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  1. #1
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    Arrow * Verso le Elezioni di Medio Termine - USA '10 *




    VERSO LE ELEZIONI DI MEDIO-TERMINE USA '10


    Questo è il thread ufficiale del Forum Conservatorismo dedicato alle Elezioni di Medio-Termine statunitensi previste per il 2 Novembre 2010, a due anni esatti dall'elezione del Presidente democratico Obama.

    In quel giorno, saranno rinnovati tutti i 435 seggi della Camera dei Rappresentanti, e 36 seggi (su 100 totali) del Senato. Anche 36 Stati voteranno per il loro nuovo Governatore.

    Queste Elezioni sono molto importanti, perchè possono modificare radicalmente gli equilibri politici e - alla luce dei più recenti sondaggi - assegnare una maggioranza ai Repubblicani, con grave danno per la Presidenza Obama.

    Seguiremo qui tutti gli sviluppi relativi a queste Elezioni. Gli interessati sono invitati a contribuire con articoli e riflessioni sui sondaggi, sulle primarie interne ai partiti, sulle sfide dirette fra candidati.

    Per informazioni di carattere generale, ci assiste Wikipedia:
    United States elections, 2010 - Wikipedia, the free encyclopedia


    Grazie per l'attenzione e buona lettura!

  2. #2
    Conservatorismo e Libertà
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    Predefinito Rif: * Verso le Elezioni di Medio Termine - USA '10 *

    A novembre si tengono le elezioni di medio termine e i repubblicani sperano nel colpo del ko. Ma la situazione oggi non è quella del 1994. Allora c’era un’America più ideologica e più ricca di quella attuale. L’ipotesi di una sconfitta limitata dei democratici.


    Il passatempo preferito dei politici americani è ormai prevedere come andranno le elezioni di medio termine. A novembre, l’intera House of Representatives e un terzo del Senato andrà al ballottaggio, insieme a 37 governatori. Le analisi si moltiplicano, le comparazioni storiche pure. L’analisi prevalente è che i democratici perderanno le elezioni, il che significa che perderanno seggi sia alla Camera Bassa, sia al Senato. Si tratta di una previsione facile, perché corroborata storicamente. Da ormai mezzo secolo, e con rare, significative eccezioni, il partito al governo perde consensi nelle elezioni che si tengono a metà del mandato presidenziale.

    Il punto è capire quanto le perderanno. Le perderanno fino al punto di cedere il controllo di una o due camere ai repubblicani? Di per sé, non sarebbe una novità. Capitò a GW Bush nel 2006, quando la House tornò ai democratici. Capitò a Bill Clinton nel 1994, quando ancora la House cambiò mano, questa volta passando ai repubblicani dopo 40 anni ininterrotti di controllo democratico.

    Ed è proprio il caso del 1994 che è più spesso ricordato oggi. Allora, lo ricordiamo, una generazione di repubblicani conservatori, guidati da un giovane politico della Georgia, Newt Gingrich, vinse le elezioni sulla base di un programma fortemente anti-governativo. La speranza dei repubblicani è che il 2010 sia un nuovo 1994. Una maggioranza non soltanto repubblicana, ma conservatrice prenderebbe il controllo di parte o tutto il sistema legislativo, sbarrerebbe la strada alle iniziative liberal del presidente Barack Obama, e riporterebbe il paese sul solco che – più o meno – ha seguito a partire dal 1968, cioè dall’elezione di Richard Nixon.

    Mentre è probabile che i democratici perdano le elezioni, lo è un po’ meno l’ipotesi che collassino, come in effetti accadde nel 1994. Le ragioni sono varie: economiche, ideologiche ed elettorali...

    Ma stiamo a vedere...


    Usa: i democratici e le elezioni di medio termine - rivista italiana di geopolitica - Limes

  3. #3
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    Predefinito Rif: * Verso le Elezioni di Medio Termine - USA '10 *

    La Camera dei Rappresentanti 2010: previsioni e sondaggi attuali


    Una brutta notizia per Obama e i Democratici è arrivata dalle suppletive delle Hawaii. Il Gop ha conquistato il seggio, che era stato stravinto dal candidato democratico nel 2008. Una vittoria arrivata però più per una spaccatura del partito del presidente che per un brillante risultato repubblicano.L’esponente del Gop, Djou, ha vinto un’elezione aperta, dove i due candidati democratici hanno preso, sommati, quasi il 60%. Una sconfitta che conclude la lunga teoria di vittorie nelle del Democratic Congressional Campaing Committee nelle elezioni suppletive 111esimo Congresso. A novembre 2010 ci sarà il rinnovo intero della Camera dei Rappresentanti, e la maggioranza democratica traballa. Attualmente il gruppo guidato dalla Speaker Nancy Pelosi detiene 253 dei 435 distretti nei quali è divisa l’America. La tradizione e l’attuale difficile fase economica hanno però rinvigorito l’opposizione repubblicana. A partire dal dopoguerra il partito del presidente è arretrato in 14 elezioni di medio termine su 16 (fig. 1). Le uniche eccezioni si sono verificate nel 1998, quando però i Democratici avevano già subito una clamorosa sconfitta nelle midterm 1994, e nel 2002, quando i Repubblicani avanzarono grazie all’incredibile popolarità di Bush figlio prodotta dal clima post 11 settembre.




    In media il partito che esprime l’inquilino della Casa Bianca perde 24 seggi (17 nella prima midterm, 29 nella seconda). I Democratici di Obama si confrontano con un compito molto difficile, aggravato dalla particolare distribuzione del loro consenso. Il centro sinistra statunitense domina nelle grandi città, mentre il suo consenso decresce con la diminuzione della densità abitativa. Di conseguenza, i Repubblicani, che godono di un elettorato distribuito in modo più omogeneo, sono favoriti dalla equa rappresentazione della popolazione nei 435 Distretti Congressuali. Un dato ben evidenziato dai 255 distretti vinti da Bush nel 2004, contro i soli 242 conquistati da Obama, nonostante che l’attuale presidente abbia ottenuto 2 punti percentuali in più del suo predecessore a livello nazionale.

    Il voto per il Rappresentante a volte diverge dall’orientamento presidenziale, un fenomeno ancora significativo ridottosi con la crescente polarizzazione degli ultimi due decenni. Nel 2008 34 deputati repubblicani sono stati eletti in distretti vinti da Obama, mentre i Democratici contano tra loro fila ben 49 Rappresentanti eletti in collegi che hanno premiato McCain. Un elemento che rende più complicata la tenuta della maggioranza democratica alla Camera. In questi collegi, prevalentemente bianchi, con una popolazione anziana e con un orientamento conservatore, l’approvazione di Obama è inferiore alla media nazionale. Alle elezioni di medio termine il presidente non è sulla scheda elettorale, ma i candidati del suo partito fanno molto fatica a separare le loro fortune da quelle dell’inquilino della Casa Bianca. Alcuni Rappresentanti democratici, appartenenti alla “corrente” dei Blue Dogs, enfatizzeranno la loro opposizione ai provvedimenti più controversi dell’Amministrazione Obama, come i salvataggi delle banche o la riforma sanitaria, ma l’esito del voto sarà determinato per lo più dal clima nazionale. Il miglior termometro è rappresentato dall’indicazione di voto generica per la Camera, ovvero quale partito si intende votare indipendentemente dal proprio Rappresentante. Secondo Gallup, la più prestigiosa società demoscopica degli Stati Uniti, il “Generic House Ballot” suddiviso per i due partiti ha mostrato un’elevata capacità di prevedere la distribuzione dei seggi.



    Secondo questa previsione di Gallup i Democratici rischiano di perdere la maggioranza se non superano il 48% nel voto ai due partiti, quello che non conteggia le schede per i partiti minori, che su scala nazionale di solito non superano il 5%. La maggioranza è fissata a quota 218, quindi i Democratici dovranno contenere le loro perdite ad un massimo di 37 Distretti. In base alle previsioni di Gallup dovranno quindi conquistare una percentuale del voto ai due partiti superiore al 48%, che si dovrebbe tradurre in un distacco di 3, massimo 4 punti rispetto ai Repubblicani. Attualmente la media Pollster delle intenzioni generiche di voto per la Camera rileva una sostanziale parità, con il centro sinistra americano in leggero vantaggio.

    Pollster.com: 2010 National Congressional Ballot

    I sondaggi attuali sono effettuati in maggioranza sulla platea degli elettori registrati, ovvero tutti coloro che sono attualmente inseriti nelle liste elettorali. Le midterm sono però contrassegnate da una partecipazione particolarmente bassa, di conseguenza il dato attuale potrebbe non essere così indicativo. Tradizionalmente i Repubblicani riescono a guadagnare qualche punto percentuale grazie alla maggior propensione di voto del loro elettorato. Di conseguenza, in questo momento la maggioranza democratica è incerta, una possibile sconfitta che avrebbe gravi conseguenze sulla capacità di azione dell’Amministrazione Obama.

    Tratto da:
    La Camera dei Rappresentanti 2010: previsioni e sondaggi attuali | Primo piano

  4. #4
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    Predefinito Rif: * Verso le Elezioni di Medio Termine - USA '10 *

    Come annunciato non ci occuperemo soltanto del rinnovo dei seggi congressuali, ma anche delle elezioni dei Governatori, con particolare attenzione per gli sviluppi interni in casa repubblicana, dove si sfidano l'anima moderata e quella più conservatrice del partito.

    Cronache dal mondo conservatore - Il tandem Palin-Romney colpisce ancora

    Le primarie repubblicane in South Carolina


    Martedì si sono celebrate le primarie in diversi Stati nordamericani, in vista del voto di medio termine del 2 novembre. Trarre conclusioni definitive da risultati tanto parziali e iniziali, e del resto completamente interni ai due partiti maggiori che con il voto popolare stanno selezionando i front-runner i quali in autunno si disputeranno i seggi in palio al Congresso e alla guida di alcuni Stati dell’Unione, sarebbe azzardate e sciocco, ma la sottolineatura a un risultato almeno indiziariamente indicativo non è male darla.

    In casa Repubblicana, infatti, degno di vera nota è il caso di Nimrata Randhawa, indiana (dell’India), almeno di origine, e più nota con il nome occidentale di Nikki Haley. L’8 giugno si è candidata alle primarie per il posto di governatore del South Carolina, ha ottenuto un exploit senza precedenti (se alla fine ce la facesse potrebbe infatti diventare il primo governatore in gonnella di quello Stato) e ha sbaragliato avversari ben più, sulla carta, quotati. Avendo ottenuto un comunque incredibile 49% dei voti, riproverà a chiudere definitivamente la partita al ballottaggio del 22 prossimo venturo. Ebbene, cos’ha ha di magico la sua performance?

    Ha di magico che, oltre al fatto di essere “extracomunitaria” e rocciosamente conservatrice senza averne vergogna né sentirsi in dovere di domandarne scusa ai liberal del mondo intero, ai pinguini dell’Antartide e a Jane Fonda, la Haley ha trionfato (sì, nei fatti ha già trionfato, comunque vada poi) grazie agli endorsement diretti pronunciati dall’ex candidato Repubblicano alla Casa Bianca Mitt Romney e dall’ex candidata Repubblicana alla vicepresidenza federale Sarah Palin. Cioè all’uomo che per mesi e mesi è stato in vetta alle classifiche di gradimento del popolo conservatore nel primo anno di disastri di Barack Hussein Obama e di colei che, a torto o a ragione, un mucchio di gente identifica con i “Tea Party”, in entrambi i casi due outsider rispetto alle scuderie di partito e in sintonia con una constituency di Destra non automaticamente Repubblicana enorme. Insomma, con il conservatorismo di popolo e schietto.

    Per la Haley, infatti, il “miracolo”, l’hanno fatto proprio questi appoggi imprescindibili, dati l’uno dell’integerrimo mormone “Dio, patria, famiglia e business” Romney, l’altro dalla moglie-madre-madrina di ogni buon destro americano oggi, la già falsamente chiacchierata Palin, che nessuno riesce, guarda un po’, a spodestare. I due messi assieme sono cioè riusciti a rispedire al malizioso mittente la gragnola di accuse mosse contro la Haley alla vigilia del voto, ché sarebbe saltato all’improvviso fuori (da noi i giornaloni se ne sono accorti subito, di questo si sono accorti subito) che la bella Nikki dalla pelle olivastra avrebbe un debole per gli analisti politici extraconiugali. Ora: lei è così sicura di sé d’avere subito detto che semmai ne verrà fuori qualcosa di serio lascerà la scena pubblica, ma agli elettori “Dio, patria e famiglia” a cui ha fatto appello è bastata la garanzia del tandem Romney-Palin. E, ricordiamolo, non è che i conservatori americani su certi temi siano tanto condiscendenti qualora fiutassero anche solo un pochino di bruciato…

    A noi, però, che americani non siamo e che dei presunti amanti della Haley nulla sappiamo, ci si conferma grandiosamente sorprendente il potere reale che può e che sa esercitare oggi sulla politica grande il movimento conservatore e i “tea Party” dentro di esso, soprattutto dopo che tutti avevano data per morta la “Right Nation”. Con una postilla non conclusiva: ma è mai possibile che se uno si fa un amante o due, la cosa fa scandalo solo se è in corso la campagna elettorale, la notizia apprendendosi sempre e solo in quelle stagioni dell’anno?...

    Quella di Nikki Haley è stata una vittoria del popolo repubblicano | l'Occidentale

  5. #5
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    Predefinito Rif: * Verso le Elezioni di Medio Termine - USA '10 *

    A novembre le elezioni di Mid-term, mentre Sarah Palin azzecca le sue mosse

    Con il “Super Duper Tuesday” ormai alle spalle, possiamo azzardarci a tracciare un quadro dei movimenti che stanno animando la politica USA nel lungo cammino di avvicinamento alle elezioni di medio termine del 2 novembre.

    La stagione delle primarie, che un tempo sarebbe stata pressoché ignorata dai media, sta tenendo sulle spine gli analisti di Washington, che cercano di carpire qualche dritta sul mood di un elettorato sempre più indecifrabile. I risultati della tornata di primarie svoltasi martedì 8 giugno hanno lasciato ancora una volta tutti con un palmo di naso. Facciamo un breve riepilogo.

    In California, nessuna sorpresa: la gara per il posto di junior senator vedrà lo scontro tra Barbara Boxer (Dem.) e l’ex CEO della Hewlett-Packard Carly Fiorina (Rep.), mentre ad affrontarsi per sedersi sulla scomoda poltrona di Governatore saranno il vecchio arnese della politica Jerry Brown (Dem.) e la miliardaria Meg Whitman (Rep.), ex CEO di eBay.

    In Arkansas, la Senatrice Blanche Lincoln (Dem.) è riuscita a riconquistare la nomination, difendendosi dall’attacco del Vice-governatore Bill Halter, candidato sostenuto pesantemente dai sindacati: a novembre la Lincoln dovrà però vedersela con John Boozman (Rep.), deputato del 3° distretto che per ora è avanti di circa 25 punti in tutti i sondaggi. Nelle primarie repubblicane per il 3° distretto, la senatrice dello stato Cecile Bledsoe non è riuscita a completare la rimonta ed è stata battuta sul filo di lana da Steve Womack.

    Risultati interessanti dal South Carolina: la gara per la nomination del GOP al posto di governatore ha visto la straordinaria rimonta di Nikki Haley, deputata al congresso dello stato, che ha sfiorato la vittoria al primo turno, infliggendo un distacco imbarazzante (27 punti) a Gresham Barrett, esperto deputato del 3° distretto che godeva dell’appoggio dell’establishment del partito. Al deputato del 4° distretto Bob Inglis (Rep.) è andata anche peggio: nonostante sieda a Washington dal 1992, è stato umiliato dal pubblico ministero della contea di Spartanburg Trey Gowdy: al ballottaggio dovrà rimontare ben 11 punti.
    Sorpresa nelle primarie per il 1° distretto: il figlio del potente ex-senatore Strom Thurmond, Paul, è stato sonoramente sconfitto da Tim Scott (Rep.), unico deputato di colore nel congresso dello stato e decisamente il candidato più conservatore.

    In Nevada, il governatore uscente Jim Gibbons (Rep.), dopo una lunga serie di scandali, è stato travolto dall’ex giudice federale Brian Sandoval, che per ora gode di un vantaggio rassicurante (14 punti in media) nei confronti di Rory Reid (Dem.), figlio del capogruppo democratico al Senato Harry.

    Le prossime primarie, quelle della Georgia, si terranno il 20 luglio: fino ad allora non avremo che qualche sondaggio per cercare di capire cosa abbia in mente questo sempre più mutevole elettorato.
    La sconfitta di pezzi da novanta come Arlen Specter, Bob Bennett e Alan Mollohan sembrava la prova che un forte vento anti-incumbents stesse spirando sulla nazione. La vittoria di Rand Paul aveva poi fatto gridare al trionfo dei Tea Party.

    Martedì scorso, lo scenario è diventato meno chiaro. Nessun incumbent ha perso la nomination e molti degli underdogs amati dai Tea Party sono usciti dallo scontro con le ossa rotte. Eppure sottovalutare l’impatto dei movimenti grassroots e della macchina genera-consenso (e finanziamenti) della Right Nation sarebbe prematuro.
    Chi ha vinto e chi ha perso? In poche parole, ha vinto Sarah Palin, hanno perso i sindacati, mentre sia i Tea Party che l’establishment del GOP devono farsi un bell’esame di coscienza.

    Sarah Palin aveva deciso di appoggiare quattro candidati molto diversi tra di loro: si andava dalle “mama grizzlies” invise ai partiti locali (la Haley e la Bledsoe), ai “centristi” che non andavano a genio ai Tea Party (la Fiorina e Terry Branstad, candidato a governatore dell’Iowa). Tre di loro o hanno vinto o sono andati al ballottaggio; un risultato lusinghiero, considerato che la Bledsoe partiva da posizioni di assoluto svantaggio.

    In South Carolina, la discesa in campo dell’ex governatore dell’Alaska ha riportato la fiducia nella squadra della Haley, che rischiava di essere travolta da una serie di colpi bassi dell’ultima ora di Barrett. L’endorsement dei candidati moderati è servito invece per scompaginare le fila dei gruppi grassroots: l’impatto mediatico della Palin ha contribuito a rassicurare parte dell’elettorato più arrabbiato, che, alla fine, non è riuscito a far sentire a pieno il proprio peso. Sarah Palin difende le proprie scelte, giurando che tutti i candidati che ha appoggiato sono dei “sinceri conservatori”, ma i supporter di DeVore, Campbell e Vander Plaats non dimenticheranno facilmente l’offesa ricevuta.

    I sindacati avevano concentrato la loro potenza di fuoco sull’Arkansas: la AFL-CIO aveva giurato vendetta contro il “tradimento” di Blanche Lincoln, che aveva votato contro la controversa proposta di legge per istituire il “card check”, norma che, secondo molti, porterebbe alla sindacalizzazione forzosa del settore privato. Dopo aver sprecato più di dieci milioni di dollari, i sindacati si sono inimicati la Casa Bianca proprio mentre si sta facendo faticosamente strada nel Congresso un piano di bailout per i loro fondi pensione, che rischiano la bancarotta. L’ostentata discesa in campo dei sindacati ha poi costretto la Clinton Machine a fornire alla Lincoln quell’ultima spinta che le ha garantito la nomination. L’intera operazione non ha senso: spendere così tanto denaro solo per dimostrare la propria forza è una tattica tanto stupida quanto controproducente.

    I Tea Party e l’establishment del GOP hanno problemi simili: finora hanno provato a combattere tutte le battaglie, frazionando le proprie risorse e finendo col fare una serie di brutte figure. Se Chuck DeVore era sicuramente il candidato più vicino ai principi dei Tea Party, non aveva la benché minima speranza di spuntarla contro Carly Fiorina, pronta a spendere qualsiasi cifra pur di vincere. Stesso discorso per i boss del GOP. La Haley stava sullo stomaco all’apparato del partito? Bene, se la vedessero da soli, senza impegnare le scarse risorse del RNC in una lotta dall’esito tutt’altro che scontato.

    Il caso di Vaughn Ward nell’Idaho è poi emblematico: Ward era riuscito a garantirsi una montagna di endorsements, fondi in abbondanza e chi più ne ha più ne metta. Sembrava il candidato ideale; allevato da una madre single, veterano della Guerra del Golfo, tutto perfetto. Poi, con l’avvicinarsi delle elezioni, il disastro: prima si scopre che la moglie è una dipendente di Fannie Mae, vera bestia nera dei conservatori; poi, durante un dibattito, Ward dice che Porto Rico è uno stato (è un territorio dell’Unione); infine, a pochi giorni dalle elezioni, esce un video su YouTube che dimostra come abbia copiato buona parte dei suoi discorsi da Barack Obama. Risultato? Raul Labrador, candidato favorito dai Tea Party, vince con più di dieci punti di distacco. L’RNC difficilmente potrà permettersi errori del genere a novembre, quando dovrà affrontare la macchina democratica, gonfia di soldi e potere. Speriamo che entrambi abbiano imparato la lezione.

    A novembre le elezioni di Mid-term, mentre Sarah Palin azzecca le sue mosse | Libertiamo.it

  6. #6
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    Predefinito Rif: * Verso le Elezioni di Medio Termine - USA '10 *

    Il risveglio della Right Nation


    Nikki Haley è la candidata ufficiale del Grand Old Party (GOP), l’altro nome del Partito Repubblicano, per il seggio di governatore del South Carolina che verrà messo in palio il 2 novembre in concomitanza delle elezioni di medio termine. Nikki Haley ha surclassato gli avversari, dentro e fuori il partito: ha battuto il rivale Repubblicano Gresham Barrett con il 63% dei voti e ora i sondaggi la danno al 55% dei favori popolari sullo sfidante Democratico di novembre, Vincent Sheheen, solo al 34%. Nikki Haley ha tranquillamente passeggiato sopra le maldicenze, le calunnie e i colpi bassi che hanno inutilmente tentato di tutto per chiuderla in un angolo. Nikki Haley fa paura alla politica statunitense perché Nikki Haley è espressione vincente del ritorno della “Right Nation”, oggi agghindata per le feste dei “Tea Party”.

    E Nikki Haley, trionfando nel ballottaggio di martedì, grida al Paese ma soprattutto a certi quartieri di Washington una verità che oggi negli Stati Uniti si fa più cogente ogni ora che passa: essere Repubblicani non basta. Dentro quel partito, che da tempo, pur se talora obtorto collo, funge da casa dove più comunemente si ritrova sul piano elettorale la Destra popolare e culturale, occorre essere conservatori. Princìpi non negoziabili, difesa della persona contro il relativismo, governo temperato secondo il dettato costituzionale della nazione, riduzione della pressione fiscale, libertà reale d’intrapresa, lotta al terrorismo internazionale, difesa coscienziosa della cultura occidentale. Questo serve, dicono i conservatori che anche in politica non si accontentato più solo di essere Repubblicani, a loro, all’America, al mondo. E questo è ciò che fa tremare l’establishment del GOP attendista, “moderato” e di frequente persino liberal, anzitutto perché adesso questo linguaggio sta diventando, grazie ai candidati spesso vincenti sostenuti dai “Tea Party”, una realtà imperiosa, destinata a proiettare la propria immagine e a far sentire il proprio peso ben oltre le elezioni di autunno.

    Capitava anche prima, certo, ma capitava solo di rado che i nomi importanti del GOP rimarcassero così tanto la differenza, e apertamente in pubblico, fra l’essere Repubblicani e l’essere Repubblicani conservatori. Per molto tempo, l’establishment ci ha marciato facendo finta di non cogliere l’ambiguità, dunque alimentandola strumentalmente presso gli elettori e così vivendo di rendita. Ma oggi la musica è cambiata, ed è cambiata soprattutto perché gli elettori non cascano più nella trappola. Se votano Repubblicano, lo fanno (come sempre) sotto condizione, ma a questo punto il prezzo dello scambio è salito, molto. La cosa non impedisce ovviamente all’establishment del GOP di continuare a strumentalizzare la questione, ma nel frattempo ci hanno guadagnato il diritto cittadinanza politica certi esponenti cristallini della Destra conservatrice che si mostrano senza vergogna autonomi e liberi rispetto ai diktat di partito, e che soprattutto sono sempre più forti di una constituency granitica. Per certo, dopo novembre il GOP non sarà più quello di prima.

    Quando Nikki Haley saluta gli elettori e i finanziatori con uno spot televisivo in cui si descrive Repubblicana, sì, ma anzitutto conservatrice “Dio, patria famiglia”, il messaggio raggiunge certamente i sostenitori entusiastici che altro non domandano, ma nel quartier generale del GOP fa suonare all’istante tutti i campanelli d’allarme. Quando, sempre in South Carolina, Timothy E. Scott sbaraglia gli avversari con quasi il 70% dei suffragi e si conquista la candidatura d’autunno per il primo distretto congressuale federale in rappresentanza di quello Stato, e lo fa mostrando senza vergogna la sua faccia nera come quella del presidente Barack Hussein Obama ma a differenza di lui posizionata orgogliosamente a destra dello spettro politico, quando egli ostenta spavaldo al Paese il supporto ricevuto da Sarah Palin, non certo quello di qualche inutile burocrate di Washington, e quando si fa pubblicità per tivù attraverso una scritta fissa che dice senza mediazioni “Tim Scott. Un Repubblicano conservatore per il Congresso” significa davvero che la sostanza ha preso il posto della retorica vuota e che la lunga marcia intrapresa nel deserto 45 anni fa dal senatore dell’Arizona Barry M. Goldwater (1909-1998) è finalmente arrivata alla meta.

    In America si è risvegliata la "Right Nation" | l'Occidentale

  7. #7
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    Predefinito Rif: * Verso le Elezioni di Medio Termine - USA '10 *

    Viaggio di ScenariPolitici.com nei 50 Stati americani in vista delle elezioni di Mid Term, con la collaborazione di Giovanni del blog Giova.


    USA 2010, Vermont, 1/50

    USA 2010, Wyoming, 2/50

    USA 2010, North Dakota 3/50

    USA 2010, Alaska, 4/50
    Dato che questa è una Magnum 44, cioè la pistola più precisa del mondo, che con un colpo ti spappolerebbe il cranio, devi decidere se è il caso. Dì, ne vale la pena? ("Dirty" Harry Callahan)

  8. #8
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    Predefinito Rif: * Verso le Elezioni di Medio Termine - USA '10 *

    Those Stubborn Toss-Ups

    Larry J. Sabato, direttore del Center for Politics all'Università della Virginia, esamina gli scontri di novembre più incerti per il Senato:

    Those Stubborn Toss-Ups - Rasmussen Reports™

  9. #9
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    Predefinito Rif: * Verso le Elezioni di Medio Termine - USA '10 *

    Obama ha una fifa blu dei sondaggi e delle prossime elezioni di mid-term


    A che punto è l'audacia della speranza che ha rialzato un popolo almeno nella considerazione della gente ai tanti angoli della terra e gli ha fatto delineare all'orizzonte un nuovo inizio per restaurare su una base di aggiornata legittimita l'antica primazia? Con un carisma che ha lasciato via via smalto, Barak Obama continua a mettere in cantiere l'agenda di governo. Una sfida dopo l'altra. La storica riforma sanitaria faticosamente varata a Capitol Hill, e adesso tocca al sistema finanziario che tanti guasti ha prodotto nel paese. Il presidente spinge per tempi rapidi di approvazione e un secondo voto in Senato, dopo quello del 30 giugno alla Camera dei rappresentanti, potrebbe avvenire già questa settimana.

    A riportare il sorriso alla Casa Bianca ci pensa Scott Brown, il senatore repubblicano del Massachusetts che ha strappato ai democratici il seggio di Ted Kennedy. Ha detto di apprezzare gli sforzi fatti per migliorare la legge, segnatamente "la rimozione della tassa di 19 miliardi di dollari per le banche", a tal punto da annunciare voto favorevole. Voto cruciale perché consentirebbe ai democratici di raggiungere quota 60 seggi, e dunque la certezza della approvazione della legge. E non è finita perché potrebbero votare sì anche le senatrici repubblicane del Maine Susan Collins e Olympia Snow.

    Altra sfida già annunciata è quella dell'immigrazione. All'American University di Washington il presidente ha tenuto ai primi di luglio uno dei suoi discorsi ispirati, mettendo sul tavolo l'urgenza per il Congresso di occuparsi della sorte degli undici milioni di immigrati illegali. Un'altra enormità insieme con quella di 45 milioni di americani senza assistenza sanitaria che l'America, paese fondato da persone venute da fuori e diventato quello che è diventato proprio grazie a loro, non può non affrontare. L'America che Thomas Jefferson voleva terra d'asilo per "l'umanità oppressa", il luogo dove vivere, lavorare e pregare liberamente, ancora oggi un magnete che da ogni parte del mondo attira i migliori e i più brillanti.

    C'è una forza lavoro giovane, americani non per il sangue ma per la fede nei valori fondativi degli Stati Uniti d'America. Undici milioni di immigrati che contribuiscono a creare la ricchezza del paese. Fanno lavori umili, spesso pagati con pochi dollari ma perloppiù non pagano tasse e gravano sul sistema sanitario e scolastico. Impossibile una colossale amnistia. La Casa Bianca punta a un percorso di legalizzazione per gli undici milioni di clandestini, un sistema per quanto possibile bipartisan che "resti fedele alla nostra storia di nazione di immigrati e al tempo stesso garantisca il rispetto delle regole". Ma qui la partita si fa difficile, perché l'Amministrazione democratica ha deciso di trascinare in tribunale lo Stato dell'Arizona guidato dalla repubblicana Jan Brewer per una legge che entrerà in vigore a fine mese, durissima contro i clandestini e che però piace alla maggioranza degli americani. L'attorney general Eric Holder sostiene che l'immigrazione è competenza federale e che non hanno senso tante leggi locali e statali per regolare questa materia. Ad inquietare c'è soprattutto il "racial profiling". Gli immigrati debbono circolare minuti di un documento di identità, la polizia puo fermare e indentificare se ha il "ragionevole sospetto" anche dai dati somatici di trovarsi davanti un clandestino.

    Ma la legge voluta del 70 per cento della gente dell'Arizona piace agli americani e questo ha messo in allarme i governatori democratici che hanno chiesto ed ottenuto durante il fine settimana un incontro a porte chiuse alla Casa Bianca."Avrei agito diversamente e avrei scelto un altro momento per criticare l'Arizona" protesta il governatore del Colorado, "avrei aspettato che la legge entrasse in vigore e che i cittadini notassero le difficoltà di attuarla, prima di fare causa". I capi del partito democratico temono che il governo si mostri poco determinato di fronte ai clandestini e la reazione positiva della gente alla drastica legge dell'Arizona suona la sveglia per le elezioni di mid term a novembre quando saranno rinnovati tutti i 435 deputati e 36 dei 100 senatori.

    I governatori repubblicani ovviamente cavalcano la battaglia della collega Jan Brewer: "L'Arizona vincerà e sarà un esempio per tutta l'America". Che tiri brutta aria lo pensa e lo ammette anche la Casa Bianca se il portavoce Robert Gibbs non nasconde che a novembre i democratici potrebbero perdere la maggioranza alla Camera dei rappresentanti. Uno scenario confermato dai sondaggi. Ecco, se Obama perdesse il controllo della Camera, sarebbe la fine del suo piano per riformare l'America. "Immaginate" provoca Gibbs "John Bohener uno che non crede alla crisi finanziaria speaker al posto di Nancy Pelosi, oppure quel Joe Barton quello che si è scusato con l'ad della Bp e non con la gente del Golfo...". Per tutto questo il presidente è passato all'offensiva e per due giorni si è ributtato in campagna elettorale al fianco dei suoi candidati nell'Ovest americano, brandendo contro i repubblicani anche le armi dell'ironia e del sarcasmo, raramente utilizzate durante la corsa presidenziale del 2008. A completare il quadro rimane da dire che Sarah Palin sta pensando seriamente alla Casa Bianca. Almeno a giudicare dalla dichiarazione dei redditi da cui risulta che procede a gonfie vele la sua macchina per la raccolta di fondi.

    Obama ha una fifa blu dei sondaggi e delle prossime elezioni di mid-term | l'Occidentale

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    Predefinito Rif: * Verso le Elezioni di Medio Termine - USA '10 *

    Barack Hussein a pezzi


    Fanno sapere, giornali e telegiornali, che la popolarità di Barack Obama sta crollando come una casa di cartapesta scossa da un terremoto micidiale. Fregatevene, passate oltre, non è importante. Il dato rilevante, che nessuno dice, vuoi per ignoranza o superficialità, è un altro. Ieri, per la prima volta, Real Clear Politics, aggregatore affidabile di tutti i sondaggi che l’America partorisce di minuto in minuto, ha pronunciato un verdetto in grado di raggelare le fondamenta stesse di Capitol Hill. Se le mid-term si fossero tenute ieri anziché a novembre, i Democratici avrebbero infatti perso il controllo del Senato. Terrificante. Il partito del Presidente conterebbe 49-50 seggi, 9-10 in meno rispetto ad oggi, contando anche i due indipendenti Lieberman e Sanders. I Repubblicani, invece, passerebbero dagli attuali 41 a 48-49, escluso il Governatore della Florida Charlie Crist, fresco di rottura con il Grand Old Party e favorito per accaparrarsi il seggio messo in palio dallo Stato del Sud-Est.

    Un quadro pessimo per Obama, più di quanto si potesse immaginare qualche settimana fa, quando l’unica certezza sembrava essere quella di una probabile perdita di maggioranza alla Camera dei Rappresentanti. Il sistema istituzionale statunitense è chiaro nella sua semplicità: senza Senato, un Presidente diventa un mero amministratore di condominio. Un po’ come toccò a Bill Clinton nel 1994, costretto a riporre nel cassetto tutti i sogni di cambiamento epocale covati il tempo di una campagna elettorale e di un biennio alla Casa Bianca. Emblema dell’impossibilità di indirizzare la barra della politica fu l’aborto della possibile riforma sanitaria abbozzata dalla first lady Hillary. Barack Obama rischia di fare la stessa fine. Cucinato a fuoco lento dalle lobby del Congresso pronte a dargli il colpo di grazia alle presidenziali del 2012, sempre che queste ultime siano in grado di trovare un candidato attorno al quale coagulare il crescente ed ormai radicato malcontento nei confronti dell’attuale amministrazione. Non un nuovo Bob Dole, ma neppure ex governatrici dell’Alaska. Sarah Palin, infatti, non fa parte della rosa dei papabili. Non può. Lo sa il partito, lo sa lei. Un Obama vs Palin non farebbe altro che lasciare al candidato democratico tutto quel pacchetto di voti che dal centro spesso orientano l’esito della competizione elettorale. Un candidato fortemente posizionato a destra, perennemente pronto a cavalcare l’onda populista e post-reaganiana, non avrebbe molte speranze di portarsi a casa molti swing States, confermando di fatto per un ulteriore quadriennio un Presidente con un indice di gradimento basso.

    Probabilmente, sarebbe un’elezione favorita da un astensionismo record, prodotto dalla delusione per tutto ciò che Barack Obama non sarà riuscito a fare. Ma questi sono discorsi di domani, prematuri. Siamo appena a metà mandato, eppure un verdetto decisivo già incombe sulle spalle del più votato Presidente della bicentenaria storia degli Stati Uniti. E i prossimi saranno mesi di fuoco, alla disperata ricerca di voti per continuare a navigare a vista tra i mari sempre più mossi di un mandato finora incolore. E quando i voti servono come l’acqua potabile, si fanno compromessi. Vedremo di che tipo.

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