INTRODUZIONE A "ISRAELE SIAMO NOI", di Fiamma Nirenstein - Prima Parte
Israele siamo noi
di Fiamma Nirenstein
INTRODUZIONE
Queste pagine si propongono di rovesciare una concezione corrente, radicata, talora ossessiva.
Il mio assunto è molto semplice: Israele, al contrario di quello che suggerisce una propaganda pervasiva e ormai diventata senso comune, è un modello positivo e un caso di studio per chiunque si trovi a vivere in una società democratica che debba eventualmente affrontare una guerra di difesa cui tutto l’universo della democrazia occidentale è costretto. Parlo dunque di noi, della nostra società, quella occidentale: essa è attaccata come non mai in precedenza dall’estremismo islamico ormai organizzato in un asse che gestisce le migliori armi moderne e un’infinita riserva di terroristi sotto l’egida indiscutibile e non negoziabile del credo religioso. La sua costruzione propagandista e storicamente infondata si incentra su Israele come perverso «occupante» di territorio che non gli spetta, e quindi sul sionismo come ideologia imperialista e colonialista. L’invenzione del tema dello Stato di apartheid, che è la prosecuzione della risoluzione Onu n. 3379 del 1975 che equiparava il sionismo al razzismo, è tanto diffusa quanto del tutto priva di fondamento. Anche l’idea che il Secondo Tempio non sia mai stato sul Monte dove oggi sorge la spianata delle Moschee è stata definita da un archeologo di prima grandezza come Gabi Barkai «una menzogna peggiore della negazione dell’Olocausto, eppure collegata ad essa». Ambedue queste idee, infatti, sono tasselli di un mosaico che ha eroso il concetto della legittimità dello Stato d’Israele, ha rifiutato il pure evidente diritto del popolo ebraico, l’unico che abbia mai esercitato una sua sovranità su quel pezzo di terra vaga che sotto i romani, i greci, i turchi, gli inglesi venne chiamata Palestina e che comprendeva aree diverse dallo Stato ebraico.
Israele è uno Stato del tutto legittimo, che, per circostanze storiche e geografiche molto complesse, si viene a trovare al centro di un attacco concentrico dell’integralismo islamico che non ha niente a che fare col conflitto israelo-palestinese. Se magicamente si giungesse a una soluzione territoriale fra palestinesi e israeliani – e nessuno può augurarsi niente di diverso – e due Stati fossero finalmente disegnati nei loro confini per vivere l’uno accanto all’altro, sfido chiunque a dimostrare che allora si placherebbe l’attacco prima di tutto dei palestinesi stessi, e poi di Hamas, degli Hezbollah, della Siria, dell’Iran ormai prossimo al nucleare. Israele e gli ebrei sono al centro di un attacco ideologico pari soltanto a quello subìto alla vigilia della Seconda guerra mondiale: accusati, come li accusava Hitler, di essere loro stessi la causa delle guerre, tengono accesa la fiaccola della conquista islamista del mondo, servono allo scopo di galvanizzare un fronte sempre più largo e più organizzato. Israele è solo il fronte avanzato, di questa guerra. È il decenne Hendrich, il bambino olandese col dito nella falla della diga. Ma la guerra è contro di noi, Israele siamo noi, perché siamo attaccati dagli stessi fanatici che hanno intrapreso la reconquista islamica dopo secoli di intensa frustrazione di fronte al predominio occidentale.
Gli europei, se ne parla più avanti, sono cresciuti da ormai molti anni in un’atmosfera di bambagia che li porta a vedere l’aggressione jihadista come confronto culturale fra diversi, che li porta a immaginare che con la parola si possano sostituire i fatti, che la diplomazia non sia un mezzo per risolvere i problemi, ma un fine cui piegare la dura realtà, e che il fronte del jihad possa essere gestito frammentando il problema in questioni economiche e territoriali. Ma è solo un modo di evitare il pensiero della guerra, il grande tabù della cultura democratica.
Alexis de Tocqueville nel 1838 esprimeva, osservando l’America, un punto di vista e un’esortazione incoraggianti, che fotografano peraltro la realtà di Israele: «Penso [...] che un popolo democratico, che intraprende una guerra dopo una lunga pace, rischi più di qualsiasi altro di essere battuto; ma esso non deve lasciarsi scoraggiare dalle prime disfatte. [...] Quando la guerra prolungandosi ha, infine, strappato tutti i cittadini ai loro lavori pacifici e fatto fallire le loro imprese private, accade che le stesse passioni, che li attaccavano alla pace, li rivolgano verso la guerra. [...] Per questa ragione le nazioni democratiche, che con tanta malavoglia si fanno condurre sul campo di battaglia, vi compiono prodigi quando si è riusciti a fare loro impugnare le armi ».1 La democrazia, sostiene de Tocqueville, aliena alla guerra per natura, se vi è costretta la fa, seguitando a sprigionare le sue energie migliori e più vitali, e riesce a esprimere, sia nel combattimento sia nella vita civile che si trasforma per perseguire la vittoria, l’eccellenza della sua scelta politica di fronte alle dittature e al terrorismo. Ovvero, la democrazia, proprio combattendo il terrorismo liberticida e fascista, capisce meglio se stessa, sa per cosa vive, riconosce i propri valori, trova una strada per non tradire la propria natura.
Beninteso, parlo di una società che affronta una guerra per la vita e non per la conquista, una guerra senza scelta se non quella di combattere o di soccombere. Senza cedere a fantasie e miti, pure si può dire che questo è il grande esperimento di Israele: sviluppare il carattere e le leggi della democrazia in una situazione di conflitto. È una sfida che riguarda i massimi sistemi, il rapporto fra libertà e ordine, quello fra interessi collettivi e personali, la fierezza nel confrontare il proprio modo di vita e la propria tradizione con quello che l’ideologia nemica vuole imporre, il conservare la durezza necessaria quando si combatte e la sensibilità indispensabile a promuovere i diritti umani. Israele si è trovato ad affrontare questa sfida per primo e sulla linea del fronte con il Medio Oriente intero: e non è la prima volta che gli ebrei devono per forza, dal doloroso profondo della condizione di eccezionalità che la storia li ha spesso costretti a vivere, elaborare risposte che diventano oggetto di riflessione per tutti.
Da parecchi anni osservo Israele da giornalista: guardo la gente per strada, in guerra, a casa e altrove, e semplicemente vedo delle risposte alla più drammatica fra le domande odierne. Resistere di fronte alla delegittimazione, alla violenza, al terrorismo; queste risposte splendono nella foresta dei problemi, delle debolezze, delle imperfezioni del sistema capitalista, e persino nelle brutture che la natura umana tuttavia non manca di irradiare anche nelle migliori costruzioni sociali. Dalle parti di Gerusalemme e di Tel Aviv, dove siedono il governo e gli apparati di sicurezza, non mancano la corruzione, o la violenza sessuale, o l’incapacità, la faciloneria, la prepotenza. Certi retaggi del passato, come l’improvvisazione, sono ormai fuori tempo. Certi pavoneggiamenti maschilisti possono essere, se si vuole, ritenuti lo sfondo a recenti obbrobri, come i crimini sessuali per cui è stato incriminato il presidente della Repubblica Moshe Katzav. Nell’esercito, di sicuro stati di esasperazione e anche di perversione hanno condotto a episodi in cui il grilletto è stato facile. L’eccesso di fiducia in se stessi e nei propri miti ha portato a errori che durante la Guerra del Libano dell’estate 2006 sono costate la vita a troppi soldati, e hanno dimostrato uno stato di insufficiente preparazione e uno scarso senso di responsabilità fra i capi militari e anche nell’angolo acuto della piramide politica. Fra la gente, specie fra gli intellettuali e i giornalisti, ci sono anche molti casi di viltà, di voglia di fuggire. Il defezionismo, la critica fanatica, sono a volte semplicemente miseri, scimmiottamenti della sinistra europea buonista, esternazioni prive dello sfondo tragico su cui maturano le decisioni più dure. Israele compie errori e soffre falle come qualsiasi altro prodotto della fatica umana.
Questo non è però il fenomeno più importante, anche se dopo la Guerra del Libano è diventato quasi una moda chiedere se Israele non sia in crisi, se le invincibili forze del Mossad e dell’esercito non siano stanche, se la società secolarizzata di Tel Aviv non dia segni di cedimento. La risposta è semplicemente: no. È vero che la classe dirigente in questo momento è particolarmente fragile dopo la scomparsa fisica di Ariel Sharon e quella politica, negli anni del recente passato, di due personaggi di cui prevedo il ritorno sulla scena, Ehud Barak e Benyamin Netanyahu; è vero che all’improvviso tutti i problemi strategici e morali si sono enormemente complicati a causa dell’asse iraniano con gli Hezbollah, la Siria, con Hamas al governo dell’Autonomia palestinese. L’elaborazione della classe dirigente non è ancora compiuta, la sua difficoltà a cercare nuove strade è a volte deludente. La famosa battuta di Olmert durante la guerra, «anche noi siamo stanchi», gli è stata tante volte rinfacciata e i giovani al fronte in Libano o a Gaza rispondevano dicendomi: «Lui è stanco, noi no».
Il popolo d’Israele non è affetto dalla fragilità della sua classe dirigente, con i suoi difetti e le sue debolezze è pur sempre un popolo combattente e democratico. Le riserve, i milu’ ìm sono il ritratto simbolico del fenomeno israeliano. Esso è molto ben disegnato da H., ufficiale pilota delle riserve, che ho incontrato in una base aerea mentre si sistemava il casco e stava per salire sul suo F-16 diretto sul cielo di Gaza: due ore prima era nel suo ufficio di avvocato, con un cliente, a Tel Aviv. Il telefono ha squillato. Ha salutato in fretta, senza dire perché doveva scappare via. La borsa con il cambio di biancheria la tiene sempre pronta in macchina. La moglie la avverte col telefonino dalla strada appena è al volante verso la base in cui servirà fino a oltre i cinquant’anni di età per un mese all’anno, e per tutto il tempo straordinario in cui sia richiesta la sua presenza. Per andare ai milu’ ìm, nelle riserve, ognuno spende molto denaro e molto tempo prezioso; alcuni ci rimettono i loro business, specie se si tratta di lavoro autonomo. Un agente turistico, o immobiliare, rischia spesso la chiusura. Naturalmente spesso rischia anche la vita. Ma ieri, accompagnando un amico professionista a comprarsi un berretto per dormire nel deserto alcune notti di milu’ ìm, l’ho visto fraternizzare molto allegramente con il commesso, un uomo cicciottello che per ragioni segrete serve per periodi più lunghi del normale. Il rapporto fra di loro era di doppia solidarietà, come cittadini un po’ anziani che ormai hanno freddo la notte, ma che come soldati condividevano il senso della
indispensabilità della loro missione.
Il fenomeno israeliano cui è interessante per tutte le democrazie guardare è, se finalmente ci riuscisse di toglierci gli occhiali neri dell’ideologia, la mirabilità della costruzione dell’homo israelianus, speciale ed eguale, democratico e combattente. La guerra e la democrazia hanno costruito nel loro inusitato matrimonio un personaggio adatto a sopravvivere nel continuo sacrificio e nel dono di sé benché sia un uomo moderno e quindi viziato dalla pluralità delle merci e distratto dai tanti stimoli; devoto alla pace e alla libertà, mentre è costretto ad affrontare il problema del jihad, l’aggressività del terrorismo, la violenza sconosciuta fino a oggi della guerra asimmetrica. Una guerra inaffrontabile e disperante che, invece di cercare la salvezza per la propria popolazione civile, ne fa uno scudo di difesa non sporadico, ma sistematico, di fronte a un esercito che ritiene vincolanti le norme della Convenzione di Ginevra. Una guerra in cui il nemico mira ai civili per colpirne il maggior numero possibile. Come si deve modellare la democrazia per conservare intero il proprio cittadino, cui è vietato per legge uccidere, mentre al nemico ciò è imposto dalle sue regole religiose e quindi di guerra? Come, perché possa tuttavia sopravvivere e non diventare un inerte capro espiatorio della reconquista islamista?
Noi europei dal 1945 abbiamo conosciuto soltanto la pace. Il sionismo ha il merito ideologico della sopravvivenza di Israele, perché ha elaborato l’ebraismo in senso laico, senza mai allontanarsene. Infatti è nato sulle fondamenta di una cultura che per tremila anni ha trovato strade di sopravvivenza nonostante in tanti abbiano cercato di eliminarla, e perché ha teorizzato che la salvezza si trova soltanto con le proprie forze. Tenacia, coraggio e determinazione quasi sovrannaturali e senza paragoni che a me vengano in mente lo hannomesso in piedi; è nato con le forze fisiche dei suoi stessi ideatori sulla sabbia, sulle rovine e fra le paludi.
Se ci si chiede se questo modello abbia uno sfondo religioso, la risposta è «sì» anche se vi si sono innestate svariate ideologie, come il socialismo e il liberalismo. I religiosi naturalmente portano la fiaccola della tradizione, ma i molti israeliani che non portano la kippà ne indossano tuttavia una individuale che è stata definita «trasparente»: non si vede, ma ciascuno, o quasi, ce l’ha. Il concetto di normatività è insito nell’anima ebraica anche quando è laica. Il più blando degli ebrei pure non si sottrae al brit millà, la circoncisione alla nascita dei figli, né alla sepoltura religiosa. Fra questi due appuntamenti ce ne sono tanti come le feste comandate, il cibo kashèr, l’evitare di viaggiare, di lavorare, di rispondere al telefono di sabato, e ciascuno disegna l’ebraismo a sua immagine e somiglianza, chi osservando questa mitzwà (precetto religioso) e chi quella. C’è chi non mangia maiale ma va in macchina il sabato, chi lo mangia e digiuna a Kippur, chi non digiuna ma non risponde al telefono di sabato. Nessuno si dimentica di essere ebreo in un Paese che vende con naturalità cibo kashèr nelle maggiori catene di supermarket e di ristoranti, che rispetta tutte le feste, che elimina il pane e i cibi lievitati dal mercato quando è la Pasqua ebraica. Nessuno ignora il particolare attaccamento per la famiglia e le sue ricorrenze, che insegue chiunque in maniera un po’ ossessiva con bar mitzwà (il compimento della maggiore età religiosa) e matrimoni. Anche se è un Paese laico, in cui tutte le istituzioni basilari, il governo, il potere giudiziario, l’esercito, la polizia, le scuole, vantano indipendenza dalla religione, Israele manda tuttavia un messaggio fortemente ebraico che invita a una cultura di valori. Il richiamo ai «valori ebraici» è di tutte le forze politiche, compresa e forse soprattutto la sinistra. Il coraggio, la forza di sopportazione, il senso di sacrificio combattono bene con l’egoismo, l’edonismo, l’individualismo della società capitalista e democratica, pure presenti, perché la cornice morale collettiva non è stata cancellata, per quanti colpi possa ricevere dall’individualismo di una società di libero mercato e anche povera. Al di là dei nostri interessi immediati, suggerisce senza tregua il panorama morale circostante, ce ne sono di trascendenti che puoi chiamare come vuoi, ma riguardano le ragioni profonde che ci hanno portato da una parte a costruire la democrazia, e dall’altra a salvare la pelle per tanti anni.
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