi. Parole pronunciate come tali sono manifestazioni vive e crative di forza. Penetrano l’essenza di ciò che descrivono e danno vita a significati che riflettono le profonde correlzione della vita.
    L’organizzazione unica dell’alfabeto serve per focalizzare l’attenzione sugli schemi e le qualità dei suoni articolati in una maniera che non si trova in nessun altro linguaggio. Ponendo continuamente l’attenzione alla localizzazione, al grado di risonanza e allo sforzo del respiro, l’attenzione viene via via sempre più consumata dalla diretta esperienza del suono articolato. Ciò di per sè produce una chiarezza di pensiero mai sperimentata ed una festa nella gioia del linguaggio, visto che ogni combinazione di suoni segue regole strettissime che essenzialmente rendono possibile un ininterrotto scorrere di una perfetta armonizzazione eufonica di lettere in parole e versi.

  2. #2
    calici amari
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    Predefinito Rif: il sanscrito

    A chi conosce l'inglese e ha tempo e voglia di imparare gratuitamente da autodidatta le basi di questa lingua

    Learn Sanskrit through Self Study
    Ultima modifica di Regina di Coppe; 16-10-10 alle 10:28
    Corpo sano in ambiente sano.

    Chi avvelena una persona per vendetta viene condannato per veneficio.
    Chi avvelena milioni di esseri umani per profitto viene onorato come capitano d'industria.

  3. #3
    A - democratia
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    Predefinito Rif: il sanscrito

    Ho trovato interessanti questi video-lezione: posto il primo ma ci sono tutti.

    YouTube - Learn to read Sanskrit - lesson 1


    Sempre a proposito di sanscrito (per chi lo legge), qui ( Turn the Pages of the Ramayana manuscripts ) si puo' sfogliare il Ramayana in un testo manoscritto del '600.

    Io ho cliccato su "Silverlight Version" e funge.

    Ultima modifica di RAYO; 29-10-10 alle 09:33

  4. #4
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    Predefinito Rif: il sanscrito

    A.K. Coomaraswamy
    Nirukta = Hermeneia*

    Sono ben note a ogni studioso dei testi vedici quelle che l'erudizione moderna designa come «etimologie popolari». A mo' d'esempio si può citare la Chandogya-Upanishad (VIII, 3,3): «In verità, quest'Atmâ è dentro il cuore (1) (êsha âtmâ hridy)». Ed ecco, di questa espressione, il nirukta (in greco hermeneia): «Questi è dentro il cuore (hridy ayam)» è questa la ragione per cui il cuore è chiamato hridayam. Chi abbia capito ciò entra ogni giorno in Cielo».
    In Yaska (2), naturalmente, gli esempi abbondano, come questo, tratto dal Nirukta, V, 14: «Pushkara significa “mondo intermediario”, perché quest'ultimo “nutre” (poshafi) le cose che emergono all'esistenza (3). L'acqua è anch'essa detta pushkara, in quanto è mezzo d'adorazione (pûjâkara) e “deve essere venerata” (pûjayitavya) essa stessa. Intesa come “loto” (pushkara), la parola ha la medesima origine, poiché il loto è un ornamento (vapushkara), ed un “fiore” (pushya), perché “fiorisce” (pushyafê)». Spiegazioni simili sono in genere respinte come «giochetti etimologici» (Eggeling), «essenzialmente artifi*ciali» (Keith), «di alta fantasia» (Mazumdar), o più semplicemente come «giochi di parole».
    E tuttavia gli eruditi s'accorgono in qualche modo che non possono ignorarle completamente, che, come scrive l'ultimo degli autori citati (Indian Culture, II, p. 378), «si trovano in molte Upanishad spiegazioni immaginose... testimonianza di scarse conoscenze grammaticali e di ancora peggiori conoscenze linguistiche; e nonostante ciò i grammatici, che pur non le tengono per corrette, al loro proposito tacciono»: in altre parole, i più antichi grammatici della lingua sanscrita, le cui capacità scientifiche sono universalmente riconosciute, non hanno riportato queste «spiegazioni» nelle loro «grammatiche», ma nel contempo non le hanno nemmeno mai condannate.
    La verità è che il nirukta non è una branca della filologia nel senso moderno della parola; una spiegazione ermeneutica può o non coincidere con il pedigree di fatto della parola in questione.
    Il nirukta (=hermeneia) si fonda su una teoria del linguaggio di cui la filologia e la grammatica sono semplici rami; si può dire, anzi, i rami più secondari.
    Ciò dico, naturalmente, non senza rispetto, e il più sincero, per quei «leviatani della scienza, irreprensibili nella loro onniscienza, che attraversano senza fremere l'oceano della linguistica, l'esplorano nei suoi più tenebrosi abissi, e quando non si azzuffino tra di loro, si gettano sugli audaci pesciolini che, pur nuotando in superficie, hanno la sfrontatezza di avventurarsi a loro rischio e pericolo tra i flutti» (4), e sarò sempre pronto ad accettare il consiglio di tali giganti su qualunque questione di genealogia verbale. L'etimologia, che è un'eccellente cosa finché sa stare al suo posto, è nondimeno proprio una di quelle «scienze moderne che altro non sono, nel senso più letterale della parola, se non “ residui” di scienze antiche, oggi incomprese» (5). Nell'India, la scienza tradizionale del linguaggio costituisce l'argomento della Pûrva-Mîmânsâ, della quale è caratteristico l'«insistere sul principio dell'eternità dei suoni articolati (6) e sulla conseguente dottrina secondo cui la connessione d'un suono con il suo significato non è data da una convenzione, ma è invece connaturale alla parola stessa».
    Sennonché quando il professor Macdonell, dopo questa eccellente osservazione, aggiunge (Sanskrit Literature, 1905, pag. 400) che «a motivo del suo scarso interesse filosofico, questo sistema non ha finora meritato l'attenzione degli eruditi europei», egli evidentemente vuol solo affermare che questo argomento non ha un particolare interesse per lui e per coloro che condividono le sue idee, poiché non si può supporre che abbia voluto deliberatamente escludere Platone dal numero dei «filosofi».
    Non solamente infatti Platone si avvale del metodo ermeneutico nel Cratilo, allorché, per esempio, spiega che «ciò che ha chiamato» (tô kalésan) le cose con il loro nome s'identifica al «bello» (tô kalôn), ma nell'intero corso di questo stesso dialogo s'occupa del problema della relazione che unisce i suoni ai significati, e vuoi stabilire se questa relazione sia essenziale oppure accidentale.
    La sua conclusione è che il vero nome di una cosa è quello che ha un senso naturale (in sanscrito sahaja), vale a dire quello che è realmente una «imitazione» (mîmesis, in sanscrito: pratikriti) della cosa stessa in termini di suono, esattamente come, nella pittura, le cose sono «imitate» in termini di colore; tuttavia, a motivo dell'imperfezione che di fatto si riscontra nell'imitazione fonetica — la quale può considerarsi conseguente ad una reminiscenza imperfetta — la formazione delle parole di cui ci serviamo ha dovuto essere facilitata da certi artifici, sicché il loro significato è in parte convenzionale. Un passaggio del Cratilo ci dice cosa bisogna intendere per «significato naturale»: esso è quello sul quale Socrate e Cratilo si trovano d'accordo quando affermano che «la lettera rho (in sanscrito ri, r) esprime le idee di rapidità, movimento e durezza».
    Cratilo sostiene del resto che «colui che conosce i nomi, conosce anche le cose che essi esprimono»; il che equivale ad asserire che «colui che per primo diede i nomi alle cose» l'ha fatto con una certa conoscenza della loro natura; egli afferma pertanto che questo primo «impositore di nomi» (in sanscrito nâmadhâh) dev'essere stato «una potenza più che umana» e che i nomi dati in origine alle cose erano necessariamente i loro veri nomi.
    Viene inoltre spiegato che vi sono due specie di nomi, quelli che si riferiscono al movimento e quelli che concernono il riposo, e tutti designano piuttosto degli atti che delle cose agenti.
    Socrate, a sua volta, riconosce che la riscoperta dell'essere reale, astraendo dalle sue denominazioni, può «superare sia la mia che la tua capacità».
    La dottrina indù ugualmente insegna (Bridad-dêvatâ, I, 27; Nirukta, I, 1 e 12, ecc.) che «i nomi sono tutti derivati da azioni»: se indicano un'azione, i nomi sono dei verbi, e sono sostantivi allorquando qualcuno, o una cosa, è considerato come l'agente d'una azione. Non bisogna scordare che il termine sanscrito nâma non significa solamente «nome», ma anche «forma» (in senso aristotelico e scolastico), «idea», «ragione eterna» (7). «Il suono e il significato» (sbabdârtha) sono strettamente connessi; troviamo anzi questa stessa espressione impiegata come un'immagine dell'unione perfetta, qual'è quella tra Shiva e Shakti, tra l'essenza e la natura, tra l'atto e la potenza in divinis. I nomi sono la causa dell'esistenza; si può affermare che in ogni cosa composta (sattva, nâmarûpa) il «nome» (nâma) è «la forma» del «fenomeno» (rûpa), nel senso in cui si dice che «l'anima è la forma del corpo». Nello stato di non-essere (asat) o d'oscurità (tamas), i nomi dei princìpi individuali non sono ancora proferiti, essi sono «nascosti» (nâmâni gubyâ, apâchyâ, ecc.; Rig-Vêda, passim) (8); l'essere nominati corrisponde al passaggio dalla morte alla vita. Lo stesso eterno Avatâra, come il bambino (kumâra) d'un padre senza bontà, domanda un nome, poiché «è mediante il nome che s'allontana il male (pâpmânam apahanti)» (Shatapatha- Bràhmana, VI, 1-3, 9); ciò che gli esseri più temono nel loro cammino è di venire privati dei loro nomi da parte delle potenze della Morte, che sta in agguato, pronta a carpire (Krivir nâmâni provanê mushayati - Rig-Vêda, V, 44). «È grazie al suo nome immortale (amartyêna nâmnâ) che Indra sopravvive alle generazioni umane» (ibid., VI, 18). Fintantoché un principio individuale rimane in atto, questi conserva un nome; il mondo dei «nomi» è il mondo della «vita»: «Quando un uomo muore, ciò che non lo abbandona è il nome ; il nome è senza fine , e poiché "senza fine sono gli Angeli Molteplici (vishvêdêvas), grazie al nome egli conquista il mondo senza fine (Brihadaranyaka-Upanishad, III, 2, 12)».
    È con l'enunciazione dei nomi che una «potenza più che umana» non solo designa correttamente le cose esistenti, ma da anche loro l'essere; e se il Creatore è capace di ciò è perché conosce tutti i nomi nascosti, o «titanici» delle cose che non si sono ancora manifestate nel loro proprio dominio; è mediante questa prescienza dei nomi delle cause seconde che egli compie quanto dev'essere compiuto, compresa la creazione di tutti gli esseri individuali (9).
    Leggiamo per esempio nel Rig-Vêda: «Mediante i nomi delle Quattro (Stagioni) ha messo in movimento la ruota (dell'Anno), che è trainata da novanta corsieri» (I, 15.5-6) «Tu, o Maghavan (Indra), conosci certamente tutti i tuoi nomi di Titano mediante i quali hai compiuto le tue potenti imprese» (X, .54-4); «Varuna conosce i nomi segreti e nascosti; fa fiorire ogni locuzione (kâvyâ purû pushyati), così come la luce del cielo fa fiorire ogni specie (pushyati rûpam)» (VIII, 41-5). È per la stessa influenza che i mantra sono efficaci; cfr. per esempio il Panchavirmasha-Brâhmana (VI, 9, 5 e 10-3): «Con la parola “nato” (jata) egli fa nascere (jîjamat)... Dicendo “le vite” egli anima tutti i “viventi”», e la Brihadâranyaka Upanishad (I, 5, 18): «In verità è la Parola divina, in virtù della quale qualsiasi cosa egli dica viene all'esistenza».
    È dunque in virtù d'un atto di «previdenza» divina che tutte le cose vengono prodotte: «Varuna conosce tutte le cose nel loro principio intellettuale (vishvam sa vêda varuno yathâ dhiyâ)» (Rig-Vêda, X, 11, 1). «II Creatore dell'universo, il Veggente celeste che percepisce ogni cosa con uno sguardo (samdrik), e che è chiamato "l'Unico di là dai sette rishis"... e che è chiamato l’unico Dominatore degli Angeli (yo dêvânâm êka êva) verso il quale si rivolgono tutti gli altri esseri per la loro istruzione (samprashna)» (ibid., X, 82, 2-3). Quest'ultimo passaggio dev'essere confrontato con quel (i devâ) «grazie ai servigi da loro resi nel corso dei sacrifici, ottennero i loro nomi rituali e produssero i loro nobili corpi». Essere nominati, ricevere un nome, equivale a nascere, ad essere in vita. Questa creazione per via di denominazione può essere considerata sotto due aspetti: per l'«unico Denominatore» l'enunciazione è, come egli stesso, unica; per i principi individuali questo Significato unico, che contiene tutti i significati, è verbalmente diviso: «Con le loro parole lo resero molteplice, lui che è Uno» (Rig-Vêda, X, 114). Ma, nella misura in cui questa divisione sacrificale è una contrazione ed una identificazione alla diversità, deve essere ben chiaro che il nome, anche se indispensabile per il cammino da percorrere, non rappresenta la meta finale: «La Parola (vach) è la corda, e i nomi sono i nodi coi quali tutti gli esseri sono legati» (Aitarêya-Aranyaka, II, 1, 6). La fine è essenzialmente identica al principio: è solamente quando «non è più nutrito dal nome e dalla forma (nâma-rûpâd-vibhuktah) che il Conoscitore (vidvân) raggiunge quell'Uomo celeste che è di là dall'aldilà; conoscendo Brahma, egli diventa Brahma» (Mundaka-Upanishad, III, 18-19), «Così com'è dei fiumi che scorrendo si dirigono verso il mare... là dove il loro nome e la loro forma sono distrutti e non si parla più che del mare» (Prashna-Upanishad, VI, 5). «L'anima esigente — dice Eckhart - non trova la sua pace in qualcosa che porti un nome». «Quando ci si perde nella Divinità, ogni definizione sparisce», e per questo aggiunge: «Signore, la mia fortuna proviene dal fatto che voi non pensate mai a me»: di tutte queste affermazioni si potrebbero trovare molti altri equivalenti, tratti dalle fonti cristiane, islamiche o indù.
    Si può così intravedere una teoria dell'espressione secondo cui la denominazione e resistenza individuale appaiono come aspetti inseparabili, e possono essere dissociate dal pensiero solo se considerate «obiettivamente», ma coincidono nel soggetto. Teoria che è quella di un'unica Lingua vivente che nessun individuo può conoscere nella sua totalità, ma che rappresenta la sintesi di tutti i suoni articolati e corrisponde nello stesso tempo a tutte le forme d'esistenza. Il «Verbo proferito» da Dio è precisamente questa «somma di tutte le lingue» (vachikam sarvamayan; Abhinaya Darpana) (10). Tutte le lingue esistenti sono delle eco di questa lingua universale; queste eco rappresentano dei ricordi parziali e sono più o meno frammentarie, così come tutte le visioni sono rifrazioni più o meno opache del «Quadro del Mondo» (jagach-chitra: Shankarâchârya, Svâtmanirûpana, 95) o dello «Specchio eterno» (speculum seternum: S. Agostino, De Civitate Dei, XII, 29): conoscere questa lingua universale, o percepire questo Quadro del Mondo, nella sua totalità ed in modo simultaneo, equivale ad essere onniscienti. L'enunciazione originaria, inesauribile ed indistruttibile (akshara) (il mantra «om»), è pregna di tutti i significati possibili ed è ritenuta non solo un suono, ma anche una «luce onniforme» (jyotir visha-rûpam; Vâjasanêyi-Samhitâ, V, 35). Essa è la «forma esemplare» delle cose più diverse e, sia sotto il suo aspetto sonoro che sotto quello luminoso, è precisamente «quella sola cosa che, una volta conosciuta, le cose tutte sono conosciute» (Mundaka-Upanishad, I, 3; cfr. Brihadâranyaka-Upanishad, II, 4-5).
    L'Idea - l'aspetto «paterno» - e il linguaggio o il mezzo d'espressione - l'aspetto «materno» -, i quali formano nella loro identità originaria il principio primo della conoscenza, sono evidentemente inaccessibili all'osservazione dei sensi (11): fintantoché una coscienza individuale può ancora considerarsi tale, fintantoché può essere «distinta», non può aversi onniscenza, e la sol cosa che possiamo fare è «rivolgerci per la nostra istruzione al Denominatore unico» (Rig-Vêda, X, 82), cioè verso quella «potenza più che umana» alla quale accenna Platone, affinchè con degli atti di «reminiscenza» ci sia dato di riacquistare le nostre potenzialità perdute, elevando il livello della nostra conoscenza con tutti i mezzi a nostra disposizione. La dottrina metafisica d'una Lingua universale non dev'essere intesa nel senso che sia stata effettivamente parlata da un qualche popolo della terra; l'idea metafisica d'una Lingua universale è in realtà l'idea del Suono unico, non quella di gruppi di suoni che sarebbero stati proferiti successivamente; ed è proprio a questi gruppi che noi pensiamo quando impieghiamo l'espressione «lingua parlata». Tale lingua non ci fornisce infatti alcuna conoscenza a priori del pensiero da esprimere, e certe volte «è difficile stabilire se sia il pensiero ad essere difettoso o se lo sia invece il linguaggio che non è riuscito ad esprimerlo» (Keith, op.cit., pag. 54).
    Una supposizione che più naturalmente deriva dall'ermeneutica tradizionale (nirukta), è che sussistano nelle lingue parlate diverse tracce d'universalità e, in particolare, tracce d'una mimêsis naturale (con ciò, ovviamente, non intendiamo una semplice rassomiglianza onomatopeica, bensì una vera e propria analogia); e che, anche nelle lingue ampiamente modificate dall’artificio e dalla convenzione, sussista una parte importante di simbolismo, e d'un simbolismo naturalmente adeguato. In altri termini, basterebbe infatti constatare che certe consonanze, che possono solo eventualmente corrispondere al pedigree di fatto delle parole, offrono nondimeno svariate indicazioni sulle loro affinità e significati: proprio come quando riscontriamo certe somiglianze, sia fisiche che di carattere, al di fuori d'una linea di discendenza diretta. Tutto ciò differisce enormemente dalla concezione corrente delle «etimologie popolari»: non si tratta infatti di etimologie in senso stretto, ma piuttosto di assonanze significative (12); e, in tutti i casi, se proprio si vuole parlare d'una tradizione «popolare», questa tradizione concerne il popolo unicamente per la sua trasmissione e non certo per la sua origine; il folk-lore e la philosophia perennis provengono da una fonte comune.
    Ignorare il nirukta equivale a porsi inutilmente in uno stato d'inferiorità nell'affrontare l'esegesi di testi tradizionali. Si osservi, al contrario, l'atteggiamento molto più intelligente di Omikron: «Cambiando opinione mi misi a consultare costantemente tutti gli anti chi lessici e frammenti lessicali che potei procurarmi, poiché ritenevo che, in questi primi dizionari ellenici, gli antichi saggi avessero raccolto diversi significati esatti, nonché svariate indicazioni riguardanti le espressioni simboliche ed allegoriche. Una particolare attenzione accordai alla strana Hermeneia degli antichi grammatici, ritenendo che le loro interpretazioni fossero basate su valide ragioni, anche quando, come fanno generalmente, diverse sono le spiegazioni che danno per la stessa parola». Non si può pretendere che le relazioni esistenti tra i suoni ed i significati vengano seriamente studiate nell'epoca moderna, anche solo in modo puramente empirico; abbiamo infatti avuto modo di constatare, come testimonia Macdonell, che «il sistema non ha finora meritato l'attenzione degli eruditi europei». Anche se ricerche del genere sono state tentate con risultati incerti o negativi, ciononostante resterà pur sempre vero che l'ermeneutica (nirukta), com'è stata effettivamente praticata dagli autori dell'antichità, ci fornisce un aiuto inestimabile per la comprensione del senso dei simboli verbali di cui da la spiegazione.
    I termini impiegati nelle Scritture tradizionali hanno quasi sempre un carattere eminentemente tecnico e racchiudono tanti significati, corrispondenti a diversi gradi d'approfondimento, che lo stesso «nominalista» dovrebbe, dal punto di vista della semantica, sentirsi debitore dell'ermeneuta.

    Note

    * Pubblicato sul n° 10 della Rivista di Studi Tradizionali del 1964, traduzione di Ubaldo Zalino.

    1 Cioè «in voi », nel senso dell'espressione evangelica «In voi è il Regno dei Cieli ».

    2 L'autore del Nirukta, raccolta di spiegazioni ermeneutiche, che può considerarsi il più antico commentario del Rig-Veda a noi pervenuto.

    3 Lo spazio situato tra il Cielo e la Terra, l'essere ed il nonessere, la luce e l'oscurità, l'essenza e la natura, è precisamente il «luogo dei possibili », la «terra promessa» di ogni nascita e divenire.

    4 Standish Hayes O'Grady, Silva Gadelica, I892, II, V.

    5 René Guénon, La Crise du Monde moderne, I927, pago 103.

    6 L'« eternità del Veda» viene talvolta mal compresa. «Eterno» vuoI dire «senza durata », «fuori dal tempo» (akâla) e quindi « sempre presente ». L'« eternità» della tradizione non ha niente a che vedere con l'assegnazione d'una data ad una Scrittura, cosÌ come avviene per un'opera letteraria. Secondo un'espressione di S. Tommaso, «Il Verbo divino è eterno, e lo è pure l'atto col quale è scritto il Libro della Vita, anche se la sua promulgazione, dal punto di vista di chi ascolta o legge, non è sempiterna » (Summa, I, II, 9I, art. I, 2).
    7 Vedere il mio articolo «Vedic Exemplarism» nel Haward Journal 01 Asiatic Studies, 1936.

    8 «Quando i nomi ancora non erano, né v'era segno d'una esistenza dotata d'un nome» (Djellàleddîn-Rumî, Diwan-i-Shams-i-Tabriz, XVII, trad. Nicholson).

    9 È per noi del tutto normale considerare «i nomi come le conseguenze delle cose» (Aristotile, citato da Dante nella Vita Nuova), perché la nostra conoscenza delle cose non è quella dell'essenza, ma quella degli accidenti; nella nostra aspirazione verso la conoscenza dell'essenza, i nomi rappresentano un mezzo per arrivarvi e non dovrebbero venir confusi con la conoscenza stessa. Non si dimentichi tuttavia che, dal punto di vista del Creatore, cioè quella «potenza più che umana» di cui parla Platone, sono i nomi ad aver preceduto le cose, quelle stesse cose che erano da Lui conosciute già prima che fossero; questa «prescienza» (in sanscrito prajna, nel greco degli Gnostici prognosis) è « anteriore» alle cose non in un senso temporale, ma nel senso che, non essendo derivata dalle cose, è la causa della loro esistenza. Per Lui che già possiede la conoscenza dell'essenza, nominare è la stessa cosa che creare. Dal punto di vista dello « Spirito primordiale », «le cose sono le conseguenze dei no~i». Cfr. Baynes, A coptic Gnostic Treatise, 1933, pago 30: «Gli Gnostici con "l'enunciazione del nome" intendevano la manifestazione dei caratteri distintivi e delle qualità essenziali di un essere; la forma, nel senso metafisico della parola, era in tal modo conferita all'essere che veniva a trovarsi imprigionato, per cosi dire, nei . limiti della sua propria natura, quella stessa natura che era stata definita per effetto dell'" enunciazione del nome" ».

    10 Di là dal non-manifestato (avyakta, cioè Prakriti), secondo il commento di Shankaracharya.

    11 E quindi, secondo il dire d'uno studioso moderno, «esse non hanno per noi senso alcuno, né possono essere considerate oggetti di conoscenza» (Keith, Aitaréya-Aranyaka, 1909, pago 42). Ma questa « conoscenza» è proprio ciò che corrisponde al sanscrito avidya, poiché si tratta d'una conoscenza relativa o d'una «opinione », intesa come distinta dalla certezza. Se «il sistema (della Pûrva-Mimansa) non ha finora meritato l'attenzione degli eruditi europei» non è perché, come ritiene Macdonell, la teoria del suono sia priva d'ogni interesse filosofico (o meglio, metafisico), ma piuttosto perché lo studioso moderno non s'interessa ai princìpi ma solo ai «fatti », non alla verità ma a certe predizioni globali basate sulla probabilità. E queste considerazioni valgono nei confronti di qualsiasi altra scienza tradizionale. Ogni tradizione ci propone i mezzi più appropriati per incamminarci verso 1'« esperienza assoiuta ». Chi non si preoccupa di utilizzare questi mezzi non può poi mettersi a negare che conducono, come s'afferma, a un Principio, che è precisamente anirukta, che non è una cosa e che non è qui o là, e nello stesso tempo è fonte di tutte le cose ed è ovunque presente. Ciò che maggiormente ripugna al nominali sta è che, una volta ammessa la possibilità d'una « esperienza assoluta », non se ne può fornire una dimostrazione razionale in un'aula universitaria, né è possibile un controllo sperimentale. Si tratta d'un caso del tutto simile a quello del Cogito ergo sum, che può rappresentare per ogni individuo una prova sufficiente della sua esistenza cosciente, mentre che nessuna prova di questa esistenza può essere portata al solipsista, non potendo quest'ultimo conoscere per intuizione diretta la coscienza di un'altra « persona ».

    12 Cfr., per esempio, René Guénon, L'Esotérisme de Dante, 1925, pago 92, nota 2: «Non pretendiamo che vi sia tra i termini Agnus e Ignis (equivalente latino di Agni) qualche cosa di più di quelle similitudini fonetiche alle quali abbiamo accennato in precedenza, le quali pur non corrispondendo a nessuna parentela linguistica propriamente detta, tuttavia non sono puramente accidentali ».

    13 Omikron, Letters from Paulos, London, 1920, Introduzione.
    Ultima modifica di zucchetta; 29-12-11 alle 18:20
    ci si rivede, forse.

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    Predefinito Rif: il sanscrito

    Ho comprato il (credo unico) dizionario italiano-sanscrito <> sanscrito-italiano edito da Antonio Vallardi editore.

    Maneggevole e ben fatto, sicuramente utilissimo per un'iniziale analisi dei vocaboli.

    Rayo non esiste, ma esiste Raya (corrente di fiume, movimento veloce) e Rayi (proprieta', tesoro, ricchezza).

    Ultima modifica di RAYO; 29-12-11 alle 20:53
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  6. #6
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    Predefinito Rif: il sanscrito

    Sanskrit Heritage Dictionary

    è in francese ed è molto completo, un po' elaborato per cercare i termini perché non accetta i lemmi con i segni della traslitterazione diacritica ma cercando ci si arriva
    ci si rivede, forse.

  7. #7
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    Predefinito Rif: il sanscrito

    ci si rivede, forse.

  8. #8
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    Predefinito Rif: il sanscrito

    Citazione Originariamente Scritto da El rayo Visualizza Messaggio
    Ho comprato il (credo unico) dizionario italiano-sanscrito <> sanscrito-italiano edito da Antonio Vallardi editore.
    Maneggevole e ben fatto, sicuramente utilissimo per un'iniziale analisi dei vocaboli.
    C'è anche questo, ma ha un costo decisamente alto ed è solo sanscrito>italiano.

    Citazione Originariamente Scritto da Regina di Coppe Visualizza Messaggio
    A chi conosce l'inglese e ha tempo e voglia di imparare gratuitamente da autodidatta le basi di questa lingua
    Learn Sanskrit through Self Study
    Ho letto che la grammatica di Carlo Della Casa sia un ottimo strumento per chi vuol iniziare a studiare questa lingua affascinante.
    Io ho la vecchia Mc Donnel, sempre valida ma, purtroppo, stampata con caratteri tipografici grossolani che rendono poco chiaro il riconoscimento del devanagari.
    Ultima modifica di Ivan; 30-12-11 alle 21:36

  9. #9
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    Predefinito Rif: il sanscrito

    Grazie per le segnalazioni.
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  10. #10
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    Predefinito Sanscrito e grammatica

    Citazione Originariamente Scritto da El rayo Visualizza Messaggio
    Il vedico è una lingua senza grammatica, il sanscrito una grammatica senza lingua.

    W. D. Whitney
    sarà anche una perla ma a me sembra un'affermazione del tutto arbitraria, da orientalista che trancia giudizi dall'alto
    ci si rivede, forse.

 

 
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