Eritrea, l’Italia finanzia la più feroce dittatura africana
Un lager a cielo aperto, senza scampo: fame e terrore, leva obbligatoria, deportazioni di massa. Chi scappa e viene acciuffato, finisce rinchiuso in un conteiner nel deserto. Chi riesce a imbarcarsi per Lampedusa e ad evitare il “respingimento”, una volta in Italia sa che dovrà racimolare 3.300 dollari da mandare in patria per riscattare i familiari, nel frattempo arrestati e torturati dal più feroce regime africano, quello dell’Eritrea. Una dittatura brutale, accusa “L’Espresso”, che da qualche anno si regge sul decisivo sostegno dell’Italia, grazie ad accordi speciali di cooperazione, di cui beneficiano imprese lombarde, emiliane e campane.
Il bilancio dei diritti umani in Etritrea è spaventoso: il dittatore Isaias Afewerki, ultimo despota comunista del continente africano, secondo l’Onu supera in ferocia persino la Corea del Nord. Da solo, nel 2008 ha incrementato del 10% gli sbarchi di disperati a Lampedusa, con quasi 3.000 richieste di asilo. «Dopo l’accordo con Gheddafi – scrivono Fabrizio Gatti e Claudio Pappaianni – la politica estera italiana ora punta all’ex colonia: meno di cinque milioni di abitanti, costo della manodopera quasi a zero grazie ai lavori forzati e chilometri di spiagge sul Mar Rosso», da cui un giorno far concorrenza a Sharm El Sheik attraverso gli hotel del futuro polo turistico di Ghelalo.
Imponente, scrive “L’Espresso”, la presenza italiana ad Asmara: dalla Italcantieri (già di Paolo Berlusconi) alla Oma Sud di Capua, che produce aerei da ricognizione. In prima fila la Regione Lombardia, Comunione e Liberazione, la Cmc di Ferrara, gli aiuti della Regione Toscana. Le commesse eritree sono sostenute dal governo di Asmara, anche attraverso denaro europeo: un finanziamento di 122 milioni di euro è stato concesso da Bruxelles grazie alla mediazione italiana. Un gruppo tessile di Bergamo ha beneficiato di un contributo di 60 milioni della Simest, la finanziaria (pubblica) del ministero dello sviluppo economico, cinghia di trasmissione degli affari italiani in Eritrea.
Nessun imbarazzo, da Roma, per le relazioni economiche e anche politico-diplomatiche con la feroce dittatura africana. Il regime, continua “L’Espresso”, controlla gli esuli persino in Italia, «attraverso una spietata rete di informatori». L’ambasciata di Roma e il consolato di Milano avrebbero schedato giornalisti, politici e imprenditori. «Quando atterranno in Italia, Afewerki e i suoi ministri sono liberi di muoversi ovunque», tra Roma e Caserta, a caccia di buoni affari: costruzioni e alberghi, per l’imprenditoria della Campania che vuole investire nel futuro turismo eritreo.
Nata nel 1991 dopo trent’anni di conflitto con l’Etiopia, l’Eritrea di Afewerki – ieri eroe dell’indipendenza nazionale, oggi tiranno spietato – è un paese allo stremo. «Il governo si è trasformato in un regime monopartitico e autoritario», scrive Emilio Manfredi sempre su “L’Espresso”. «Ha chiuso tutti i media indipendenti, ha espulso quasi tutte le agenzie umanitarie e rifiuta gli aiuti alimentari internazionali». Repressa ogni forma di opposizione religiosa e politica. «L’Eritrea è un paese pieno di gente disperata, che sopravvive a stento e ha paura a parlare».
Degli 11 leader dell’opposizione arrestati nel 2001, secondo alcune ong solo tre di loro sarebbero sopravvissuti alle disumane condizioni di detenzione. Ora alla liquidazione degli oppositori contribuisce la comunità internazionale: i giovani fuggiaschi intercettati al largo della Sicilia vengono “respinti” in Libia, dove a farli sparire per sempre – o a restituirli al lager eritreo di Sawa – provvede la polizia di Gheddafi. Mentre, a due passi dal filo spinato, avanza il business del made in Italy, sorretto da contributi pubblici e lavoratori-schiavi.
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