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    Predefinito Benjamin Disraeli e la "democrazia tory"

    Disraeli, il dandy ferrarese che diventò leader dei Tory

    di Richard Newbury

    Corriere della Sera, 25 settembre 2003





    «Quando voglio leggere un libro, ne scrivo uno», affermò questo scrittore popolare dalla vita simile a un romanzo mentre scalava l' albero della cuccagna per diventare, contro ogni previsione, primo ministro. Immigrante ebreo italiano della classe media, bisessuale, dandy e intellettuale, Benjamin Disraeli riuscì comunque a diventare leader dei Tory, il partito dei gentiluomini di campagna della classe alta e anglicana per i quali i libri, le idee e gli stranieri - soprattutto quelli che si truccavano - erano un abominio. Disraeli sosteneva che la sua famiglia era stata sradicata dal Portogallo e costretta a rifugiarsi a Venezia dall' Inquisizione, mentre in realtà era emigrata dalla Turchia a Cento, in provincia di Ferrara. Ma del resto, quanto ai dati anagrafici, ci si può aspettare una certa parsimonia nell' uso della verità da parte di un Cancelliere dello Scacchiere secondo il quale «esistono bugie, enormi bugie, e poi ci sono i dati contabili» e «un politico usa i dati come un ubriaco il lampione: non per la luce, ma per il sostegno».

    Suo nonno si trasferì a Londra diventando un agente di borsa di successo, mentre suo padre divenne un uomo di lettere che battezzò il già dodicenne figlio Benjamin (nato nel 1804) come anglicano, per seguire il consiglio di un amico. «La pagina bianca tra il Vecchio e il Nuovo Testamento»: ecco come Disraeli descriveva la sua posizione religiosa. «Tutti gli uomini saggi appartengono alla stessa religione». «Quale?». «Gli uomini saggi non lo dicono mai». La sua breve educazione in una Scuola unitaria sfociò in un' eterna animosità contro la classe media evangelica liberale, cosa che faceva di lui il perfetto avversario del leader del partito liberale Gladstone, che non aveva «neppure un difetto perdonabile» ed era «inebriato dall' esuberanza della sua stessa verbosità». «Non importa se Gladstone ha un asso nella manica, il guaio è che secondo lui è Dio ad avercelo messo!». Di se stesso Disraeli scrisse: «La sua ambizione era grande tanto quanto era veloce la sua intelligenza. Vedeva tutto e capiva tutti in un lampo; e credeva che ogni cosa detta o fatta dovesse essere piegata a contribuire alle sue fortune. Gli stratagemmi gli venivano naturali, come il frutto a un albero».

    Abbandonato a 17 anni il tirocinio in legge - l' ultimo lavoro pagato prima di diventare Cancelliere dello Scacchiere a 48 anni - dopo un esaurimento nervoso, scrive prospetti per dubbie partecipazioni azionarie nelle miniere del Sudamerica e nel 1825 fonda The Representative, un quotidiano che perde 25 mila sterline. Per nulla scoraggiato, Disraeli scrive il romanzo di successo Vivien Grey sulla vita alla moda alla quale aspira. Vantava due grandi abilità. La prima era conquistare il cuore delle donne: la preda più importante fu la sua «primula», la Regina Vittoria. «Tutte adorano le lusinghe, e quando arrivi alla famiglia reale le adulazioni grossolane vanno ancora meglio», diceva. Poi era straordinario nel riuscire a farsi prestare soldi dagli uomini. Così fece in modo che Sarah e Benjamin Austen gli pagassero i tour dell' Europa, e poi a 25 anni, con debiti «ai quali era sempre più affezionato», un lungo viaggio nel suo «nativo» Vicino Oriente. Un luogo centrale nel suo mondo, e in quella visione etnica di se stesso come appartenente all' aristocrazia ebrea, più antica ancora di quella inglese.

    Il primo passo fu entrare in Parlamento quando la Reform Bill del 1832 sembrava avere distrutto il partito Tory. «Il movimento Tory è esaurito, e non posso adattarmi a essere un Whig. Comincerò allora come il più radicale dei radicali». Dopo essersi presentato alle elezioni come un radicale «rosso» per tre volte senza successo, questo «intellettuale dall' aspetto squisito» riesce a farsi candidare tra le file dei Tory a Taunton, dove si era presentato grazie a una «relazione intima» con Lord Lyndhurst, il Lord Cancelliere tory. Il suo manifesto elettorale comunque si fa notare per la re-invenzione dell' intero spettro politico. I Whigs della rivoluzione del 1688 e del Reform Bill del 1832 erano per lui un' oligarchia aristocratica oppressiva sostenuta da una classe media utilitaristica. Il reazionario partito Tory a suo parere doveva ora allearsi con i «Chartists» (un movimento che auspicava l' adozione in Gran Bretagna di una «Carta del Popolo» e del suffragio universale) e con le classi lavoratrici perché «i diritti del lavoro sono sacri quanto i diritti di proprietà». Il suo Sybil or Two Nations (i ricchi e i poveri, ndr), del 1845, crea il moderno conservatorismo dello slogan «One Nation», sebbene per Disraeli «un governo conservatore è solo ipocrisia organizzata» e, diceva con ironia, «è solo durante una crisi che si lasciano prendere dal panico!».

    Un' altra coppia molto ricca, i Wyndham Lewis, lo finanziarono perché diventasse il rappresentante in Parlamento di Maidstone - il corrotto seggio «Eatandswill» («mangia e bevi») nei Pickwick Papers di Dickens - e sposa la ricca vedova Lewis, di 12 anni più vecchia di lui. «Tutti i miei amici che si sono sposati in nome dell' amore e della bellezza picchiano le loro mogli o vivono lontano da loro. Potrò commettere molte follie in vita mia, ma non mi sposerò mai per amore». In effetti il matrimonio con quella specie di madre devota che lui non aveva mai avuto fu un successo. «Dizzy mi ha sposato per i miei soldi - diceva lei -, ma se avesse l' occasione di ripetere la scelta, mi sposerebbe per amore».

    Non ci fu invece grande amore con il primo ministro Robert Peel, «il cui sorriso era come gli ornamenti d' argento su una bara», che convertì i Tory al libero scambio. Peel negò a Disraeli un ministero e lui, che sosteneva quindi il protezionismo, fece cadere il suo governo e divenne l' improbabile leader del partito Tory all' opposizione. Finalmente nel 1852 entrò al governo come Cancelliere. Nemico viscerale del nazionalismo italiano, il suo secondo mandato come Cancelliere durò solo dal 1858 al 1859 (per fortuna dell' Italia). Di nuovo Cancelliere nel 1866, Disraeli sottrasse la riforma parlamentare a Gladstone nel 1867 creando così, attraverso la sua politica populista e imperialista, un nuovo partito rivolto alle masse. In qualità di primo ministro nel 1868 e nel 1874-1880 introdusse, in base alla formula «One Nation», riforme nell' educazione, nei sindacati, sanità pubblica e lavoro minorile. La regina Vittoria, che grazie a lui diventò imperatrice d' India, lo nominò conte di Beaconsfield. Ecco il ritratto dedicato dalla sovrana alle attrattive del suo latin lover: «E' una persona strana, molto intelligente, affidabile e conciliante... Pieno di poesia, romantico e galante».

    Newbury Richard



    http://archiviostorico.corriere.it/2...30925078.shtml
    Ultima modifica di Florian; 26-05-10 alle 09:18

  2. #2
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    Predefinito Rif: Benjamin Disraeli e la "democrazia tory"

    L’impero britannico dell’oriundo Disraeli





    Ci aspetta una lunga campagna elettorale. Un bombardamento continuo di strepiti, urla e confusione. Ci vorrebbe un gran romanziere per mettere ordine tra tutte le parole in libertà che ascolteremo. Un nome, io l’avrei…

    Sgombro il campo da ogni equivoco: non penso né al Veltroni, né al suo vice Franceschini, letterato molto più dotato del capo. In mente ho un oriundo di gran classe: Benjamin Disraeli. Britannico, di non lontane origini ferraresi, ricoprì per due volte la carica di premier durante il regno della regina Vittoria, tra il 1868 ed il 1880. Instancabile bardo delle virtù inglesi, spinse i confini dell’impero di Albione sino all’India, siglò la pace di Santo Stefano con la Russia, pose fine al Grande Gioco asiatico. E’ rimasta leggendaria la sua rivalità politica con William Gladstone. In tempi recenti, nessuno storico italiano lo ha considerato degno di attenzione. Sul catalogo on line del servizio bibliotecario nazionale è presente un solo titolo a lui dedicato, piuttosto vecchiotto: “L’ebreo che tenne in pugno l’impero britannico” di Nino Alano, edito da De Vecchi nel 1967. Molto più utile la lettura di una serie di articoli in cui Richard Newbury ne ha descritto la carriera, apparsi su “Il Foglio” nell’estate del 2006. La sua figura è rimasta chiusa nel cliché marxista di imperialista anglicano. Giova ricordare, però, la sua origine ebraica, evidente sin dal nome. Ferrara era e resta un città in cui risiede una sviluppata comunità israelita. Sufficiente prova di questa presenza “Il giardino dei Finzi-Contini”.

    Il merito maggiore di Disraeli è quello di avere trasformato il partito conservatore nel partito delle idee, caratteristica che i tories hanno mantenuto fino all’era blairiana. Ci è riuscito puntando su una dote tutta particolare: avere scritto numerosi romanzi storici, per la cui stesura si era a lungo preparato studiando il carattere della nazione inglese nei suoi snodi fondamentali. In più, Disraeli aveva due talenti: l’essere uno sfacciato ed esasperante promotore di sé stesso e l’assoluta mancanza di scrupoli nel rubare agli altri idee valide ed attribuirsene la paternità. Forse anche queste qualità ferraresi, se si ricorda la capacità visionaria di Alberto Savinio. Partito militante liberale, capì che la gestione dogmatica dei whigs sarebbe stata disastrosa per il futuro della culla della rivoluzione industriale. Decise di candidarsi con i tories, una volta in Parlamento iniziò a scalarne la leadership, adottando per la sua corrente un nome ed un programma mazziniano, “Giovane Inghilterra”.

    Escogitò un modo rivoluzionario per farsi pubblicità: diventare uno scrittore di grido, come Walter Scott. Proprio nella seconda metà dell’Ottocento, l’uso dei libri si era diffuso a sufficienza perché la lettura potesse divenire un efficace strumento di propaganda presso gli agiati proprietari terrieri, gli industriali rampanti ed il clero anglicano. Le trame dei libri di Disraeli sono un vero e proprio programma di conciliazione tra gli interessi di ceti tanto diversi. Sybil, il cui sottotitolo è “La storia di due nazioni”, fu il manifesto del torysmo one nation, declinazione politica messa da parte solo dalla Thatcher, oggi tornata in auge con l’avvento di Dave Cameron. Non più un partito appiattito sulle posizioni della Chiesa di stato, ligio ai desiderata della gentry campagnuola. Ma aperto al futuro, al mondo, alle sfide dell’industria, da affrontare con una buona dose di pragmatismo e fiducia. Disraeli con strumenti retorici di destra svolse una politica riformatrice: si fece carico delle classe disagiate, dello sviluppo di istruzione (il suo pallino), agricoltura, commercio, di un sistema finanziario efficiente. Sotto di lui, l’Impero britannico non solo divenne padrone di 2/3 del globo, ma anche faro di civiltà.

    Il premier ritagliò per sè un ruolo analogo al personaggio di un altro suo romanzo: Medina Sidonia. Romantico, distonico rispetto ad un’era che viveva l’esaltazione positivista, credeva di appartenere al ceppo superiore dei figli del deserto, abitanti di un Oriente tutto fantastico. Sembra oggi strano, visto come sono andate le cose, ma nell’Ottocento si era diffusa l’idea che la vera razza dominante fosse quella semita. Ex Oriente lux: formula valida per ogni campo dello scibile. In ossequio a queste credenze, Disraeli aspirava, millantando una sapienza bimillenaria, ad assumere il ruolo di consigliere e guida illuminata per il mondo. Ci riuscì per l’Inghilterra. Il suo conservatorismo compassionevole, rivolto al futuro può essere utile anche in Italia.

    Raffaele Caroccia


    L’impero britannico dell’oriundo Disraeli
    Ultima modifica di Florian; 26-05-10 alle 09:34

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    Predefinito Rif: Benjamin Disraeli e la "democrazia tory"


    Disraeli e la regina Vittoria in una caricatura dell'epoca



    Disraeli e il cancelliere Bismarck
    Ultima modifica di Florian; 26-05-10 alle 09:00

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    Predefinito Rif: Benjamin Disraeli e la "democrazia tory"

    Alle radici del conservatorismo moderno: Benjamin Disraeli

    di Francesco Galietti

    Ragionpolitica, 12 marzo 2005





    Il giornalismo, si sa, si muove a colpi di formule e simboli, ecco quindi spiegata almeno in parte la spasmodica ricerca di un padre spirituale per il neoconservatorismo. L'attribuzione della paternità del neoconservatorismo USA è, infatti, sempre più indispensabile a studiosi e giornalisti che sono alle prese con i trionfi della dottrina neocon, sanciti dalle elezioni in Iraq e dalle manifestazioni in Libano. Già nei mesi scorsi ci si era sforzati invano di trovare un papà ai neocon americani. C'era chi aveva indicato in Winston Churchill l'antesignano del neoconservatorismo, ma molti neocon si erano indignati, indicando piuttosto in Leo Strauss il loro riferimento ideale. Altri ancora additavano Barry Goldwater, altri andavano indietro fino ad Abramo Lincoln. Già capite che il rischio palese è quello di dare vita a una babele vera e propria in cui ognuno vuole ad ogni costo dire la sua. Una via alternativa per trovare il bandolo della matassa potrebbe essere quello di vedere nei neocon lo stadio attuale di evoluzione del conservatorismo mondiale, e di andare dunque alla ricerca dei primi pensatori conservatori moderni, che innegabilmente, vuoi direttamente vuoi indirettamente, possano vantare uno ius sanguinis nei confronti dei neocon USA. In questa maniera riusciremmo pure a sgombrare il campo da particolarismi prettamente americani, che rischierebbero di farci perdere di vista il comune fondo marino su cui poggia il conservatorismo moderno. Con il che molto probabilmente ci complichiamo la vita ancora di più, ma non importa, siccome avremo modo di confrontarci con i primi titani del conservatorismo moderno.

    Cominciamo dunque la nostra rassegna da Benjamin Disraeli, due volte primo ministro della Gran Bretagna, romanziere romantico, molto probabilmente il primo conservatore moderno e soprattutto primo neocon. Non è un'esagerazione, siccome la carriera politica di Benjamin Disraeli cominciò a sinistra, come quella di quasi tutti i neocon del giorno d'oggi. Se è vero che il conservatorismo risale quantomeno alla nascita delle società organizzate, il conservatorismo moderno, inteso come movimento di massa, come una filosofia che non fosse appannaggio degli aristocratici e dei ricchi, ma di tutti, fu un'invenzione di Disraeli. Disraeli entrò in politica come indipendente dalle spiccate tendenze "radical", e alcune gli rimasero per tutta la vita. Ad ogni buon conto, al momento di sedersi per la prima volta in parlamento, Disraeli era già un Tory, e lo rimase fino alla morte. Un Tory di un genere mai visto: un ebreo convertito al cristianesimo che credeva nella democrazia e rigettava i mali dell'"esclusione". Il Reform Act del 1832 aveva d'altronde reso impossibile il perdurare di un "partito dei ricchi". Prima di questa norma, i Tory erano un partito fatto di opulenti proprietari terrieri, una composizione questa che non poteva che cambiare con il Reform Act: per quanto danarosi, i ricchi non costituiscono comunque mai la maggioranza di una nazione. Questo dimostra la stupidità delle accuse che oggi vengono rivolte in Inghilterra ai Tories e soprattutto in USA ai repubblicani. Nella recente campagna elettorale, il marchio di "partito dei ricchi" è stato coniato da John Edwards per infamare i repubblicani, per quanto sia evidente che questa tesi sia smentita dalla realtà dei fatti.

    I Tories dovevano cambiare, insomma, pena l'estinzione. E Disraeli fu l'uomo che guidò la svolta. I Tories avevano in buona sostanza una duplice alternativa: o trasformarsi in una versione annacquata di sé stessi, oppure dare vita a qualcosa di nuovo e originale. Disraeli era dell'avviso che la seconda alternativa fosse una scelta obbligata. Riuscì a fare in modo che i Tories cominciassero a rivolgersi alle problematiche sociali e alla democrazia, a essere "partito di massa" e al tempo stesso a onorare le tradizioni romantiche. In altre parole, fece sì che il partito somigliasse a quello che lui aveva in mente.

    Disraeli raggiunse il controllo del partito con una manovra tra le più bizzarre di tutta la storia parlamentare britannica. I Tories dell'immediato post- Reform Act erano un partito a pezzi ancorché al potere, guidato da Sir Robert Peel, e l'interregno di costui sarebbe stato molto più lungo se Disraeli non avesse avuto uno dei guizzi che caratterizzarono la sua carriera politica. Nel 1841 Peel divenne primo ministro dopo che i Whigs, l'altra forza politica predominante in campo, aveva perso un voto di fiducia. Peel decise di abolire le leggi sul grano nel 1846, con ciò inimicandosi i "vecchi" del proprio partito. Disraeli, che pure non era amante delle leggi sul grano, da lui ritenute troppo protezioniste, cavalcò la ribellione interna tra i Tories e destituì Peel. Più tardi Disraeli non mancò di rigettare le leggi sul grano, ma il suo scopo, la testa del partito valeva bene una messa. Disraeli riuscì, grazie a quel partito, a porre le basi per un'idea di conservatorismo che è attuale ancora oggi.

    Per Disraeli,la nazione è uno status mentale, una sensibilità o una coscienza che arriva da uno sconfinato passato. Poiché si tratta di uno status mentale, non è facile da comunicare in termini razionali più di quanto non valga per un sentimento religioso. Sta al singolo individuo essere sensibile in misura tale da sintonizzarsi sulla frequenza conservatrice. Per dirla con William Blake: «Odi la voce del Bardo!». Se una persona è sufficientemente sensibile per "sintonizzarsi" con la propria nazionalità (cioè essere consci della propria storia, degli antenati e delle istituzioni antiche), diviene parte di un organismo vivente; prende posto all'interno di un continuum, un'entità vivente che esiste da quando ha cominciato a esistere la sua nazione e continuerà a vivere fintanto che la nazione vivrà. Proprio in questo sta la gran differenza con il progressismo: quest'ultimo è, infatti, meramente razionale e fondato sulla ragione. Il conservatorismo, per contro, siccome si fonda sul concetto di nazione, è poetico e ricco di passioni. E a questo si riduce anche l'essenza della differenza tra conservatori di oggi e progressisti. Come nota David Gelernter nel suo bellissimo articolo del 7 febbraio 2005 sul Weekly Standard, i progressisti oggi sono perlopiù maggiormente vicini a Disraeli che a Marx, tuttavia hanno un approccio nei confronti della storia e del proprio passato nazionale radicalmente diverso. Un liberal oggi verosimilmente è molto più propenso a vedere solo misfatti e vergogne nella storia Americana. I conservatori, soprattutto quelli realisti, sono invece più inclini a trovarvi tappe di cui andare orgogliosi.

    Francesco Galietti


    RAGIONPOLITICA.it - Alle radici del conservatorismo moderno: Benjamin Disraeli
    Ultima modifica di Florian; 26-05-10 alle 09:38

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    Predefinito Rif: Benjamin Disraeli e la "democrazia tory"


    Il giovane Disraeli
    Ultima modifica di Florian; 26-05-10 alle 09:42

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    Predefinito Rif: Benjamin Disraeli e la "democrazia tory"


    Disraeli è tornato... di moda!



    Disraeli icona moderna



    Disraeli in versione pop-art
    Ultima modifica di Florian; 26-05-10 alle 09:26

 

 

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