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    Predefinito Rivoluzioni 'colorate' in Nord Africa?

    LA RIVOLTA IN TUNISIA: UN’ALTRA OPERAZIONE SOROS/NED?
    Data: Lunedì, 24 gennaio @ 17: 10 : 00 CST
    Argomento: Africa

    DI K.R.BOLTON
    foreignpolicyjournal.com

    Manifestazioni “spontanee” di giovani che sciamano nelle strade con tale forza da costringere alla fuga un presidente in carica da anni... Di quale paese stiamo parlando: Georgia, Serbia, Myanmar [1], Ucraina, Polonia, Cecoslovacchia, Iran, Ungheria...? Stavolta tocca alla Tunisia. Tutte queste “rivolte” seguono lo stesso canovaccio. La rivolta tunisina viene già definita “rivoluzione colorata” dai media e dai sapientoni della politica e le è stato perfino assegnato un nome: “Rivoluzione dei Gelsomini” [2], come le abortite rivoluzioni “Verde” e “Zafferano” e come le rivoluzioni “di Velluto”, “delle Rose”, “Arancione”, “dei Tulipani”, ecc., che hanno invece avuto successo.

    Queste “rivoluzioni colorate” hanno uno schema comune perché sono tutte progettate dagli stessi strateghi; e cioè dalla rete Open Society dello speculatore George Soros, che fa le veci di un moderno Jacob Schiff [3] nel finanziare rivoluzioni; e dalla National Endowment for Democracy, quest’ultima una fondazione post-trotzkista, finanziata dal Congresso, una specie di “Comintern” che promuove “rivoluzioni democratiche nel mondo” al servizio della plutocrazia e sotto la maschera della libertà.


    A seguito: "LA TUNISIA E I DIKTAT: COME LA POLITICA ECONOMICA PROVOCA LA POVERTA' E DISOCCUPAZIONE IN TUTTO IL MONDO" (MICHEL CHOSSUDOVSKY, globalresearch.ca); "WASHINGTON AFFRONTA L'IRA DEL POPOLO TUNISINO" (THIERRY MEYSSAN, voltairenet.org); "IL “FUSIBILE” BEN ALI E I FURBACCHIONI OCCIDENTALI" (ALBERTO B.MARIANTONI, mirorenzaglia,org);

    Ecco alcuni scenari tipici delle “rivoluzioni colorate”. Confrontateli con i caratteri della “Rivoluzione dei Gelsomini” e con i finanziamenti forniti dalla National Endowment for Democracy agli “attivisti tunisini”, come vengono descritti più avanti:


    “[l’Open Society Institute di Soros]... inviò in Serbia un attivista trentunenne di Tbilisi di nome Giga Bokeria per incontrarsi con membri del movimento Otpor (Resistenza) e imparare da loro in che modo avessero sfruttato le manifestazioni di piazza per rovesciare il dittatore Slobodan Milosevic. Poi, durante l’estate, la fondazione di Soros pagò agli attivisti dell’Otpor un viaggio in Georgia, dove costoro tennero corsi della durata di tre giorni ciascuno per insegnare a più di 1.000 studenti come mettere in scena una rivoluzione pacifica. [4]


    Nel commentare la “Rivoluzione di Velluto” che aveva appena colpito la Georgia, MacKinnon descrisse le operazioni che erano state poste in atto e che seguivano lo stessa schema visto in altre nazioni prese di mira da Soros [5]:

    Il Liberty Institute che Bokeria aveva contribuito a fondare divenne uno strumento per organizzare le proteste di piazza che alla fine costrinsero Shevardnadze a rassegnare le dimissioni. Bokeria afferma che fu a Belgrado che egli comprese l’importanza dell’acquisire e mantenere una posizione di superiorità morale e fu lì che imparò a sfruttare la pressione dell’opinione pubblica; tattiche che si sono rivelate molto persuasive anche nelle strade di Tbilisi, dopo le elezioni parlamentari truccate di questo mese.

    A Tbilisi, il legame con l’Otpor è visto come soltanto uno di molti esempi del considerevole appoggio fornito da Soros al movimento anti-Shevardnadze: egli ha contribuito anche a fondare un’emittente televisiva di opposizione popolare che è stata di cruciale importanza per mobilitare i sostenitori della “Rivoluzione di Velluto” di questa settimana; inoltre ha fornito supporto finanziario ai gruppi giovanili che hanno guidato le proteste di piazza [6].

    La NED e Soros lavorano in tandem, prendendo di mira gli stessi regimi ed utilizzando gli stessi metodi. Il presidente della NED, Carl Gershman, scrivendo delle centinaia di ONG che lavorano per i “cambi di regime” nel mondo, dedica un tributo particolare alla Fondazione Ford e “alle fondazioni istituite dal filantropo George Soros” [7].

    Seguire il denaro

    Come recita il noto adagio, se volete capire chi è a capo di qualcosa, seguite la traccia del denaro. Osservando i finanziamenti erogati dalla NED nel 2009 (ultimi dati disponibili) troviamo quanto segue:

    Al-Jahedh Forum for Free Thought (AJFFT) $131,000

    Per rafforzare le capacità dei giovani attivisti tunisini e costruire una cultura della democrazia. L’AJFFT promuove incontri di discussione su problemi contemporanei legati all’Islam e alla democrazia, dibattiti tra studiosi arabi su problemi sociali, conferenze sull’Islam, sulle politiche economiche e sulle relazioni internazionali e incontri di presentazione editoriale. L’AJFFT organizza tirocini di formazione alla leadership, sostiene progetti culturali della gioventù locale...” [8]

    Lo scopo è fin troppo chiaro: creare una schiera di giovani attivisti attraverso i “tirocini di formazione alla leadership”. Ancora una volta, si tratta esattamente della stessa strategia utilizzata dalla NED e da Soros in altre nazioni infettate dalle “rivoluzioni colorate”. Esattamente la stessa.

    Associazione per la Promozione dell’Educazione (APES) $27,000

    Per rafforzare la capacità degli insegnanti tunisini delle scuole superiori di promuovere valori democratici e civili all’interno delle loro classi. L’APES organizzerà tirocini di formazione degli insegnanti per 10 professori universitari e ispettori scolastici e terrà tre seminari di rafforzamento delle capacità, della durata di due giorni, per 120 insegnanti di scuole superiori, riguardanti gli approcci pedagogici per la diffusione dei valori civili e democratici. Attraverso tale progetto, l’APES intende introdurre nel sistema educativo secondario della Tunisia i valori della tolleranza, del relativismo e del pluralismo. [9]

    Il programma sembra avere lo scopo di diffondere la base dottrinaria per la rivoluzione; i “valori democratici e civili” sono presumibilmente quelli della post-sinistra propagandati da Soros e dalla NED, cioè valori che generalmente vanno contro le tradizioni delle società in cui operano Soros e la NED.

    Mohamed Ali Center for Research, Studies and Training (CEMAREF) $33,500

    Per addestrare un gruppo scelto di giovani attivisti tunisini alla leadership e alle abilità organizzative e per incoraggiare il loro coinvolgimento nella vita pubblica. Il CEMAREF organizzerà un corso intensivo di addestramento alla leadership e all’acquisizione di capacità organizzative della durata di quattro giorni per 10 giovani attivisti civili tunisini; addestrerà inoltre 50 attivisti, di sesso maschile e femminile e di età compresa tra i 20 e i 40 anni, alla leadership e al potenziamento decisionale; e lavorerà con gli attivisti addestrati eseguendo 50 visite pratiche alle loro rispettive organizzazioni [10].

    In questo caso, la terminologia non ricorre neppure agli eufemismi: “Addestrare un gruppo scelto di giovani attivisti tunisini...”. Non è forse lecito sospettare che l’intenzione sia quella di costituire una giovane élite rivoluzionaria finalizzata al “cambio di regime”, seguendo esattamente lo stesso schema utilizzato per orchestrare le “rivoluzioni colorate” nei paesi ex sovietici e altrove?

    Visto l’acuto interesse manifestato dalla NED verso la Tunisia, è ingenuo pensare che la “Rivoluzione dei Gelsomini” sia una semplice “manifestazione spontanea di rabbia popolare” e che non sia stata pianificata con largo anticipo, attendendo l’evento che facesse da catalizzatore.

    Le organizzazioni appena citate ed altre, hanno ricevuto dalla NED i finanziamenti indicati di seguito insieme agli anni di riferimento:

    2006: Al-Jahedh Forum for Free Thought (AJFFT), $51,000; American Center for International Labor Solidarity, $99,026, il cui scopo è quello di coltivare relazioni con il giornalismo tunisino; Arab Institute for Human Rights (AIHR) $37,500, per addestrare un gruppo scelto di insegnanti sul tema dei “valori civici”;” Committee for the Respect of Freedom and Human Rights in Tunisia (CRLDH) $70,000, per richiedere l’amnistia di prigionieri politici; e

    Mohamed Ali Center for Research, Studies and Training (CEMAREF) $39,500

    Per addestrare 50 attivisti, di sesso maschile e femminile e di età compresa tra i 20 e i 40 anni, alla leadership. L’organizzazione terrà cinque seminari della durata di quattro giorni ciascuno, ognuno destinato a dieci attivisti, sulle tecniche della leadership, inclusi decision making, time management, risoluzione dei conflitti, problem solving e comunicazione. Il CEMAREF seguirà l’addestramento con visite in loco ai gruppi d’appartenenza degli allievi allo scopo di valutare i risultati. [11]

    2007: L’AJFFT ha ricevuto 45,000$. L’Arab Institute for Human Rights ha ricevuto 43,900$ per addestrare insegnanti a diffondere l’ideologia dei cosiddetti “valori civici”, focalizzandosi sulle scuole primarie e sottoponendo all’addestramento anche gli ispettori scolastici. Il Center for International Private Enterprise (CIPE) ha ricevuto 175, 818$ per inculcare la dottrina della libera impresa tra gli uomini d’affari tunisini, il che rivela a cosa stia realmente mirando la NED con la sua promozione di “democrazia e valori civici”: la globalizzazione. Il summenzionato Mohamed Ali Center for Research, Studies, and Training ha ricevuto 38,500$ nel 2007. Inoltre, nello stesso anno:

    Moroccan Organization for Human Rights (OMDH) $60,000

    Per motivare un gruppo di giovani avvocati tunisini a mobilitare i cittadini sul tema delle riforme. OMDH provvederà ad addestrare un gruppo di 20 avvocati tunisini alla mobilitazione civica e fornirà loro supervisione ed assistenza per implementare i loro progetti di mobilitazione.[12]

    2008: L’Al-Jahedh Forum for Free Thought ha ricevuto 57,000$; il Center for International Private Enterprise, 163,205$; il Centre Mohamed Ali de Reserches d’Etudes et de Formation, 37,800$; il Tunisian Arab Civitas Institute, 43,000$, con la finalità di formare insegnanti sulle ideologie dei “valori civici” care alla NED. [13]

    C’è bisogno di essere più espliciti? La NED ha sostenuto in Tunisia, come in altre zone del mondo, gruppi rivoluzionari composti da giovani e da professionisti allo scopo di rovesciare un regime visto come un’anomalia nel contesto del “new world order”. Per quanto i regimi presi di mira possano spesso essere deprecabili, la retorica della “democrazia”, dei “valori civici” e della “società aperta” propagata dalla NED, da Soros e dalla miriade di funzionari e istituzioni sparsi per il mondo, è nient’altro che una truffa propagandistica, progettata, come sempre accade in queste circostanze, per distogliere l’attenzione dalle reali cause e finalità delle “sollevazioni spontanee”. I commentatori stanno già sottolineando l’impeto della “rivolta spontanea” ad opera delle “organizzazioni della società civile”, il che è un eufemismo per riferirsi alle organizzazioni sponsorizzate dalla NED e da Soros: “...In tal modo, un’ampia coalizione di organizzazioni della società civile ha riunito insieme le rivendicazioni occupazionali con esigenze che concernono la questione della legalità e quella dei diritti umani...”. [14]

    Le “rivoluzioni colorate” devono molto al patrocinio offerto alle reti di comunicazione anti-regime, con finanziamenti diretti a stazioni radio e televisive, come nell’esempio relativo alla Georgia menzionato più sopra. Nel caso della Tunisia, questo compito sembra essere stato assegnato a Radio Kalima. Se ne è occupata l’organizzazione “International Media Support” che, dopo i raid della polizia del gennaio 2009, ha iniziato ad operare al di fuori della Tunisia. Per citare le parole del direttore della radio, Sihem Bensedrine:


    “I finanziamenti offerti da International Media Support e dall’Open Society Institute ci hanno consentito di pagare i nostri giornalisti e di mantenere un gruppo di lavoro stabile. Questo rende la nostra radio più forte e più efficiente”. [15]

    La manipolazione del dissenso

    Lo sfruttamento delle masse per avallare interessi finanziari non è certo un fenomeno nuovo. Esempi noti di “rivoluzioni borghesi” organizzate in nome degli umili sono quelli della rivoluzione inglese di Cromwell e della Rivoluzione Francese. Oswald Spengler fa risalire il fenomeno all’antica Roma:

    “Le idee del Liberalismo e del Socialismo vengono poste concretamente in atto solo tramite il denaro. Fu il ricco partito degli equites a rendere possibile il movimento popolare di Tiberio Gracco; e non appena la parte di riforma ad essi vantaggiosa fu trasformata in legge con successo, essi si ritirarono e il movimento si disgregò”. [16]

    La “Nuova Sinistra” ha perseguito gli stessi scopi nel corso degli anni ’60 e ’70, adottando strategie simili a quelle delle odierne “rivoluzioni colorate” e degli altri progetti sponsorizzati da Soros, dalla NED, ecc. Questi “ribelli” che si opponevano all’”Establishment”, tra i quali si annoverano femministe come Gloria Steinem [17] e guru psichedelici come Timothy Leary [18], erano in realtà leccapiedi della CIA, sostenuti fin dall’inizio dai ricchi padroni. Gli studenti radicali che protestavano negli anni ’60 erano manipolati da interessi simili a quelli che oggi sponsorizzano i “manifestanti” delle “rivoluzioni colorate”; si va dalla National Student Association americana, finanziata dalla CIA [19], fino alla Students for a Restructured University, finanziata dalla fondazione Ford e affiliata alla SDS (Students for a Democratic Society) [20]. Se l’ “Establishment” ha in realtà finanziato, decenni or sono, i suoi presunti nemici giurati come parte di un programma di manipolazione dialettica – e le fonti non sono difficili da controllare – non c’è da sorprendersi che anche al giorno d’oggi sia in atto una manipolazione globale, fondata su idee similari, diretta a soggetti similari e mossa da similari interessi.

    National Endowment for Democracy

    La National Endowment for Democracy è stata fondata nel 1983 su interessamento dell’attivista post-trotzkista Tom Kahn e opera sotto il patrocinio del Congresso e della grande finanza americana allo scopo di promuovere quella “rivoluzione globale” che era negli ideali di Trotzky e del presidente americano Woodrow Wilson, suo contemporaneo. La NED persegue un programma di “iniziative democratiche” (sic) ed opera in Polonia (attraverso il sindacato Solidarność), in Cile, in Nicaragua, in Europa Orientale (per agevolare la transizione alla democrazia dopo il crollo del blocco ex sovietico), in Sudafrica, in Birmania, in Cina, in Tibet, in Corea del Nord e nei Balcani. “Gli sconvolgimenti elettorali avvenuti in Serbia dell’autunno 2000” furono ottenuti attraverso il finanziamento di “una quantità di gruppi civici”. “Più di recente, dopo l’11/9 e dopo l’adozione da parte del consiglio direttivo della NED del suo terzo documento strategico, finanziamenti speciali sono stati offerti ai paesi a maggioranza musulmana in Medio Oriente, Africa e Asia”. [21]

    Almeno 10 dei ventidue direttori della NED sono anche membri del Council on Foreign Relations, il noto think tank plutocratico, e tra di essi vi sono alcuni direttori dei programmi del CFR [22]. Ad esempio Carl Gershman, fondatore e presidente della NED, viene annoverato come membro del Comitato Programmi di Washington nell’esecutivo del CFR.[23] Tra i membri del CFR che fanno anche parte della dirigenza della NED possiamo citare: Nadia Diuk, Vice Presidente, Programmi: Africa, Europa Centrale ed Eurasia, America Latina e Caraibi; e Louisa Greve, Vice Presidente, Programmi: Asia, Medio Oriente & Nord Africa, nonché membro temporaneo del progetto del CFR sulla sicurezza nazionale USA “Nuove Minacce in un Mondo in Trasformazione”.[24]

    La risposta statunitense

    Sebbene alcuni entusiasti sostenitori della “società aperta” abbiano lamentato l’apparente ritrosia degli Stati Uniti nel criticare l’ex presidente tunisino, Ben Ali, ciò che si recita – o non si recita – sul palcoscenico globale è in genere un riflesso assai pallido degli eventi che si svolgono dietro le quinte. L’establishment statunitense non ha certo mostrato alcuna simpatia per Ben Ali nel momento cruciale.

    Il “Progetto per la Democrazia in Medio Oriente”, un altro think tank che si dedica a indicare alle nazioni come debbano governare se stesse “alla maniera americana”, riporta una reazione degli ambienti ufficiali USA per bocca di Michael Posner, assistente segretario di Stato nel Dipartimento per la Democrazia, i Diritti Umani e il Lavoro; costui, rispondendo a un inviato del giornale egiziano AlMasry AlYoum:

    “...ha parlato delle violenze in Egitto e in Tunisia e di come gli Stati Uniti dovrebbero concretamente rapportarsi con quei governi che definiscono “interferenze” le critiche provenienti dall’estero... Gli Stati Uniti, egli ha affermato, perseguono con i paesi come Egitto e Tunisia una politica su più livelli, allo scopo di relazionarsi in modo efficace con i loro governi e allo stesso tempo sostenere gli esponenti della società civile in questi paesi. [Elliott] Abrams ha invece dichiarato che gli Stati Uniti dovrebbero avere con paesi come l’Egitto e la Tunisia una politica su un unico livello, che preveda conseguenze molto gravi per quei capi di Stato che ignorano gli appelli alle riforme e al rispetto dei diritti umani. Se si continuano a perseguire le attuali linee politiche, quei governi penseranno di potere “farla franca” e continueranno a vanificare gli sforzi di riforma e a reprimere il dissenso”. [25]

    Elliott Abrams, citato più sopra, è noto per essere stato uno dei globalisti neocon dell’amministrazione di George W Bush, consigliere di sicurezza nazionale per il Medio Oriente ed entusiasta sostenitore dei “cambi di regime” attuati con l’uso di bombe e milizie americane, laddove la manipolazione delle folle non avesse funzionato. Oggi è membro anziano per gli Studi sul Medio Oriente nel Council on Foreign Relations e, com’era lecito aspettarsi, Abrams è entusiasta degli idealistici eventi verificatisi in Tunisia [26], vista la prospettiva che un nuovo stato-cliente degli USA emerga dalle idealistiche azioni dei soliti “utili idioti”. Mentre l’inerme Ben Ali era in procinto di cadere, Hillary Clinton ha spiegato al Medio Oriente che Washington “non avrebbe assunto posizioni”, ma poi si è prontamente esibita in una predica rivolta agli stati arabi su ciò che l’America si aspetta da loro. The Christian Science Monitor ha osservato che Ben Ali è fuggito il giorno seguente. Al “non assumere posizioni”, ha immediatamente fatto seguito una dichiarazione della Clinton – altro membro progettista del CFR – secondo la quale il presidente Obama salutava “il coraggio e la dignità del popolo tunisino”, aggiungendo che gli Stati Uniti si univano al resto del mondo “nella testimonianza di questa lotta coraggiosa e determinata...”. Il resoconto diceva esplicitamente che la Clinton stava “mandando un avvertimento” (sic) ai leader mediorientali affinché meditassero sulla rivolta tunisina, per evitare di subire la stessa sorte. “Le parole pronunciate dalla Clinton giovedì scorso fanno eco ad opinioni ben più severe espresse dietro le quinte da funzionari statunitensi...”.

    “Coloro che si aggrappano allo status quo, possono riuscire ad evitare il pieno impatto con i problemi dei loro paesi per qualche tempo, ma non in eterno”, ha dichiarato la Clinton. Queste parole si sono rivelate profetiche per la Tunisia di Ben Ali, ma sono anche state interpretate da molti esperti della regione come riferibili allo stesso presidente egiziano Hosni Mubarak, antico alleato degli USA, ma ormai ottuagenario e al potere da quasi 30 anni”. [27]

    Può sembrare un paradosso che le stesse persone che denunciano le invasioni americane di nazioni come la Serbia e l’Iraq per imporre “cambi di regime” con la forza delle armi, siano invece entusiaste dei “cambi di regime”, attuati nell’interesse dell’egemonia globale americana, quando essi sono condotti da giovani e da professionisti manipolati per ottenere gli stessi risultati attraverso la “protesta spontanea” (sic). Le “rivoluzioni colorate” sono tanto fasulle quanto le loro antenate gestite dalla “Nuova Sinistra”. Naturalmente la desiderabilità di questi cambi di regime dipende dal punto di vista. Sul lungo periodo, potrebbe anche accadere che nel nome della “democrazia”, così come era avvenuto per lo slogan “Liberté, Égalité, Fraternité” della Rivoluzione Francese, per “Tutto il potere ai Soviet” della Rivoluzione Bolscevica e per “Tutti gli animali sono uguali...”, si stia in realtà compiendo un passo ulteriore verso una tirannia molto più feroce di quella che si desiderava rovesciare.


    Versione originale:

    Dr. K R Bolton
    Fonte:Foreign Policy Journal
    Link: Tunisian Revolt: Another Soros/NED Jack-Up? | FPJ
    18.01.2011

    Versione italiana:

    Fonte: Blogghete!
    Link: NUOVE RIVOLUZIONI COLOR MERDA
    24.01.2011

    Traduzione a cura di GIANLUCA FREDA

    Note


    [1] Open Society Institute, The Burma Network, SE Asia Initiative. About This Initiative | Burma Project/Southeast Asia Initiative | Open Society Foundations


    [2] Ad esempio: “A Successful Jasmine Revolution, but what next for Tunisia?”, New Statesman, 15 gennaio 2011.


    [3] Robert Cowley, “A Year in Hell,” America and Russia: A Century and a Half of Dramatic Encounters, ed. Oliver Jensen (New York: Simon and Schuster, 1962), pp. 92- 121. Schiff, comproprietario della Kuhn Loeb and Co., finanziò George Kennan per organizzare la ribellione di 50.000 soldati russi in Giappone durante la guerra russo-giapponese e fornì ulteriore supporto anche alla rivoluzione russa del 1917.


    [4] M McKinnon, “Georgia revolt carried mark of Soros”, Globe & Mail, November 26, 2003, This page is available to GlobePlus subscribers


    [5] L’associazione Internet Access & Training Program (IATP) di Soros fu istituita come fronte per la creazione di nuovi leader in Bielorussia, Armenia, Azerbaijan, Georgia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Turkmenistan e Uzbekistan. In Serbia, venne finanziato l’Otpor. Il premio in palio era Trepca in Kosovo, una vasta riserva di oro, argento, piombo, zinco e cadmio.


    In un articolo pubblicato sul New Statesman, Neil Clark ha affermato che Soros ha avuto un “ruolo cruciale” nel collasso del blocco sovietico. Fin dal 1979 Soros aveva dato milioni di dollari a Solidarność in Polonia, a Charter 77 in Cecoslovacchia e nel 1984 aveva fondato un suo Ufficio d’Influenza Strategica in Ungheria, “pompando milioni di dollari verso i movimenti d’opposizione.” “Apparentemente finalizzate a costruire una nuova ‘società civile’, queste iniziative erano in realtà progettate per indebolire le strutture politiche esistenti e aprire la strada all’eventuale colonizzazione dell’Europa dell’Est da parte del capitale globale”. Neil Clark, “Soros toppled governments in Poland, Czechoslovakia, Hungary,” New Statesman, 2 giugno 2003.


    [6] M MacKinnon, op.cit.


    [7] Carl Gershman, “Building a Worldwide Movement for Democracy: The Role of Non-Governmental Organizations”, U.S. Foreign Policy Agenda, Vol. 8, No. 1, August 2003. NED: Building a Worldwide Movement for Democracy: The Role of Non-Governmental Organizations | NED


    [8] National Endowment for Democracy, 2009 Grants: Tunisia | NED


    [9] Ibid.


    [10] Ibid.


    [11] National Endowment for Democracy, 2006 Grants: Tunisia | NED


    [12] National Endowment for Democracy, 2007 Grants: Tunisia | NED


    [13]National Endowment for Democracy, 2008: Tunisia | NED


    [14] Christopher Alexander, “Tunisia’s Protest Wave: Where it comes form and what it means,” January 3, 2011, Council on Foreign Relations, Foreign Policy, Tunisia's Protest Wave: Where It Comes From and What It Means for Ben Ali | The Middle East Channel


    [15] Tunisia’s only independent radio station fights back,” International Media Support, Tunisia


    [16] Oswald Spengler, The Decline of The West, 1918, 1926. (London : George Allen & Unwin , 1971), Vol. 2, p. 402.


    [17] “Gloria Steinem and the CIA: C.I.A. Subsidized Festival Trips: Hundreds of Students Were Sent to World Gatherings,” The New York Times, 21 February 1967. Gloria Steinem and the CIA


    [18] Mark Riebling, “Tinker, Tailor, Stoner, Spy, Was Timothy Leary a CIA Agent? Was JFK the ‘Manchurian Candidate’? Was the Sixties Revolution Really a Government Plot?,” Osprey, 1994, Was Leary a CIA Agent?


    [19] Sol Stern: “A Short Account of International Student Politics and the Cold War with Particular Reference to the NSA, CIA, etc,” Ramparts, Marzo 1967, pp. 29-38.


    Si veda anche: Philip Agee Jr., “CIA Infiltration of Student Groups: The National Student Association Scandal”, Campus Watch, Autunno 1991, pp. 12-13, The National Student Association Scandal


    [20] Mike Marqusee, “1968 The mysterious chemistry of social change”, Red Pepper, 6 April 2008, cache:Qu0dvzQ7RuIJ:www.redpepper.org.uk/1968-The-Mysterious-Chemistry- - Google Search


    [21] David Lowe, ‘Idea to Reality: NED at 25: Reauthorization’, National Endowment for Democracy: History | NED

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    [22] Per una storia ufficiale ma ricca di informazioni del CFR, si veda: Peter Grose, Continuing The Inquiry: The Council on Foreign Relations from 1921 to 1996 (CFR, 1996), History of CFR - Council on Foreign Relations


    [23] “Committees of the Board 1998-1999”, CFR, http://www.cfr.org/content/about/ann...committees.pdf (Accessed 8 March 2010).


    [24] “Staff,”NED, Staff | NED (Accessed 7 March 2010). Only a few of the staff profiles are provided by NED.


    [25] “POMED Notes: Freedom in the World 2011: The Authoritarian Challenge to Democracy,” Welcome | Project on Middle East Democracy


    [26] Elliot Abrams, “Is Tunisia Next?”, CFR, Elliott Abrams: Pressure Points January 7, 2011.


    [27] “Events in Tunisia bear out Hillary Clinton’s warning to Arab world,” Christian Science Monitor, January 14, 2011, http://www.csmonitor.com/USA/Foreign...-to-Arab-world
    Ultima modifica di Giò; 25-02-11 alle 16:13

  2. #2
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    Predefinito Rif: Rivoluzioni 'colorate' in Nord Africa?

    LA TUNISIA E I DIKTAT: COME LA POLITICA ECONOMICA PROVOCA LA POVERTA' E DISOCCUPAZIONE IN TUTTO IL MONDO

    DI MICHEL CHOSSUDOVSKY
    globalresearch.ca

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l'ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore.


    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l'effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della "comunità internazionale".


    Ma Ben Ali non era un "dittatore". I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economci occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.


    L'ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano "imposti" dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI.


    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare la economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.


    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del "libero mercato". La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal "Washington Consensus".


    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.


    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.


    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una "sostituzione" del regime. L'instaurazione di un burattino politico assicura l'attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l'eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell'impoverimento di un'intera popolazione.


    Il movimento di protesta


    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L'esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l'ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.

    Dall'inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l'imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.

    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell'ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.


    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di "rompere con il passato", senza peraltro precisare se ciò significhi l'abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici


    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del "dittatore"e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.

    La prima "rivolta del pane" in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo ricaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L'eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:

    Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell'esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la "rivolta del pane". La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l'aumento dei prezzi. (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread - TIME, gennaio 1984)
    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l'impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L'agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all'inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento "per motivi di incompetenza", portando all'insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni '50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.


    Pochi mesi dopo l'insediamento di Ben Ali' a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull'istituzione di un regime di libero scambio con l'UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell'ordine di 0.75 euro all'ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l'Unione Europea.


    Chi è il dittatore?


    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall'instaurazione di Ben Ali' nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l'eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l'attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un'ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell'economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall' Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell'ordine di US$ 1.960 miliardi di USD, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.
    L'aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti.


    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un'intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l'equilibrio fiscale:

    Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l'esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell'ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni… http://www.imf.org/external/pubs/ft/...10/cr10282.pdf


    Vale la pena notare che l'insistenza del FMI sull'austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell'agribusiness. Sono il risultato di un'autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell'impoverimento globale.


    "I media hanno fuorviato l'opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l'attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l'offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell'aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …


    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.

    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una "put option" è una scommessa sul ribasso del prezzo, una "call option" è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.

    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l'instabilità che ne risulta incoraggia l' ulteriore attività speculativa.

    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti" (Michel Chossudovsky, Global Famine)


    Dal 2006 al 2008, c'è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell'arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky, The Global Crisis: Food, Water and Fuel. Three Fundamental Necessities of Life in Jeopardy , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, THE GLOBAL ECONOMIC CRISIS. )


    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell' indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.


    "I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in "zona pericolosa".
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente - del giugno 2008 - per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall'Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura con sede a Roma (la FAO), l'indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi"; (The Guardian, 5 gennaio 2011)


    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l'obiettivo dell' austerità fiscale.


    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un'atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.


    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell'UE):


    La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell'equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L'aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell'aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani. (Banca mondiale - Tunisia - Country Brief)


    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna "analisi" economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un'attenuazione della povertà. L'impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di "repressione" economica che è stato applicato universalmente in più di 150 pæsi in via di sviluppo.


    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla "stima" della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.


    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.


    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell'ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell'urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .


    Più in generale, "la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell'intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all'istruzione primaria."; (Michel Chossudovsky, Global Famine, op cit.)

    Versione originale:

    Michel Chossudovsky
    Fonte: GlobalResearch.ca - Centre for Research on Globalization
    LinK:Tunisia and the IMF's Diktats: How Macro-Economic Policy Triggers Worldwide Poverty and Unemployment
    20.01.2011

    Versione italiana:

    Fonte: Voci dall'estero
    Link: Voci dall'estero: La Tunisia e i Diktat del FMI: come la politica economica provoca povertà e disoccupazione in tutto il mondo
    23.01.2011

  3. #3
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    Predefinito Rif: Rivoluzioni 'colorate' in Nord Africa?


  4. #4
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    Predefinito Rif: Rivoluzioni 'colorate' in Nord Africa?

    Dietro le rivolte in Medio oriente (come per la Serbia nel 2000) c'è un signore di 83 anni che sta a Boston

    di Christian Rocca

    Uno degli eroi delle rivolte mediorientali è un oscuro signore di ottantatrè anni di Boston. Si chiama Gene Sharp. I militanti democratici egiziani, secondo quanto riportato dal New York Times, lo paragonano a Martin Luther King e al Mahtma Gandhi. Le sue idee hanno influenzato le rivoluzioni democratiche e nonviolente in Serbia, quelle colorate in Ucraina, in Georgia, in Kyrgyzstan e ora quelle tunisine ed egiziane.

    Libri tradotti in 28 lingue e studiati dalle opposizioni di Zimbabwe, Birmania e Iran
    Quattro anni fa, era stato l'autocrate venezuelano Hugo Chavez ad accusare Sharp di aver ispirato le rivolte antigovernative nel suo paese. Nel 2007, in Vietnam, i militanti dell'opposizione sono stati arrestati mentre distribuivano un suo libro del 1993, From Dictatorship to Democracy, un manuale strategico per liberarsi dalle dittature (93 pagine scaricabili dal sito dell'Albert Einstein Institution). A Mosca, nel 2005, le librerie che vendevano la traduzione in russo dello stesso libro sono state distrutte da incendi dolosi. Gli scritti di Sharp, tradotti in 28 lingue, sono stati studiati dalle opposizioni in Zimbabwe, in Birmania e in Iran. Nel 1997, racconta il Wall Street Journal, un militante polacco-americano, Marek Zelazkiewicz, fotocopiò le 93 pagine di Sharp e le portò con sé nei Balcani, insegnando le tattiche di resistenza nonviolenta in Kosovo e poi a Belgrado.

    A Sharp si ispirano gli attivisti di Otpor, "mercenari della democrazia"
    Il testo di Sharp è stato tradotto in serbo e distribuito segretamente tra i militanti dell'opposizione, in particolare tra gli iscritti di Otpor, un gruppo di opposizione giovanile anti Milosevic. Otpor, grazie anche ai 42 milioni di dollari americani, ha esportato le tecniche di opposizione, apprese dal libro di Sharp, nelle ex repubbliche sovietiche, organizzando seminari di resistenza democratica in Georgia, in Ucraina, in Ungheria. Nel 2000 la Casa Bianca ha aperto un ufficio a Budapest per coordinare le attività dell'opposizione democratica serba, fornendo anche strumenti e tecnologia per diffondere notizie e informazioni alternative a quelle del regime. Nel 2003, sei mesi prima della rivoluzione delle rose, l'opposizione georgiana ha stabilito contatti con Otpor con un viaggio a Belgrado finanziato dalla Fondazione Open Society del finanziere americano George Soros. I militanti di Otpor hanno addestrato gli attivisti georgiani e in Georgia è nata Kmara, una versione locale di Otpor. I soldi sono arrivati da Soros e da una delle tante agenzie semi-indipendenti di cui si serve il Congresso americano per finanziare i gruppi democratici in giro per il mondo. In Ucraina è nato Pora, un altro gruppo democratico con forti legami con l'Otpor serbo e finanziato con 65 milioni di dollari dall'Amministrazione Bush. I militanti di Otpor sono diventati mercenari della democrazia, hanno viaggiato per il mondo a spese del governo americano per addestrare le opposizioni a organizzare una rivoluzione democratica.

    Otpor e Sharp hanno influenzato i ragazzi delle piazze di Tunisi e del Cairo
    Il modello Otpor e le idee di Gene Sharp, racconta il New York Times, hanno influenzato i ragazzi delle piazze di Tunisi e del Cairo. Promuovere la democrazia non è una politica facile da imporre. Deve seguire una strategia diversa paese per paese, calibrata su un ampio arco temporale e centrata sui diritti umani, sulla rappresentanza politica, sullo stato di diritto, sulla trasparenza, sulla tolleranza, sui diritti delle donne. Ma le tecniche di opposizione, redatte da un anziano signore di Boston, possono essere facilmente trasmesse.

    Dietro le rivolte in Medio oriente (come per la Serbia nel 2000) c'è un signore di 83 anni che sta a Boston - Il Sole 24 ORE

  5. #5
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    Predefinito Rif: Rivoluzioni 'colorate' in Nord Africa?

    Free internet, free world. Gli Stati Uniti chiedono la libertà di espressione sul web contro i regimi autoritari

    di Luca Dello Iacovo

    Social network e blog hanno contribuito alle proteste in Medio Oriente. Ma i regimi autoritari non hanno perso tempo a trovare contromisure, anche drastiche: in Egitto l'accesso al web è stato bloccato. E un giro di vite della censura online è in corso in altre nazioni. Hillary Clinton, segretario di Stato degli Usa, ha presentato (nel corso di una webcast seguita da una webchat) una policy che aiuti a superare le restrizioni alla liberà di espressione su internet: secondo il New York Times, evidenzierà anche che i social network sono stati utilizzati contemporaneamente da dissidenti e governi nazionali. Appena un anno fa il focus dell'attenzione era sulla Cina e sulle restrizioni imposte a Google nella ricerca di parole chiave sensibili.


    Negli ultimi mesi il Dipartimento di Stato ha valutato progetti per aiutare chi vuole superare filtri sempre più sofisticati nella nazioni governate da regimi autoritari: software per aggirare i muri virtuali che impediscono l'accesso alle informazioni, lezioni per insegnare come inviare email in modo sicuro, server proxy per evitare di vedere monitorate o bloccate le connessioni a siti web. Inoltre di recente il dipartimento di Stato ha inviato messaggi su twitter in arabo e presto inizierà a inviarli anche in lingua farsi per comunicare con il pubblico online in Iran. Ma sono passi valutati con cautela a seconda dei contesti, come sottolinea il New York Times.

    Facebook è al centro del dibattito. Una settimana fa il senatore democratico Richard Durbin ha inviato una lettera a Mark Zuckerberg, il 26enne fondatore del social network, per chiedere un maggiore impegno nella tutela della libertà di espressione dei suoi utenti. E ha rinnovato l'invito a entrare nella Global Network Initiative, un'organizzazione non profit che riunisce aziende impegnate nella difesa dei diritti umani: finora ha raccolto l'adesione di Google, Yahoo, Microsoft e di associazioni come la Electronic Frontier Foundation. Facebook è stato il social network più frequentato durante le proteste in Medio Oriente: ha due milioni di iscritti in Tunisia e cinque milioni in Egitto. In passato ha sostenuto in modo attivo le manifestazioni in Colombia promosse attraverso i suoi gruppi online. Ma teme la censura in nazioni dove sta allargando la sua base di utenti, come la Siria.

    Free internet, free world. Gli Stati Uniti chiedono la libertà di espressione sul web contro i regimi autoritari - Il Sole 24 ORE

  6. #6
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    Predefinito Rif: Rivoluzioni 'colorate' in Nord Africa?

    E' già stato postato, ma non fa male....

    Libia e Gheddafi: cosa c'è (davvero) dietro la rivolta

    Non siamo di fronte a rivolte spontanee ma indotte, che mirano a replicare nel nord Africa quanto avvenuto alla fine degli anni Ottanta nell’ex Unione Sovietica. E in Libia...

    di Marcello Foa

    LIBIA E GHEDDAFI: COSA C'E' (DAVVERO) DIETRO LA RIVOLTA - Esteri - ilGiornale.it del 22-02-2011

    Per capire che cosa sta accadendo a Tripoli bisogna considerare innanzitutto il quadro strategico. Non siamo di fronte a rivolte spontanee, ma indotte che mirano a replicare nel nord Africa quanto avvenuto alla fine degli anni Ottanta nell’ex Unione Sovietica. Anche allora la rivolta partì da un piccolo Paese, la Lituania, e all’inizio nessuno immaginava che l’incendio potesse propagarsi ai Paesi vicini e non era nemmeno ipotizzabile che l’Urss potesse implodere. Il Maghreb non è l’Unione sovietica e non esistono sovrastrutture da far saltare, ma per il resto le analogie sono evidenti. La Tunisia è il più piccolo dei Paesi della regione ed è servito da detonatore per la altre volte. A ruota è caduto il regime di Mubarak, la Libia è in subbuglio, domani forse Teheran e, magari sull’onda, Algeria, Marocco, Siria. Che cos’avevano in comune i regimi tunisini, egiziano e libico? Il fatto di essere retti da leader autoritari, ormai vecchi, screditati, che pensavano di passare il potere a figli o fedelissimi inetti.

    Non è un mistero: le rivolte sono state ampiamente incoraggiate – e per molti versi preparate – dal governo americano, come dimostrato qui e qui. Da qualche tempo Washington riteneva inevitabile l’esplosione del malcontento popolare e temendo che a guidare la rivolta potessero essere estremisti islamici o gruppi oltranzisti, ha proceduto a quella che appare come un’esplosione controllata, perlomeno in Egitto e in Tunisia. Perché controllata? Perché prima di mettere in difficoltà Ben Ali e Mubarak, l’Amministrazione Obama ha cementato il già solidissimo rapporto con gli eserciti, i quali infatti non hanno mai perso il controllo della situazione e sono stati gli artefici della rivoluzione. Non scordiamocelo: oggi al Cairo e a Tunisi comandano i generali, che anche in futuro eserciteranno un’influenza decisiva. Washington ha vinto due volte: si è assicurata per molti anni a venire la fedeltà di questi due Paesi e ha messo a segno una straordinaria operazione di immagine, dimostrando al mondo intero che l’America è dalla parte del popolo e della democrazia anche in regimi fino a ieri amici.

    Le dinamiche libiche sono diverse perché Gheddafi non era un alleato degli Stati Uniti e perché le Ong legate al governo americano non hanno potuto stabilire contatti e legami con la società civile libica; insomma, non hanno potuto fertilizzare il terreno sul quale far germogliare la rivolta. Che però è esplosa lo stesso. Per contagio e alimentando non la fedeltà dell’esercito, ma il suo malcontento. Come in tutte le rivoluzioni sono le forze armate a determinare l’esito delle rivolte popolari. Gheddafi in queste ore paga gli errori commessi in passato. Come ha rilevato Domenico Quirico sulla Stampa, il Colonnello, da vecchio golpista qual’era, non si è mai fidato dei generali e ha proceduto a numerose purghe. Gli uomini in divisa per 42 anni lo hanno temuto, ma non lo hanno mai davvero amato. Così ora molti di loro o si danno alla fuga o passano con i rivoltosi soprattutto nelle città lontane da Tripoli. Gheddafi può contare solo sulle milizie private e su una piccola parte dell’esercito; è questa la ragione di una mossa altrimenti inspiegabile come quella di reclutare centinaia o forse migliaia di miliziani africani.

    La conseguenza è inevitabile: sangue, sangue e ancora sangue. L’impressione è che Gheddafi alla fine sarà costretto a fuggire. L’immagine, ridicola, del Raìs in auto con l’ombrello ricorda quella di Saddam Hussein braccato dagli americani nei giorni della caduta di Bagdad. In ogni caso la situazione rischia di essere molto imbarazzante per l’Italia. Se il regime dovesse cadere, la Libia tornerebbe ad essere il porto di partenza verso le nostre coste per decine di migliaia di immigrati. Se dovesse resistere, per noi sarebbe imbarazzante mantenere buoni rapporti con un leader sanguinario. E in entrambi i casi ballerebbero contratti milionari per le nostre aziende. Eni in testa. Non dimentichiamocelo: buona parte dei nostri approvvigionamento energetici dipendono proprio dal Nord Africa. L’esplosione controllata rischia di essere comunque devastante per gli interessi del nostro Paese.

    Non abbiamo scelta e l'Italia non può certo influire sugli eventi, ma è inevitabile chiedersi: il prezzo è giusto?

    Martedì 22 febbraio 2011

  7. #7
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    Predefinito Rif: Rivoluzioni 'colorate' in Nord Africa?

    Le rivoluzioni islamiche: espellere l'Italia dall'Africa


    Roma/Balcani - "Il Nord-Africa è in fiamme, un'escalation di rivolte trasformatesi ben presto in guerre civili. Questa è la guerra del Mediterraneo, volta a tracciare le nuove sfere di influenza energetiche e sottrarre ogni controllo all'Italia". Questo quanto dichiarato da Michele Altamura, direttore dell'Osservatorio Italiano, secondo il quale sono ormai evidenti le manipolazioni delle campagne di disinformazione e dei falsi giustizialismi, volti a creare le "false rivoluzioni colorate" e così delle nuove false capitali islamiche. Un grande ruolo è ora svolto da Internet e dai social-network che rivelano così un volto molto pericolo, ossia di strumento per la creazione di assembramenti e riunioni di protesta, così come per il coordinamento delle grandi masse. In gioco vi sono gli interessi dei giganti petroliferi degli antichi colonizzatori franco-britannici dell'Africa, che con Total, Chevron, Exxon, Shell e BP hanno tracciato i propri imperi energetici, decidendo ora la destituzione di quei Governi che loro stessi hanno contribuito a creare. L'Italia, con i suoi piccoli giganti, è ora costretta ad arretrare sempre di più, vedendosi quasi costretta a lasciare Tripoli e la lunga serie di cooperazioni economiche sottoscritte con Gheddafi, mentre da sola dovrà affrontare l'ondata dei rifugiati che premono sulle coste di Lampedusa.

    Tali eventi non potranno non avere un'eco anche nei Balcani, dove i Governi dalla stabilità già precaria rischiano di essere bersaglio di manifestazioni incendiarie, viste le implicazioni etnico-religiose sempre in gioco. Si ingrossano così i forum e i blog che fomentano odio, malcontenti, scontri, utilizzando ogni banale pretesto per accendere le micce degli scontri. Dall'aumento dei prezzi al congelamento delle pensioni, dalla costruzione di una Chiesa all'espropriazione di un terreno. Le zone calde nell'area balcanica sono tante, primo tra tutti il Sangiaccato che rivendica l'autonomia e maggiori diritti per l'etnia bosniaco-musulmana, seguito poi dalla Bosnia Erzegovina, polveriera in cui vengono trafficate troppe armi e troppo esplosivo, ed infine la Macedonia che non ha ancora risolto l'equilibrio interno macedone-albanese. I governi, in questa guerra silenziosa, non hanno strumenti per monitorare queste nuove realtà, in cui vi sono programmi specializzati volti ad innescare conflitti inter-etnici ed interreligiosi, tutto questo gestito in maniera trasnazionale. "I media non rappresentano più la libertà di stampa, ma sono diventati solo ed esclusivamente dei cartelli di disinformazione e di provocazioni, sono delle società private con degli interessi economici. La nuova "rivoluzione internettiana" serve unicamente a cambiare le zone di influenza e a mettere al potere governi-fantoccio ingovernabili - afferma Altamura - L'Italia resta a guardare impassibile questo scenario paradossale, in cui sia la Russia che l'America o l'Inghilterra, e persino l'ultimo paese sperduto, possono infliggere ovunque un qualsiasi colpo".




    Osservatorio Italiano

  8. #8
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    Predefinito Rif: Rivoluzioni 'colorate' in Nord Africa?

    Il segreto inconfessabile: la regia di Barack Obama dietro la rivolta

    di Marcello Foa




    Come si vincono le guerre nell'era della globalizzazione? Muovendo gli eserciti? Talvolta sì, ma il risultato non è sempre soddisfacente e i costi spesso risultano superiori ai benefici. Ne sa qualcosa George Bush che nel 2001 si scagliò contro i talebani in Afghanistan e nel 2003 contro Saddam in Irak. Siamo nel 2011, quei conflitti durano ancora e la vittoria finale non è assicurata. Se l’America avesse usato altri metodi, probabilmente avrebbe risparmiato migliaia di vite, molti miliardi di dollari e ottenuto risultati più concreti e duraturi.

    È la lezione che ha appreso Barack Obama, il quale in realtà sta combattendo la stessa guerra di Bush, nel senso che ne condivide le finalità strategiche. Che cosa voleva George W? Esportare la democrazia e, soprattutto, sostituire in Medio Oriente regimi decadenti, retti da leader impopolari, con regimi più rispettabili e leader più affidabili. Pensateci bene: è esattamente quel che si propone Barack Obama in Egitto e Tunisia. A cambiare è il metodo.

    L'attuale inquilino della Casa Bianca opta per il soft power e per il proseguimento delle tecniche usate in Ucraina, Georgia e Serbia nella prima metà degli anni Duemila. Ricordate la protesta degli studenti di Belgrado che costrinse Milosevic alla fuga? E l'emozionante Rivoluzione arancione di Kiev? E quella Rosa contro Shevardnadze? Allora i media si emozionarono, esaltando la rivincita del popolo; oggi, però, sappiamo - documenti alla mano - che quelle rivolte non furono affatto spontanee, ma preparate con cura e sapientemente attizzate da società private di Pubbliche relazioni, che agivano per conto del Dipartimento di Stato. Washington aveva capito che, agendo con la dovuta cautela, la piazza poteva essere usata a proprio vantaggio.

    Lo stesso sta avvenendo in queste settimane in Tunisia e in Egitto. Non limitatevi alle dichiarazioni ufficiali, alcune sono obbligate e rientrano in un gioco delle parti. Chiedetevi, piuttosto... Chi ha deciso la rivolta prima a Tunisi e ora al Cairo? L'esercito, che si è rifiutato di sparare sulla folla, legittimando le richieste dei manifestanti. E a chi sono legati i vertici militari egiziani e tunisini? Saldamente agli Stati Uniti. Chi comanda ora al posto di Ben Ali? I generali, democratici, nelle intenzioni, ma pur sempre generali.
    La Tunisia, Paese piccolo, moderato e privo di risorse naturali strategiche, rappresentava il banco di prova. Il test è andato benissimo e allora Washington ha deciso di tentare con il più grande, ma più rischioso, Egitto. La nostra non è un'insinuazione, ma una deduzione. Fondata. Nei giorni giorni scorsi il Daily Telegraph ha scoperto, sepolto nel sito di Wikileaks, uno dei pochi documenti interessanti finiti nelle mani dell’ambiguo Assange. Documenti che rivelavano come nell'autunno del 2008 il Dipartimento di Stato avesse invitato a Washington diversi blogger e oppositori di Mubarak, intenzionati creare un'Alleanza democratica, che aveva come obiettivo finale quello di provocare un cambiamento di regime. Quando? Nel 2011, prima delle elezioni presidenziali. Scoop che che il governo Usa ha minimizzato e contestualizzato.

    Però chiedetevi: chi ha dato, politicamente, il colpo di grazia a Ben Ali? E chi ha messo alle corde Mubarak? Sempre Barack Obama, il quale oggi al Cairo può contare sull'esercito e sul vice presidente, un altro generale, Suleiman; il vero uomo forte. L’analogia con Tunisi è eclatante.

    Tutto quadra. Oggi. Domani, chissà; perché in Tunisia l’influenza dei fondamentalisti islamici è impalpabile, mentre in Egitto i Fratelli Musulmani sono molto popolari e in passato hanno dimostrato di saper muovere le piazze, all’occorrenza usando le armi. Questo rende il finale più incerto, ma non cambia l’analisi complessiva.

    Esiste un’evidente continuità strategica tra Bush e Obama. E anche operativa. Gli incontri al Dipartimento di Stato si svolsero nell’autunno del 2008, quando Obama era ancora in campagna elettorale. Dunque in queste ore il democratico Barack ha esercitato un’opzione elaborata dal suo predecessore, il falco George. Ma non ricordateglielo. Si arrabbierebbe.

    Il segreto inconfessabile: la regia di Barack Obama dietro la rivolta in Egitto - Egitto - ilGiornale.it del 11-02-2011

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    Predefinito Rif: Rivoluzioni 'colorate' in Nord Africa?

    M.O./ Il manuale delle rivoluzioni: di un intellettuale americano

    New York, 17 feb. (TMNews) - C'è il libro di un anziano intellettuale bostoniano dietro alle rivoluzioni che hanno scosso il mondo arabo. "From Dictatorship to Democracy", manuale sulla rivoluzione non violenta compilato da un intellettuale americano 83enne, avrebbe ispirato i dissidenti di varie parti del mondo alla rivolta. Gene Sharp è un signore dall'aspetto tutt'altro che pericoloso, ma un articolo del New York Times racconta che le sue idee hanno proliferato tra gli attivisti democratici al Cairo e in Tunisia.

    Più che un rivoluzionario, l'autore di "Dalla dittatura alla democrazia" si considera un pensatore. Dice di non aver preso contatto con gli oppositori al regime di Hosni Mubarak in Egitto e commenta dicendo che la rivoluizione "l'ha fatta il popolo egiziano, non io". Ma il suo manuale compare sul sito della Fratellanza Musulmana, la principale organizzazione islamica in Egitto.

    Sharp è stato professore univeritario di scienze politiche, e ha scritto numerosi libri, il primo dei quali porta la prefazione di Einstein, temuti dai regimi autocratici. Nel 2007 è stato accusato pubblicamente dal presidente del Venezuela Hugo Chávez, e nel 2008 l'Iran lo ha accusato di essere una agente della CIA. "E' considerato il padre degli studi sull'azione strategica non violenta, ma l'idea che se ne vada in giro per il mondo a istigare le rivoluzioni suona come uno scherzo," ha detto Stephen Zunes, dell'Università di San Francisco. Ma le rivoluzioni in qualche caso è andato a vederle: nel 1989 per esempio era era in Piazza Tiananmen a Pechino a seguire la rivolta degli studenti contro il regime cinese e negli anni '90 èera in Birmania, in un campo dei ribelli contro la giunta militare.

    Sharp non ha alcuna intenzione di smettere di scrivere. Ha appena consegnato alla Oxford University Press un nuovo manuale sulla resistenza civile e sta attualmente lavorando a un libro su Einstein, le cui preoccupazioni sui regimi totalitari lo hanno largamente ispirato.


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    Predefinito Rif: Rivoluzioni 'colorate' in Nord Africa?

    Rivoluzione? Cosa (non) cambia in Egitto

    In Egitto non si è, almeno per ora, assistito ad una rivoluzione, bensì ad un colpo di Stato militare. La deposizione di Mubarak non ha indebolito, bensì rafforzato il regime. Gli USA non sono usciti sconfitti, perché hanno giocato su più tavoli, sostenendo tutte le forze in campo in Egitto. O quasi. L’incognita dei Fratelli Musulmani e lo “scenario turco”.


    Ventiquattr’ore dopo la deposizione del presidente Hosni Mubarak, un’importante emittente europea ha avuto l’ardire di titolare così un proprio servizio: “Per la prima volta in trenta anni l’Egitto scopre la democrazia”. Chi ha scelto questo titolo deve avere un’idea molto originale della “democrazia”. Per quanto Mubarak fosse un despota autoritario, le elezioni una farsa, la costituzione disattesa grazie alle leggi d’emergenza in vigore da decenni, ciò che è accaduto in Egitto, negli ultimi giorni, è di fatto questo: che un presidente eletto è stato rimpiazzato da una giunta militare, il parlamento disciolto e la costituzione sospesa. Questa non è democrazia, è (ancora) dittatura militare. E perciò quella in Egitto non è stata, per ora, una rivoluzione – come molti, compresa “Wikipedia”, s’ostinano a chiamarla – bensì un colpo di Stato militare.

    Un colpo di Stato che cambierà molte cose, ma di certo non sovverte né tanto meno rivoluziona l’Egitto. Perché l’Egitto è un regime militare dalla Rivoluzione del 1952. Anche quella fu un golpe militare, in realtà, ma merita l’appellativo di rivoluzione, perché depose un monarca e varò una repubblica ispirata ai valori del socialismo, del panarabismo e dell’anti-imperialismo. Nasser incarnò questi valori, i suoi successori li abbandonarono. Sadat abbandonò la lotta a Israele e s’allineò agli USA, inaugurò quel processo, poi portato a compimento da Mubarak, di privatizzazione dell’economia in linea coi dettami neo-liberali del Washington Consensus. Ma se sono cambiati i contenuti, non è cambiata la forma. Sadat e Mubarak giunsero alla presidenza da alti ufficiali militari, ed in questi sessant’anni le Forze Armate hanno acquisito un enorme potere in Egitto, non solo a livello politico ma anche economico. Le FF.AA. egiziane sono una specie di holding che controlla ampi settori dell’economia, e non in virtù del loro valore strategico, ma del potenziale di profitto. I militari egiziani hanno terre, immobili – inclusi resort a Sharm ash-Shaikh – e stabilimenti industriali, che producono dagli elettrodomestici all’olio d’oliva.

    Hosni Mubarak, ormai ultraottantenne e gravemente malato (fonti giornalistiche affermano che sarebbe attualmente in fin di vita), non faceva mistero di ambire alla successione al potere di suo figlio Gamal. La prospettiva di vedere Gamal Mubarak divenire prossimo presidente – e dunque despota – d’Egitto non piaceva ai militari, e per due ragioni. La prima è che Mubarak Jr. non è uno di loro, non ha mai servito nelle FF.AA., e la sua ascesa al vertice dello Stato avrebbe significato la fine del regime militare, a vantaggio d’un regime familiare o, quanto meno, d’un sistema di potere imperniato sul Partito Nazionale Democratico (fondato da Sadat e poi egemonizzato dalla famiglia Mubarak). La seconda è che Gamal Mubarak, legato a doppio filo alla finanza anglosassone, è stato il regista del ciclo di privatizzazioni che ha caratterizzato l’economia egiziana negli ultimi anni. Privatizzazioni che, ovviamente, minacciano l’impero industriale-finanziario delle Forze Armate egiziane.

    Il clan dei Mubarak era odiato, per tante buone ragioni, anche dalla maggior parte degli Egiziani (come le stesse elezioni, pur truffaldine, del 2005 dimostravano, allorché il PND usciva sconfitto da quasi tutti quei pochi seggi in cui era permesso di candidarsi a veri oppositori). Mubarak ha continuato, come i predecessori, a conculcare le libertà civili degli Egiziani, ed ha retto il suo governo sulla forza bruta e la repressione. Ha tradito gl’ideali panarabi ed il senso di solidarietà tra musulmani stringendo un’alleanza informale con Israele, tanto da rendersi complice del blocco imposto alla Striscia di Gaza. Ha, infine, distrutto, o permesso la distruzione, dell’economia egiziana. Quel paese che Nasser aveva lanciato sulla via dello sviluppo, e che negli anni ’70 era al livello delle più prospere economie asiatiche (ovviamente escluso il Giappone), dagli anni ’80 ha vissuto un progressivo declino in concomitanza con le riforme neoliberali. La demolizione del sistema di garanzie sociali ha peggiorato il tenore di vita dei ceti più bassi. Qualcuno (in primis la famiglia Mubarak) ha accumulato enormi ricchezze, ma i più si sono impoveriti.

    La crescente ostilità in seno alle Forze Armate si è incontrata con l’odio radicato tra la popolazione. Bastava una scintilla per fare esplodere la situazione, e questa scintilla è stata rappresentata dal successo (anche quello, a dire il vero, parziale) dell’insurrezione tunisina, con la fuga del presidente Ben Alì. La gente ha preso coraggio ed è scesa in piazza, prima i liberali e poi gl’islamisti, fino a raggiungere una massa d’urto che la polizia, fedele al presidente Mubarak, è stata incapace di contenere. Quando la folla ha sopraffatto la polizia è sceso in piazza l’Esercito. Le scene di giubilo della popolazione di fronte ai carri armati nelle strade, il fatto che i soldati abbiano arrestato più poliziotti e squadristi filo-Mubarak che manifestanti anti-Mubarak, dimostrano la comunità d’intenti – almeno nel breve periodo – tra popolazione e militari: entrambi volevano che Mubarak se ne andasse. I militari senza fretta: una transizione progressiva era la soluzione preferita, l’importante era che il potere non finisse a Gamal Mubarak ma ritornasse in seno alle Forze Armate, perché esprimessero un nuovo presidente tratto dalle loro fila. Forse proprio quel Omar Suleiman che il Presidente aveva nominato suo vice; quel Suleiman già capo della polizia politica e dei torturatori del regime, intimo di Washington e Tel Aviv. Il popolo, invece, più impazientemente ha spinto sull’acceleratore, chiedendo l’immediato abbandono di Mubarak. Una volta verificato che non c’era modo di calmare la piazza, i militari hanno chiesto a Mubarak di farsi da parte. Il 10 febbraio si sparse la voce che il Presidente si sarebbe dimesso: lo stesso Leon Panetta, direttore della CIA, lo anticipò al Congresso. Con grande sorpresa di molti, la sera del 10 Mubarak, nel suo ultimo discorso trasmesso in televisione, non rinunciò alla carica. L’11 non poteva che essere il giorno decisivo. I manifestanti erano decisi a marciare sul palazzo presidenziale, e l’Esercito aveva poche opzioni: difendere Mubarak sparando sulla folla, e così spezzando la “luna di miele” tra popolo e militari; lasciare che il popolo deponesse con le proprie mani il Presidente, concedendo così un pericoloso spazio di “sovranità popolare”; risolvere la situazione deponendo personalmente Mubarak e prendendosi i pieni poteri. Com’era prevedibile, hanno scelto quest’ultima opzione.

    Gli USA hanno apertamente premuto per una soluzione del genere. In realtà, Mubarak è stato difeso da pochissimi paesi, tra cui spiccano, oltre all’Arabia Saudita e qualche altra tirannia araba, Israele e Italia. Altri, come la Cina, si sono limitati a condannare le ingerenze esterne: la “mano straniera” che Mubarak ha evocato nel suo ultimo discorso. In realtà, Washington non è uscita sconfitta dalla cosiddetta “rivoluzione egiziana”, e ciò perché ha saggiamente saputo giocare su più tavoli. Hosni Mubarak è stato costantemente sostenuto, diplomaticamente, economicamente, e con la consulenza della CIA in materia di repressione del dissenso, nel corso dei trent’anni in cui ha tiranneggiato l’Egitto. La grande finanza anglosassone ha cooptato e manovrato Gamal Mubarak, regista delle privatizzazioni e, fino a pochi giorni fa, probabile successore del padre alla Presidenza. Nel frattempo, la Casa Bianca, le Forze Armate statunitensi e la CIA hanno coltivato i rapporti coi vertici militari del paese arabo, prestando loro armi e consulenza (pochi giorni prima del golpe, i più alti ufficiali egiziani erano riuniti a Washington per consultazioni col Pentagono). Infine, organizzazioni “non governative” e para-governative degli USA (come il NED) già da alcuni anni hanno infiltrato la società civile e i gruppi d’opposizione al regime (vedi anche recente articolo di V. Maddaloni in questo sito). Washington, insomma, si è premunita di modo da riuscire vincitrice in ogni caso: semplicemente puntando su tutti i cavalli in corsa. O quasi.

    Quasi, perché ci sono delle incognite nell’equazione egiziana. Incognite che Washington ha senz’altro previsto, ma non è ancora riuscita a controllare. In Egitto ci sono solo due grandi movimenti di massa, autentici centri di potere potenzialmente alternativi alle Forze Armate: i Fratelli Musulmani e la Chiesa Copta. Se a separarli è la fede religiosa, ad unirli è la comune ostilità verso il regime militare. Non è forse un caso che, poche settimane prima del golpe, sanguinosi attentati abbiano scatenato l’ira dei copti contro il regime e gl’islamisti. Attentati dietro cui, secondo le autorità egiziane, ci sarebbe stata una non meglio precisata “mano straniera” desiderosa di destabilizzare l’Egitto – la stessa mano straniera di cui ha parlato Mubarak nel suo ultimo discorso da presidente?

    I Fratelli Musulmani hanno vissuto con Mubarak un rapporto assai peculiare. Acerrimi nemici, hanno però sviluppato una sorta di simbiosi. Nasser fu il principale persecutore della Fratellanza: costrinse Naguib, il primo presidente, a farsi da parte proprio con l’accusa d’eccessiva condiscendenza verso gl’islamisti, ed in nome della “laicità” (la laicità musulmana è comunque molto diversa da quella europea, come dimostrano i continui richiami alla legittimità ed all’appoggio divino da parte degli stessi governanti laici dei paesi arabi) e del nazionalismo li represse brutalmente. D’altro canto, Nasser era un leader idealista e carismatico, sinceramente amato dal suo popolo: lo stesso non può dirsi dei successori. Sotto di essi la Fratellanza ha ripreso a fiorire, trovando anche un modus vivendi con Mubarak: in cambio della presa di distanza dalla lotta armata (praticata da altre frange islamiste) e ad una sorta di “desistenza” elettorale, il regime ha concesso maggiori margini di manovra al movimento islamista. I Fratelli Musulmani hanno deciso di riconquistare la società egiziana dal basso, seducendo i cuori e le menti della popolazione offrendole un proprio sistema di tutele e servizi sociali. Tale strategia ha avuto tanto più successo perché messa in atto parallelamente allo smantellamento dello Stato sociale attuato da Hosni Mubarak e dal figlio – e Mubarak l’ha tollerata perché i servizi dei Fratelli Musulmani hanno rimpiazzato quelli dello Stato, neutralizzando così le ricadute sociali negative che avrebbero potuto travolgere il regime. In molte parti d’Egitto, tra cui il Cairo, la sanità “pubblica” è di fatto rappresentata dalla rete sanitaria della Fratellanza. Il ruolo degli USA e dei militari nell’orchestrare le proteste, ed il modus vivendi trovato col pur odiato Mubarak, spiegano l’iniziale titubanza dei Fratelli Musulmani a prendere parte alla rivolta. La decisione di non candidare propri uomini alla Presidenza del paese può riflettere sia il sospetto verso una “rivoluzione” etero-diretta dall’estero e dal regime stesso, sia il desiderio di non urtare la suscettibilità dei militari, evitare una nuova recrudescenza della repressione e poter proseguire la strategia di lungo termine fondata sulla conquista della società prima che del potere. Ma l’effettivo comportamento dei Fratelli Musulmani nelle settimane e nei mesi a venire è la grande incognita dei rivolgimenti egiziani. Adotteranno una strategia conservativa? I contatti con l’Arabia Saudita e con quell’autentica capitale dell’estremismo islamista che è Londra li indurranno ad un atteggiamento di collaborazione con gli atlantisti? Oppure, cercheranno di sfruttare il momento favorevole per forzare gli eventi e realizzare la propria, autentica rivoluzione?

    È sicuramente questo l’auspicio degl’Iraniani. Vero è che l’Iràn sciita ha spesso avuto problemi con l’islamismo di matrice sunnita (si pensi ai Talibani o all’Arabia Saudita wahhabita), ma i rapporti non potrebbero essere peggiori che con l’attuale regime militare. Le relazioni intessute con Hamas, branca palestinese dei Fratelli Musulmani, dimostrano che il dialogo e la collaborazione sono possibili. Tuttavia, i toni trionfalistici utilizzati negli ultimi giorni dagl’Iraniani – che pretendono di vedere negli eventi egiziani una riedizione della loro Rivoluzione – sono esagerati. Un po’ di sincera esaltazione (la concomitanza degli eventi egiziani con l’anniversario della Rivoluzione Islamica – evento molto sentito in Iràn, certo assai più del centocinquantesimo dell’Unità qui da noi) a condire una massiccia dose di propaganda e di wishful thinking. Lo stesso fanno, del resto, gli USA ed i media da loro controllati: i motti anti-statunitensi ed anti-sionisti dei manifestanti sono spariti dai resoconti giornalistici, i Fratelli Musulmani sono snobisticamente considerati una minoranza nel paese, tutto il merito della rivolta viene assegnato alla locale fazione liberale. La stampa occidentale tesse le lodi di quei gran strumenti rivoluzionari che sarebbero Facebook e Twitter, ma fatto sta che le piazze egiziane si sono davvero riempite dopo che il regime aveva bloccato Internet, ed a riempirle è stata la Fratellanza Musulmana, col suo messaggio religioso ed il filo diretto che ha con la popolazione. La gente è pronta a morire per chi gli dà pane, cure, lavoro e speranza, non per chi gli “twitta” qualche slogan idealistico ed esterofilo.

    Ma allora, se non dovessero intervenire i Fratelli Musulmani a scompaginare le carte in tavola, cos’è realmente cambiato in Egitto e nel Vicino Oriente? In Egitto, il regime militare appare più solido di prima: la deposizione di Mubarak l’ha rafforzato, non indebolito. È possibile che, soprattutto grazie alle pressioni degli USA, si giunga ad istituire un simulacro di democrazia liberale, ma nei fatti il potere rimarrà nelle mani dei militari e l’Egitto un paese a sovranità controllata. Obama, senza i proclami roboanti e le guerre di Bush, sta raccogliendo più di lui nella strada per la “democratizzazione” del “Grande Medio Oriente”, ossia nella sostituzione dei vecchi dittatori con una nuova generazione di despoti, magari oligarchie che garantiscano più spazi di libertà alle loro popolazioni, senza però permettere che si mettano in dubbio i dogmi atlantista e neoliberale. È un progetto ambizioso e l’apprendista stregone potrebbe perdere il controllo delle forze suscitate coi suoi sortilegi. Le popolazioni della regione non nutrono sentimenti amichevoli verso gli USA e Israele, e dunque mobilitarle per abbattere i governi e cercare di cooptarle nel sistema di potere atlantista è un grosso rischio: da qui l’inquietudine con cui Tel Aviv sta vivendo questi eventi, memore anche del sempre più tragico (per lei) esperimento turco. Le rivolte in Tunisia e Egitto, le vittorie elettorali di Hamas in Palestina e dell’AKP in Turchia, il successo di Hezbollah contro la tentata invasione israeliana del Libano, sono tutti eventi che stanno mutando la mentalità delle popolazioni dell’area. Dopo decenni, se non secoli, d’impotenza e sconfitte, qualcosa pare stia cambiando. I popoli locali hanno capito che possono essere arbitri del proprio destino.

    Iràn e USA cercano di tirare la coperta dei rivolgimenti arabi ognuno verso di sé. Tehran sogna tanti Hamas e Hezbollah che prendano il potere nei paesi arabi, Washington lavora per regimi più “moderni” e presentabili, ma ancor più docili e sottomessi. Ma se tra i due litiganti a godere fosse il terzo? La Turchia, che ormai si configura come un paese sia islamista sia liberal-democratico, potrebbe essere il modello mediano su cui assestarsi per i lacerati paesi arabi. E che gran sorpresa sarebbe, se non lo sguardo severo di Khomeini e neppure la “icona pop” Obama, bensì il compassato e moderato Erdoğan, dovesse affermarsi come il faro che guida le masse arabe verso una nuova epoca.




    * Daniele Scalea, redattore di “Eurasia”, è autore de La sfida totale (Fuoco, Roma 2010).

    Rivoluzione? Cosa (non) cambia in Egitto | eurasia-rivista.org

 

 

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