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Discussione: ISRAELE SIAMO NOI

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    Predefinito ISRAELE SIAMO NOI

    INTRODUZIONE A "ISRAELE SIAMO NOI", di Fiamma Nirenstein - Prima Parte





    Israele siamo noi

    di Fiamma Nirenstein



    INTRODUZIONE


    Queste pagine si propongono di rovesciare una concezione corrente, radicata, talora ossessiva.

    Il mio assunto è molto semplice: Israele, al contrario di quello che suggerisce una propaganda pervasiva e ormai diventata senso comune, è un modello positivo e un caso di studio per chiunque si trovi a vivere in una società democratica che debba eventualmente affrontare una guerra di difesa cui tutto l’universo della democrazia occidentale è costretto. Parlo dunque di noi, della nostra società, quella occidentale: essa è attaccata come non mai in precedenza dall’estremismo islamico ormai organizzato in un asse che gestisce le migliori armi moderne e un’infinita riserva di terroristi sotto l’egida indiscutibile e non negoziabile del credo religioso. La sua costruzione propagandista e storicamente infondata si incentra su Israele come perverso «occupante» di territorio che non gli spetta, e quindi sul sionismo come ideologia imperialista e colonialista. L’invenzione del tema dello Stato di apartheid, che è la prosecuzione della risoluzione Onu n. 3379 del 1975 che equiparava il sionismo al razzismo, è tanto diffusa quanto del tutto priva di fondamento. Anche l’idea che il Secondo Tempio non sia mai stato sul Monte dove oggi sorge la spianata delle Moschee è stata definita da un archeologo di prima grandezza come Gabi Barkai «una menzogna peggiore della negazione dell’Olocausto, eppure collegata ad essa». Ambedue queste idee, infatti, sono tasselli di un mosaico che ha eroso il concetto della legittimità dello Stato d’Israele, ha rifiutato il pure evidente diritto del popolo ebraico, l’unico che abbia mai esercitato una sua sovranità su quel pezzo di terra vaga che sotto i romani, i greci, i turchi, gli inglesi venne chiamata Palestina e che comprendeva aree diverse dallo Stato ebraico.

    Israele è uno Stato del tutto legittimo, che, per circostanze storiche e geografiche molto complesse, si viene a trovare al centro di un attacco concentrico dell’integralismo islamico che non ha niente a che fare col conflitto israelo-palestinese. Se magicamente si giungesse a una soluzione territoriale fra palestinesi e israeliani – e nessuno può augurarsi niente di diverso – e due Stati fossero finalmente disegnati nei loro confini per vivere l’uno accanto all’altro, sfido chiunque a dimostrare che allora si placherebbe l’attacco prima di tutto dei palestinesi stessi, e poi di Hamas, degli Hezbollah, della Siria, dell’Iran ormai prossimo al nucleare. Israele e gli ebrei sono al centro di un attacco ideologico pari soltanto a quello subìto alla vigilia della Seconda guerra mondiale: accusati, come li accusava Hitler, di essere loro stessi la causa delle guerre, tengono accesa la fiaccola della conquista islamista del mondo, servono allo scopo di galvanizzare un fronte sempre più largo e più organizzato. Israele è solo il fronte avanzato, di questa guerra. È il decenne Hendrich, il bambino olandese col dito nella falla della diga. Ma la guerra è contro di noi, Israele siamo noi, perché siamo attaccati dagli stessi fanatici che hanno intrapreso la reconquista islamica dopo secoli di intensa frustrazione di fronte al predominio occidentale.

    Gli europei, se ne parla più avanti, sono cresciuti da ormai molti anni in un’atmosfera di bambagia che li porta a vedere l’aggressione jihadista come confronto culturale fra diversi, che li porta a immaginare che con la parola si possano sostituire i fatti, che la diplomazia non sia un mezzo per risolvere i problemi, ma un fine cui piegare la dura realtà, e che il fronte del jihad possa essere gestito frammentando il problema in questioni economiche e territoriali. Ma è solo un modo di evitare il pensiero della guerra, il grande tabù della cultura democratica.

    Alexis de Tocqueville nel 1838 esprimeva, osservando l’America, un punto di vista e un’esortazione incoraggianti, che fotografano peraltro la realtà di Israele: «Penso [...] che un popolo democratico, che intraprende una guerra dopo una lunga pace, rischi più di qualsiasi altro di essere battuto; ma esso non deve lasciarsi scoraggiare dalle prime disfatte. [...] Quando la guerra prolungandosi ha, infine, strappato tutti i cittadini ai loro lavori pacifici e fatto fallire le loro imprese private, accade che le stesse passioni, che li attaccavano alla pace, li rivolgano verso la guerra. [...] Per questa ragione le nazioni democratiche, che con tanta malavoglia si fanno condurre sul campo di battaglia, vi compiono prodigi quando si è riusciti a fare loro impugnare le armi ».1 La democrazia, sostiene de Tocqueville, aliena alla guerra per natura, se vi è costretta la fa, seguitando a sprigionare le sue energie migliori e più vitali, e riesce a esprimere, sia nel combattimento sia nella vita civile che si trasforma per perseguire la vittoria, l’eccellenza della sua scelta politica di fronte alle dittature e al terrorismo. Ovvero, la democrazia, proprio combattendo il terrorismo liberticida e fascista, capisce meglio se stessa, sa per cosa vive, riconosce i propri valori, trova una strada per non tradire la propria natura.

    Beninteso, parlo di una società che affronta una guerra per la vita e non per la conquista, una guerra senza scelta se non quella di combattere o di soccombere. Senza cedere a fantasie e miti, pure si può dire che questo è il grande esperimento di Israele: sviluppare il carattere e le leggi della democrazia in una situazione di conflitto. È una sfida che riguarda i massimi sistemi, il rapporto fra libertà e ordine, quello fra interessi collettivi e personali, la fierezza nel confrontare il proprio modo di vita e la propria tradizione con quello che l’ideologia nemica vuole imporre, il conservare la durezza necessaria quando si combatte e la sensibilità indispensabile a promuovere i diritti umani. Israele si è trovato ad affrontare questa sfida per primo e sulla linea del fronte con il Medio Oriente intero: e non è la prima volta che gli ebrei devono per forza, dal doloroso profondo della condizione di eccezionalità che la storia li ha spesso costretti a vivere, elaborare risposte che diventano oggetto di riflessione per tutti.

    Da parecchi anni osservo Israele da giornalista: guardo la gente per strada, in guerra, a casa e altrove, e semplicemente vedo delle risposte alla più drammatica fra le domande odierne. Resistere di fronte alla delegittimazione, alla violenza, al terrorismo; queste risposte splendono nella foresta dei problemi, delle debolezze, delle imperfezioni del sistema capitalista, e persino nelle brutture che la natura umana tuttavia non manca di irradiare anche nelle migliori costruzioni sociali. Dalle parti di Gerusalemme e di Tel Aviv, dove siedono il governo e gli apparati di sicurezza, non mancano la corruzione, o la violenza sessuale, o l’incapacità, la faciloneria, la prepotenza. Certi retaggi del passato, come l’improvvisazione, sono ormai fuori tempo. Certi pavoneggiamenti maschilisti possono essere, se si vuole, ritenuti lo sfondo a recenti obbrobri, come i crimini sessuali per cui è stato incriminato il presidente della Repubblica Moshe Katzav. Nell’esercito, di sicuro stati di esasperazione e anche di perversione hanno condotto a episodi in cui il grilletto è stato facile. L’eccesso di fiducia in se stessi e nei propri miti ha portato a errori che durante la Guerra del Libano dell’estate 2006 sono costate la vita a troppi soldati, e hanno dimostrato uno stato di insufficiente preparazione e uno scarso senso di responsabilità fra i capi militari e anche nell’angolo acuto della piramide politica. Fra la gente, specie fra gli intellettuali e i giornalisti, ci sono anche molti casi di viltà, di voglia di fuggire. Il defezionismo, la critica fanatica, sono a volte semplicemente miseri, scimmiottamenti della sinistra europea buonista, esternazioni prive dello sfondo tragico su cui maturano le decisioni più dure. Israele compie errori e soffre falle come qualsiasi altro prodotto della fatica umana.

    Questo non è però il fenomeno più importante, anche se dopo la Guerra del Libano è diventato quasi una moda chiedere se Israele non sia in crisi, se le invincibili forze del Mossad e dell’esercito non siano stanche, se la società secolarizzata di Tel Aviv non dia segni di cedimento. La risposta è semplicemente: no. È vero che la classe dirigente in questo momento è particolarmente fragile dopo la scomparsa fisica di Ariel Sharon e quella politica, negli anni del recente passato, di due personaggi di cui prevedo il ritorno sulla scena, Ehud Barak e Benyamin Netanyahu; è vero che all’improvviso tutti i problemi strategici e morali si sono enormemente complicati a causa dell’asse iraniano con gli Hezbollah, la Siria, con Hamas al governo dell’Autonomia palestinese. L’elaborazione della classe dirigente non è ancora compiuta, la sua difficoltà a cercare nuove strade è a volte deludente. La famosa battuta di Olmert durante la guerra, «anche noi siamo stanchi», gli è stata tante volte rinfacciata e i giovani al fronte in Libano o a Gaza rispondevano dicendomi: «Lui è stanco, noi no».

    Il popolo d’Israele non è affetto dalla fragilità della sua classe dirigente, con i suoi difetti e le sue debolezze è pur sempre un popolo combattente e democratico. Le riserve, i milu’ ìm sono il ritratto simbolico del fenomeno israeliano. Esso è molto ben disegnato da H., ufficiale pilota delle riserve, che ho incontrato in una base aerea mentre si sistemava il casco e stava per salire sul suo F-16 diretto sul cielo di Gaza: due ore prima era nel suo ufficio di avvocato, con un cliente, a Tel Aviv. Il telefono ha squillato. Ha salutato in fretta, senza dire perché doveva scappare via. La borsa con il cambio di biancheria la tiene sempre pronta in macchina. La moglie la avverte col telefonino dalla strada appena è al volante verso la base in cui servirà fino a oltre i cinquant’anni di età per un mese all’anno, e per tutto il tempo straordinario in cui sia richiesta la sua presenza. Per andare ai milu’ ìm, nelle riserve, ognuno spende molto denaro e molto tempo prezioso; alcuni ci rimettono i loro business, specie se si tratta di lavoro autonomo. Un agente turistico, o immobiliare, rischia spesso la chiusura. Naturalmente spesso rischia anche la vita. Ma ieri, accompagnando un amico professionista a comprarsi un berretto per dormire nel deserto alcune notti di milu’ ìm, l’ho visto fraternizzare molto allegramente con il commesso, un uomo cicciottello che per ragioni segrete serve per periodi più lunghi del normale. Il rapporto fra di loro era di doppia solidarietà, come cittadini un po’ anziani che ormai hanno freddo la notte, ma che come soldati condividevano il senso della
    indispensabilità della loro missione.

    Il fenomeno israeliano cui è interessante per tutte le democrazie guardare è, se finalmente ci riuscisse di toglierci gli occhiali neri dell’ideologia, la mirabilità della costruzione dell’homo israelianus, speciale ed eguale, democratico e combattente. La guerra e la democrazia hanno costruito nel loro inusitato matrimonio un personaggio adatto a sopravvivere nel continuo sacrificio e nel dono di sé benché sia un uomo moderno e quindi viziato dalla pluralità delle merci e distratto dai tanti stimoli; devoto alla pace e alla libertà, mentre è costretto ad affrontare il problema del jihad, l’aggressività del terrorismo, la violenza sconosciuta fino a oggi della guerra asimmetrica. Una guerra inaffrontabile e disperante che, invece di cercare la salvezza per la propria popolazione civile, ne fa uno scudo di difesa non sporadico, ma sistematico, di fronte a un esercito che ritiene vincolanti le norme della Convenzione di Ginevra. Una guerra in cui il nemico mira ai civili per colpirne il maggior numero possibile. Come si deve modellare la democrazia per conservare intero il proprio cittadino, cui è vietato per legge uccidere, mentre al nemico ciò è imposto dalle sue regole religiose e quindi di guerra? Come, perché possa tuttavia sopravvivere e non diventare un inerte capro espiatorio della reconquista islamista?

    Noi europei dal 1945 abbiamo conosciuto soltanto la pace. Il sionismo ha il merito ideologico della sopravvivenza di Israele, perché ha elaborato l’ebraismo in senso laico, senza mai allontanarsene. Infatti è nato sulle fondamenta di una cultura che per tremila anni ha trovato strade di sopravvivenza nonostante in tanti abbiano cercato di eliminarla, e perché ha teorizzato che la salvezza si trova soltanto con le proprie forze. Tenacia, coraggio e determinazione quasi sovrannaturali e senza paragoni che a me vengano in mente lo hannomesso in piedi; è nato con le forze fisiche dei suoi stessi ideatori sulla sabbia, sulle rovine e fra le paludi.

    Se ci si chiede se questo modello abbia uno sfondo religioso, la risposta è «sì» anche se vi si sono innestate svariate ideologie, come il socialismo e il liberalismo. I religiosi naturalmente portano la fiaccola della tradizione, ma i molti israeliani che non portano la kippà ne indossano tuttavia una individuale che è stata definita «trasparente»: non si vede, ma ciascuno, o quasi, ce l’ha. Il concetto di normatività è insito nell’anima ebraica anche quando è laica. Il più blando degli ebrei pure non si sottrae al brit millà, la circoncisione alla nascita dei figli, né alla sepoltura religiosa. Fra questi due appuntamenti ce ne sono tanti come le feste comandate, il cibo kashèr, l’evitare di viaggiare, di lavorare, di rispondere al telefono di sabato, e ciascuno disegna l’ebraismo a sua immagine e somiglianza, chi osservando questa mitzwà (precetto religioso) e chi quella. C’è chi non mangia maiale ma va in macchina il sabato, chi lo mangia e digiuna a Kippur, chi non digiuna ma non risponde al telefono di sabato. Nessuno si dimentica di essere ebreo in un Paese che vende con naturalità cibo kashèr nelle maggiori catene di supermarket e di ristoranti, che rispetta tutte le feste, che elimina il pane e i cibi lievitati dal mercato quando è la Pasqua ebraica. Nessuno ignora il particolare attaccamento per la famiglia e le sue ricorrenze, che insegue chiunque in maniera un po’ ossessiva con bar mitzwà (il compimento della maggiore età religiosa) e matrimoni. Anche se è un Paese laico, in cui tutte le istituzioni basilari, il governo, il potere giudiziario, l’esercito, la polizia, le scuole, vantano indipendenza dalla religione, Israele manda tuttavia un messaggio fortemente ebraico che invita a una cultura di valori. Il richiamo ai «valori ebraici» è di tutte le forze politiche, compresa e forse soprattutto la sinistra. Il coraggio, la forza di sopportazione, il senso di sacrificio combattono bene con l’egoismo, l’edonismo, l’individualismo della società capitalista e democratica, pure presenti, perché la cornice morale collettiva non è stata cancellata, per quanti colpi possa ricevere dall’individualismo di una società di libero mercato e anche povera. Al di là dei nostri interessi immediati, suggerisce senza tregua il panorama morale circostante, ce ne sono di trascendenti che puoi chiamare come vuoi, ma riguardano le ragioni profonde che ci hanno portato da una parte a costruire la democrazia, e dall’altra a salvare la pelle per tanti anni.


    - Fine Prima Parte -
    Ultima modifica di Florian; 06-12-09 alle 13:00
    SADNESS IS REBELLION

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    Predefinito Rif: ISRAELE SIAMO NOI

    INTRODUZIONE A "ISRAELE SIAMO NOI", di Fiamma Nirenstein - Seconda e Ultima Parte



    Oggi, certo diverso dal modello irenico che abbiamo sognato, il cittadino di Israele non somiglia affatto all’immagine disegnata ad arte nel corso di decenni, a cominciare dal Gran Muftì di Gerusalemme, e poi con Arafat e Nasrallah e fino ad Ahmadinejad. Non somiglia nemmeno lontanamente a quella immagine distorta che i movimenti cosiddetti pacifisti, gli intellettuali antiglobalisti, gli storici revisionisti hanno dipinto. Tutti gli aggettivi e i sostantivi che costruiscono la tavolozza di colori in cui intinge il pennello il politically correct dei nostri giorni sono sbagliati: l’occupazione, il muro, i checkpoint, le eliminazioni mirate, il disprezzo per la vita dei civili sono punti astratti su un foglio bianco, da unire per formare un disegno destinato a prospettare un significato ad hoc. L’oggetto che ne esce fuori in un solo schema concettuale è: il vuoto, l’illegittimità. Israele, come dice Ahmadinejad, deve «essere spazzato via dalla carta geografica», non deve più esistere perché non si confà, secondo la fantasia suggerita, ai valori dei diritti umani; il sionismo è un errore concettuale e un obbrobrio morale, hanno ripetuto i suoinemici finché l’informazione ne ha fatto senso comune; la sua realizzazione storica, ovvero gli israeliani e le loro azioni sono spregevoli oppressori di innocenti. Anzi, il sionismo «è fallito», come dice il presidente iraniano, e Israele «sta sparendo». La verità è che la grande chance del mondo arabo di capire Israele, di apprezzarne la presenza nell’area mediorientale, di avvantaggiarsene, quella sì è naufragata in un insensato mare di odio. Anche le profferte territoriali di Israele ai palestinesi, larghissime e chiare quando Barak e Arafat sedevano insieme a Camp David, sono state respinte, mentre è stata aperta la porta a un jihad senza quartiere, che fa dei propri bambini dei martiri, dei morti viventi.

    Si è detto che l’attuale odio antisraeliano non è necessariamente antisemitismo, che a volte si cerca di dare dell’antisemita semplicemente a chi critica Israele. Ma non è vero, e non lo si vede solo dai due pesi e due misure applicati a Israele e agli altri, il doppio standard applicato a Israele e agli altri: il presidente iraniano ha fiducia nel messaggio antisemita più classico, quello che suggerisce di eliminare gli ebrei a causa della loro ignobiltà, e ha dettato così il teorema più evidente, quello della negazione della Shoah come ragione per promuovere la guerra a Israele. Israele, dice lui, è stato costruito a seguito della Shoah (un errore di storia da vero ignorante), gli ebrei hanno usato la Shoah come scusa per reclamare la loro nazione (altro errore storico), quindi, poiché la Shoah non ha avuto luogo, di conseguenza Israele può essere distrutto. E, aggiunge Ahmadinejad, lo faremo presto: per farlo stiamo preparando la bomba atomica, sottintende parlando con successo di pubblico e di stampa all’Onu, dove lo accolgono le nazioni di tutto il mondo che hanno fondato quell’organizzazione. Tutti gli alleati di Israele o chi non se ne discosterà esplicitamente, come Ahmadinejad ha minacciato sempre pubblicamente, dovranno pagarne le conseguenze.

    Lo sfondo per così dire culturale di questo ragionamento è il jihad islamico che deve ricollocare il mondo sotto il califfato, facilitare la venuta del Mahdi, il dodicesimo imam che svolge secondo la fede sciita una funzione messianica di redenzione del mondo. Ahmadinejad, che tiene in una mano la costruzione dell’arma atomica contro Israele e l’Occidente, e nell’altra la negazione della Shoah, è la migliore dimostrazione del nesso fra antisemitismo e intenzioni genocide verso Israele, e ne fa addirittura oggetto di teorizzazione.

    Hamas a sua volta basa la sua scelta di distruggere Israele su un’inesistenza: Israele non c’è, non esiste, quello che si vede oggi è una manifestazione malefica che non ha nessuna ragione reale né rispettabile di vivere. Queste città, questo Parlamento, questi ospedali, questi cinema, queste scuole che ciascuno può vedere in questa minuscola scheggia di terra, altro non sono, per una gran parte dell’Islam, che alcune delle sue proprietà che ritorneranno riconoscibili una volta spazzata via questa pura forma che non è sostanza. Gli Hezbollah dicono che Israele non ha altro scopo di esistere che quello di fare del male, di rappresentare l’imperialismo, il capitalismo, l’Occidente. Le bandiere israeliane vengono spesso bruciate insieme a quelle americane, Nasrallah ama molto gridare «Morte agli Usa, morte a Israele».

    Sciiti e sunniti si sono uniti per protestare contro la cristianità che mette Maometto in caricatura o che osa invitare l’Islam alla discussione, come ha fatto papa Benedetto XVI, allora anche l’Europa è nel mazzo dei peccatori e degli alleati del diavolo. Ma l’Europa non vuole saperne, a così breve distanza dalla Seconda guerra mondiale, di avere un nuovo nemico mortale, e seguita a sperare che sacrificando Israele e contrapponendosi agli Usa potrà ottenere almeno la sua pace.

    In coda sull’autostrada numero uno, tra Gerusalemme e Tel Aviv, guardo i miei vicini accanitamente diretti a destinazione, stretta a destra e a sinistra. E davanti, e dietro. L’autostrada fumiga di vitalità: correre, correre a destinazione, ogni metro è una conquista, parafango contro parafango. Ogni auto è la cellula di una società normale e speciale che suggerisce vita e solo vita, non morte. I guidatori si scrutano insistentemente dai finestrini, quasi si sorridono, quasi non si possono soffrire, insomma, qualcosa; sempre in Israele si comunica qualcosa, ci si deve dire qualcosa, e subito. Un’invettiva: «Disgraziato, prepotente, non si sorpassa a sinistra», oppure: «Non far piangere il bambino sul seggiolino posteriore, genitore snaturato»; un complimento: «Bella ragazza»; un’epressione di solidarietà: «Soldato, devi riposarti, hai l’aria distrutta»; un’osservazione: «Lei mi ricorda la mia nonna tedesca». Sempre si va in qualche posto con un particolare senso di urgenza e in modo affermativo: dalla mamma, in ufficio, a casa dai bambini, a Ramat Aviv Gimel dove la linea dei grattacieli è fancy; a Me’ah She’arim a Gerusalemme, dove le baracche da shtetl sanno di pane fatto in casa con lievito cattivo e di chammìn, carne da lesso e fagioli cotti in forno; si va a servire nei milu’ ìm seguitando a telefonare freneticamente per avvertire questo e quello dell’improvvisa chiamata dell’esercito, allo psicanalista che scusi tanto, alla zia di andare a dare da mangiare al gatto o a prendere il bambino a scuola; si va a fare il tagliando dell’auto tenuta come un membro della famiglia; si va a comprare i vestiti in Kikkàr ha-Medinà perché è più sexy; a lavorare in una delle tante aziende di high tech, per le quali Israele è secondo solo agli Stati Uniti; a raggiungere la fidanzatina con l’M16 a ciondoloni e la divisa sbrindellata; a trovare alla «casa del soldato» una ragazza rimasta su una sedia a rotelle durante le esercitazioni; si va dal dentista, dalla famiglia del proprio compagno rimasto ucciso in missione, alla mostra di foto di guerra, a un ristorantino sulla spiaggia di Tel Aviv, dal rabbino dell’insediamento di Ofra… La radio delle auto – se a guidare non è un giovane con lo stereo a tutto volume – è sempre accesa: chiacchiera ossessivamente di questioni così vitali che dopo un po’ si cerca di cambiare programma, ma anche l’altro parla delle stesse notizie essenziali e fornisce pareri contrapposti e gridati con convinzione definitiva. Un povero essere umano non ce la può fare a star sempre là a palleggiare con la morte, con Hamas e con gli Hezbollah. Il discorso di colui che dalla radio lo apostrofa come nemico sionista è intero, rotondo, l’inimicizia è odio senza quartiere, è disprezzo, aggressività fisica, desiderio di cacciare, distruggere, cancellare: il jihad lo vuole morto.

    Lui, il mio vicino guidatore, non vuole morto nessuno se non vi è obbligato. Anche se si tratta di un religioso, il suo ragionamento, a differenza di quello del suo nemico, è laico, ovvero sa rispondere a frammenti, caso per caso, sa distinguere se è in pericolo di vita, se si tratta di un pericolo grave, se lo scontro e la repressione sono inevitabili, se è la vita a essere in discussione, la sua o quella del nemico. L’odio religioso non è parte della sua cultura.

    Quindi, per quanto possa parteggiare per una soluzione o l’altra, essere di sinistra o di destra, in quel tappo di traffico c’è molta perplessità, essa abita ciascuna di quelle auto. Cadono i missili Kassam, allora interverremo: sì, no, non interverremo; abbiamo sbagliato il bersaglio, ci scusiamo; no, qui abbiamo colpito, e abbiamo fatto bene, la vittima stava preparando un Kassam, aveva partecipato ad attentati terroristici; c’erano bambini, avevano piazzato a bella posta donne e bambini là accanto; 27 checkpoint sono stati tolti, i palestinesi soffrono, anche loro hanno diritto a un futuro, a uno Stato, a una bella vita; no, stavolta non si meritano niente, il jihad è il loro pensiero dominante, perfino una briciola di territorio la useranno per i lanciamissili; la bomba atomica dell’Iran sarà pronta fra un anno, tre, cinque anni; sapremo fermarli, attaccare con gli F- 16 non si può, non serve; si deve, è l’unica strada; abbiamo perso la guerra con gli Hezbollah; abbiamo vinto la guerra con gli Hezbollah...

    Mi domando come mai il mondo, invece di concentrarsi su una discussione che è vitale per tutti noi e cercare di prendervi effettivamente parte, la semplifichi in una stupida, continua condanna del diritto a difendersi; il coro vanitoso delle chatting classes europee è passato dall’antisemitismo di maniera («That shitty little country», quello staterello di merda, disse l’ambasciatore francese a Londra parlando di Israele) alla sostanziale messa in forse del diritto a vivere di Israele; Ahmadinejad, con la sua sfilata di pagliacci negazionisti, copre la preparazione dei missili Shihab che possono arrivare in qualsiasi capitale europea, e presto del mondo.

    Israele combatte contro questo obbrobrio. Il cielo sopra l’autostrada rimanda l’eco di un controverso cicaleccio che è di lessico familiare e di una discussione essenziale, destinata a farsi decisione fatale ogni giorno; è l’unico cicaleccio pluralista che promani da una sabbia mediorientale, è una vitalità tutta speciale che viene dall’avere pagato di tasca propria il momento che stai vivendo, dal sapere che esso vale e ha un significato, e che sei là perché non solo ce l’hai fatta da solo fra tanti dolori e tante guerre, ma anche perché i tuoi genitori, e i tuoi nonni, dopo orribili persecuzioni, eroicamente hanno saputo recuperare lo spazio dopo aver vissuto solo nel tempo per più di mille anni. È un eloquio democratico durante il quale non si può mettere in primo piano la propria perplessità, non ha cittadinanza la paura, è indispensabile andare avanti, essere un popolo in armi anche quando ci si sente spezzati.

    In coda sull’autostrada, sai che il guidatore della macchina accanto può commettere infrazioni, e ne fa, può fare errori, e ne fa ancora di più, ma che è un personaggio con una storia vera da raccontare, che affronta ogni giorno problemi essenziali. Non ha abbandonato il suo retaggio: le Tavole della Legge gli ripetono ogni giorno «Non uccidere», ma con altrettanta urgenza egli sa che ha un significato universale la sua lotta per non essere ucciso. Si dibatte fra due imperativi categorici. Gli ebrei d’Israele, dopo essere stati il primo popolo a benedire il mondo col monoteismo, sono oggi l’unico popolo che abbia benedetto il Medio Oriente con la democrazia. Forse meritano uno sguardo, una considerazione completamente diversa da quella che hanno ricevuto fino a oggi, anche perché i loro nemici sono anche i nostri ed essi sono i primi sul fronte.




    Desidero ringraziare con calore il professor Piero Capelli, docente di Lingua e letteratura ebraica all’Università degli Studi di Venezia «Ca’ Foscari», per la cura con cui ha letto il manoscritto e per i suoi preziosi suggerimenti.


    - Fine Seconda e Ultima Parte -



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    Predefinito Rif: ISRAELE SIAMO NOI




    Siamo tutti israeliani

    di Shulim Vogelmann

    l'Occidentale, 19 Marzo 2007


    Fiamma Nirenstein, che da qui in avanti chiamerò semplicemente Fiamma, dal momento che la conosco da quando sono nato, ha capito da tanto tempo una cosa: l’integralismo islamico e il terrorismo sono una minaccia per la nostra esistenza. Nostra di chi? Di tutti coloro che vogliono vivere o continuare a vivere in delle società libere. Se non esistesse la paura di affrontare il pericolo, non sarebbe complicato capirlo anche per tutti gli altri. Basterebbe leggersi qualche libro dello storico Bernard Lewis, o fare una visita sul sito MEMRI - The Middle East Media Research Institute e guardarsi uno dei tanti video a disposizione. Oppure, e questo è l’unico vero modo per capire, basterebbe trovarsi nei paraggi di un autobus pieno di gente che all’improvviso scoppia in aria. Ad esempio, si potrebbe andare in Israele, dove Fiamma lavora e scrive da anni. Qui, ha avuto modo di seguire ed osservare da vicino la devastante ascesa di terrorismo e fondamentalismo islamico, li ha studiati attentamente, seguendone i movimenti, interpretandone gli obiettivi, prevedendone gli sviluppi futuri. Da Israele è iniziato il suo percorso, la sua missione si può dire, per far svegliare dal torpore tutti coloro che non si sono resi conto della gravità della situazione, del pericolo incombente.

    Fiamma scrive senza perdere di vista, neanche per un secondo, il nostro futuro, o meglio, tenendo sempre ben presente davanti a sé quale incubo potrebbe essere il nostro futuro se i piani del fondamentalismo islamico divenissero realtà. Di conseguenza, Fiamma scrive con passione e con un profondo senso di urgenza, l’urgenza di svegliare le coscienze di chi ancora dorme. E quando si deve svegliare chi rischia di arrivare in ritardo a un appuntamento di fondamentale importanza, non si va certo per il sottile, e le sfumature perdono di significato e inevitabilmente vengono messe da parte. Quindi, Fiamma si scaglia contro coloro che vogliono continuare a dormire nonostante sia ora di alzarsi. Chi sono i dormiglioni? Principalmente, tutti quelli che criticano Israele senza prima aver gridato con veemenza che i fondamentalisti islamici stanno predicando per mezzo mondo la distruzione dello stato ebraico. Un paese che, nonostante sia stato costretto a vivere in uno stato di guerra continua per il corso di tutta la sua storia, è riuscito a mantenere il proprio assetto democratico. Invece di sostenere l’unica democrazia del Medio Oriente nel momento in cui di sostegno ha più bisogno, la si critica praticamente senza sosta. Strano. Troppo strano. E allora Fiamma è andata a cercare negli appunti dello psicanalista dei dormiglioni e ha scoperto che alla base di tutto c’è un latente odio di sé, un’identità traballante, la paura di affermare se stessi. Sui motivi profondi di questo odio di sé vi rimando al libro e alle parole di Fiamma, che questo odio di sé lo conosce bene avendolo affrontato, e sconfitto, ai tempi in cui era una giovane rappresentante della sinistra di allora, quando stare dalla parte di Israele era un tabù, e, ebrei o no, non si poteva fare altro che condannare il paese che stava lottando per la propria sopravvivenza.

    Il titolo del libro, Israele siamo noi, è già di per sé un’affermazione decisa, sicuramente coraggiosa, ma anche molto eloquente. Israele è un simbolo e un modello al quale dovremmo fare riferimento. Una società multietnica che riesce a far convivere le diversità nonostante le pressioni esterne, il terrorismo e la guerra. Una situazione nella quale potremmo trovarci anche noi, dunque un modello da tener presente per il nostro futuro, che forse è gia qui senza che ce ne siamo accorti. Noi è una porta che si apre, un richiamo a tutti coloro che vogliono vivere secondo i valori delle società libere. Di questo noi può far parte chiunque, a prescindere dalla religione o dalla provenienza. Non si tratta di un circolo chiuso da frapporre ad un altro schieramento, non è certo un serrare le fila verso lo scontro di civiltà, è piuttosto un richiamo a ritrovarsi, come persone che credono nei veri diritti dell’uomo. Fiamma propone poi, come passo da compiere per una politica lungimirante, di accogliere Israele nell’Unione Europea e nella Nato. Israele è l’avanguardia delle democrazie occidentali oggi, ci spiega, è il fronte della battaglia contro il fondamentalismo islamico, un fronte che è anche il nostro, dunque, accogliere Israele tra noi, non solo nell’anima, ma anche ufficialmente, è un atto dovuto e utile. Ma sul buon esito di questo punto, Fiamma pare pessimista: sono troppi i fantasmi da scacciare per riuscire a prendere una decisione simile. Prevarranno miopia e paure latenti.

    Ad ogni modo, rimane il messaggio profondo del libro. Israele siamo noi significa che un giorno i pericoli di Israele saranno i nostri, quindi meglio abituarsi all’idea fin da adesso, in modo da essere pronti poi. Ma vuole dire anche che se non riusciamo ad immedesimarci nella lotta di Israele per la propria esistenza di paese libero che vuole salvare le proprie radici culturali non saremo nemmeno capaci di essere noi stessi, e in questo modo perderemo la grande sfida del nostro tempo.


    Siamo tutti israeliani | l'Occidentale
    Ultima modifica di Florian; 06-12-09 alle 13:15
    SADNESS IS REBELLION

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    Predefinito Rif: ISRAELE SIAMO NOI




    Sionismo e razzismo: la disputa irrisolta

    di Giovanni Matteo Quer


    Introduzione

    Il 10 novembre 1975, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta la Risoluzione n. 3379, nella quale si afferma che il Sionismo è una forma di razzismo. Come si è giunti all’adozione di un simile documento? Successivamente, il documento è stato revocato nel 1991, dalla Risoluzione dell’Assemblea Generale n. 86, ma il Sionismo e’ ancota considerato una forma di razzismo. L’articolo analizza come si sia sviluppata la corrente antiisraliana sia presso le Nazioni Unite e come essa si sia trasformata nelle sfera internazionale.
    Il Sionismo e’ un movemento nazionalista sviluppatosi nel tardo XIX secolo in Europa. Tra I movimenti culturali e filantropici nasce ben presto un progetto politco, con l’intento di costruire un focolare nazionale ebraico in Palestina, tradizionalmente, storicamente e religiosamente legata alla coscienza ebraica. Tale progetto si concretizza con l’acquisto di terre nei territorî del circondario amministrativo ottomano della Siria e di Gerusalemme vendute da prorpietarî perlopiù disinteressati ai loro possedimenti a notabili ebrei e ad associazioni caritatevoli ebraiche. La presenza ebraica in Palestina non fu mai accettata dagli Arabi, che si organizzarono in rivolte contro gli Ebrei, causate anche dallacontroversa politica Britannica durante il Mandato in Palestina. Gli Stati arabi hanno ripetutamente rifiutato le occasioni di spartizione della Palestina (nel 1917 e nel 1936 per opera doplomatica britannica, e nel 1947 in sede ONU), preferendo perseguire politiche pan-arabiste sull’onda dei sogni imperialisti di Siria, Giordania ed Egitto.
    Nel 1945, gli Stati arabi constiuirono un blocco all’ONU, che in seguito si associò alla corrente dei non allineati, finendo per perseguire dei compromessi filosovietici in campo internazionale. La principale figura politica del secondo dopoguerra è Gamal Nasser, alla guida dell’Egitto dopo il colpo di stato del 1952. Assieme agli altri leader naizonalisti arabi, Nasser ha mosso Guerra ad Israele nel 1967 e nel 1973, entrambe vinte da Israele. Dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele ha occupato i territorî sotto controllo Giordano e egiziano (rispettivamente, la Cisgiordania, Gaza e la penisola del Sinai), dandosi negi anni successive alla miope politica di costruzione di insediamenti per nuovi residenti ebrei.
    La via militare alla Guerra contro Israele si dimostrò chiaramente fallimentare, pertanto la lotta contro il nemico si spostò sul piano diplomatico, con la delegittimazione dello stato ebraico in campo internazionale. Israele, conosciuta nel mondo arabo ed islamico come l’entità sionista, da sempre è stata alleata dell’Occidente: la formazione pre-statale si alleò con gli inglesi durante la seconda Guerra mondiale, in seguito alla formazione dello Stato ebraico, gli israeliani si allearono con i francesi durante la crisi di Suez negli annia Cinquanta, ed infine trovarono negli Stati Uniti il migliore alleato — ragione sufficiente per scatenare le avversità sovietiche per tutto il periodo della Guerra fredda. Successivamente, all’epoca della deconolizzazione, la maggior parte degli Stati da poco indipendenti erano ostili con Israele per la questione degli insediamenti costruiti nei territorî, che causava l’identificazione di Israele con uno stato coloniale ed imperialista. Queste forze, cioè gli Stati arabi e musulmani, i Paesi non-allineati, l’Unione Sovietica ed i suoi satelliti votarono a favore della risoluzione che equiparava Sionismo a razzismo.
    Dopo la fine della Guerra fredda nel 1991, il già blocco sovietico votò a favore della revoca della risoluzione, così come la maggioranza degli Stati non-allineati che negli anni avevano costruito solide relazioni con Israele. Ciononostante, l’equazione Sionismo uguale razzismo è ancora vivida nel linguaggio internazionale, penetrando nella gramatica del discorso sui diritti umani. La Carta Araba dei Diritti Umani del 1991 predica l’eliminazioe di ogni forma di razzismo, Sionismo e colonialismo. Nel 2001 alla Conferenza mondiale ocntro il Razzismo a Durban, Sudafrica, si propose addirittura la riadozione della risoluzione del 1975. Il blocco arabo/islamico continua ad influenzare le attività dell’ONU e dei suoi organi. Per esempio il neo-nato Consiglio dei Diritti Umani in poco meno di un anno al primo mandato ha approvato tredici risoluzioni di cui dodici contro Israele, inoltre una significativa influenza è esercitata presso l’Assemblea generale, dove Israele è esclusa da qualsiasi gruppo regionale. L’attuale demonizzazione di Israele come stato razzista e come regime di apartheid è la conseguenza della non accettazione dell’esistenza di Israele da parte degli Stati arabi e islamici, che la percepiscono e dipingono come una declinazione del colonialismo e del razzismo

    Il Sionismo e gli Arabi

    Il sionismo può esser defnito un movimento di liberazione nazionale, preordinato alla costituzione di uno stato dove gli ebrei potessero vivere in pace. Gli ebrei europei sono sempre stati considerati cittadini di seocnda classe anche dopo i tentative di integrazione ed assimilazione successive alla Rivoluzione francese. Non solo erano discriminati, ma particolarmente odiati in quanto considerati la serpe in seno agli stati europei, accusati di slealtà per la loro imperdonabile caratteristica di essere in qualche modo diversi dagli altri cittadini europei. Dai pogrom dell’Impero Russo al caso Dreyfus, gli ebrei non hanno mai potuto trovare una dimora stabile e pacifica. Per questa ragione nuove idee incominciarono a formarsi tra i circoli ebraici per il rinnovamento dell’identità ebraica, prima come popolo e quindi come nazione. Il sionismo è nato dapprima come movimento culturale, che si è concretizzato nella rinascita della lingua ebraica , che fino all’Ottocento era relegata a lingua liturgica, e nella considerazione della Palestina quale patria spirituale del popolo ebraico. La più nota corrente del Sionismo è quella poltica, la cui figura prominente è Theodor Herzel giornalista ebreo ungherese di cultura tedesca, che per primo ha sviluppato l’idea di uno stato per gli ebrei.
    Lo stato ebraico è nato da una comuntà ebraica che godeva di una certa autonomia durante il Mandato Britannico in Palestina, detta Yishuv, verso cui immigravano ebrei provenienti dall’Europa, America e dal mondo arabo, per coltivare la terra, fondare scuole, università, accademie e costruire nuove città. Durante il dominio ottomano prima, e durante il mandato britannico poi, i sentimenti arabi verso gli ebrei erano di sospetto e sfiducia, se non di vero e proprio odio per l’associazione dei nuovi immigrati agli stranieri occidentali che controllavano l’area. Gli arabi combatterono contro l’Impero Ottomano per la conquista dell’indipendenza. Durante la rivoluzione dei Giovani Turchi, movimenti naizonalisti arabi e pan-arabisti reclamavno l’indipendenza, quale riflesso locale delle ideologie naizonaliste che si stavano espandendo nel mondo intero. Nonostante le potenze europee avessero promesso l’appoggio ai movimenti indipendentisti, gli arabi si sentirono traditi dopo la prima Guerra Mondiale da Francia e Gran Bretagna, che invece di appoggiare la loro indpendenza, perseguirono i loro scopi nello scenario mediorientale. Le potenze europee divisero il territorio dell’Impero Ottomano spesso arbitrariamente, fondando entità statali che esulavano dal senso dientitario della popolazione e verso i quali spesso non nutrivano alcun tipo di lealtà. In più l’influenza occidentale era aggravata dalla continua presenza militare in suolo arabo, con l’eclatante caso del mandato sulla Palestina quale prova degli scopi colonizzatori ed imperialistici europei.
    Gli ebrei proveninano per la maggior parte dall’Europa, recando con sé in Palestina la cultura europea, ideologie europee e costumi europei. Erano pertanto di gran lunga più simili agli inglesi che agli arabi. Man nonostante gli ebrei non agissero nell’interesse di uno stato straniero, non avessero forza militare, e non fossero affiliati agli inglesi, ciononostante erano percepiti come agenti coloniali. Dopo decenni di rinnovamento dell’antisemitismo politico radicato nella tradizione islamica da parte degli arabi cristiani che assumevano formule antismite proprie della tradizione europea, la prima rivolta araba contro gli ebrei si manifestò all’indomani della dichiarazione Balfour. Nel 1917 l’impero britannico si impegnò a promuovere la costituzioe di un focolare nazionale ebraico in Palestina. L’impegno fu sottoscritto come dichiarazione effettuata dal ministro degli estero britannico Arthur James Balfour in una lettera indirizzata a Lord Rothshild e successivamente incorporata nel trattato di pace di Sèvres con la Turchia dopo la prima Guerra Mondiale e poi incorporata anche nel Mandanto sulla Palestina conferito dalla Lega delle Nazioni alla Gran Bretagna. La dichiarazione trovò anche un certo consenso tra le alte sfere della dirigenza araba, che si manifestarono negli Accorid Faisal-Weizman del 1919, che stabilirono principî di mutua cooperazione tra i due popoli, l’impegno ad una pacifica risoluzione delle controversie e la futura negoziazione per una soluzione bistatale da parte di una commissione che sarebbe stata composta equamente da arabi, ebrei e inglesi. Quali potesseo essere i buoni ufficî tra i rappresentanti dei due popoli, gli arabi comunque rifiutarono l’idea di spartire la Palestina, dapprima organizzaznodsi in commissioni miste cristiano-musulmane rivendicando la loro apprtenenza alla Siria, poi brandendo le armi contro i villaggi e le cittadine ebraici. Le rivolte continuarono per nove anni, finché nel 1929 gli inglesi riuscirono a fermare le violenze. Questo fu il primo peisodio di scontro tra le ideologie arabe pan-arabista e nazionalista contro il Sionismo, alle quali si sarebbe poi aggiunto anche il radicalismo islamico. Durante i primi anni del Mandato, la presenza ebraica in Palestina portò sviluppo economico e culturale della regione le cui condizioni economiche fiorenti attraevano lavoratori da tutto il mondo arabo. Ad ogni modo, il giogo britannico, l’estraneità ebraica, e il disinteresse ebraico verso i vicini arabi fecero sì che il vincolo apparente tra britannici ed ebrei si rafforzasse ancor più finendo per esser considerati la medesima cosa, vale a dire espressioni del potere colonialista occidentale. È in quest’atmosfera che si consolidò la formazione dell’identità nazionalista araba, includendo nel processo di consolidamento identitario anche elementi religiosi. In Palestina, il leader carismatico degli islamisti era Haj Amin al-Husseini e la figura principale dei nazionalisti, rivale di Husseini, era Regheb Bey al-Nashashibi, entrambi impegnati nella causa contro i britannci e gli ebrei, ma con differenti scopi e differenti visioni ideologiche. Entrambi organizzarono rivolte dal 1936 al 1939, dopo la proposta di spartizione della Palestina tra arabi ed ebrei contenuta nella relazione della Commissione Reale Peel. Le rivolte furono soffocate nel sangue dall’intervento del’esercito britannico e la pubblicazione del Libro Bianco nel 1939 che limitò l’immigrazione ebraica in Palestina negli stessi anni in cui la Germania nazista stava preparando metà Europa all’annichilimento degli ebrei. Queste rivolte rappresentavano una doppia lotta. Da una parte, rappresentavano la lotta degli arabi contro il nemico colonialista, cioè gli ebrei e i britannici; dall’altra, rappresentavano la lotta tra arabi nazionalisti e arabi pan-arabisti contro l’Islam politico, rappresentato da Husseini, il gran mufti di Gerusalemme.
    A quel tempo l’Islam politico inizio’ ad esser attivo in Palestina ed ottenne l’apporggio internazionale delle forze naziste. L’ideologia razzista del nazismo offrì l’aiuto necessario alla corrente araba islamista per la lotta contro gli ebrei che erano al contrario alleati dei britannici, nonostante la loro politica controversa in Palestina. Gli ebrei parteciparono alla Guerra di Liberazione a fianco degli Alleati con una brigata ebraica che gli inglesi hanno fortemente ostacolato fino al 1944. Dopo la perdita della Guerra da parte dell’Asse e dei suoi alleati arabi, gli ebrei ancora non furono favoriti dale politiche inglesi in Palestina, in più il nesso tra ebrei e colonizzatori nell stampa e nella politica araba era più forte che mai proprio in quanto alleati nella Guerra Mondiale. Le proteste arabe successive al 1945 influenzarono l’autorità Britannica così tanto da indurli ad accettare limitazioni significative all’immigrazione ebraica in Palestina fortemente volute dall’intellighenzia araba. Gli arabi temevano che la costernazione mondiale di fornte ai crimini nazisti e alla Shoah avrebbero aumentato le simpatie per la causa sionista — il che effettivamente avvenne in seno all’ONU che votò in favore della partizione della Palestina in due Stati, uno per gli ebrei e uno per gli arabi, il 29 novembre 1947. Le grandi potenze erano unanimi nella decisione circa la partizione: la Gran Bretagna avrebbe abbandonato il fardello del Mandato, che le causò più problemi di quanto si aspettasse; gli Stati Uniti sostenevano il diritto all’auto-determinazione dei popoli; mentre l’Unione Sovietica si batteva contro il colonialismo, e quindi per la fine del mandato britannico. La decisione ONU causò la violenta reazione degli stati arabi che continuarono a perpetuare ostitlità ai proprî confini sfociando poi nella Guerra 1948-1949, scoppiata successivamente alla dichiarazione di Indipendenza di Israele da parte dell’establishment sionista il 14 marzo 1948. Questa Guerra fu la prima di altri Quattro scontri armati architettati contro lo stato ebraico dopo la seconda Guerra mondiale che rappresentano il tentativo arabo di distruggere per via armata Israele, la cui esistenza non fu accetatta in quanto percepita come una fittizia creaizone delle potenze coloniali.

    Le Guerre: 1956-1967-1973

    Israele fu fondata del 1948, ma non fu riconosciuta dagli Stati arabi che nell’immediato dopoguerra costituirono un blocco alle Nazioni Unite, che rispecchiava l’organizzazione regionale fondata nel 1945, la Lega Araba. Le maggiori correnti ideologiche diffuse nel mondo arabo erano il nazionalismo arabo, il pan-arabismo ed il radicalismo islamico, che in un certo qual modo curarono le ferite inferte al mondo arabo dal colonialismo, dando alla comunita’ dei popoli arabo una nuova raison d’être in campo internazionale in materia di auto-determinazionee autonomia dall’occidente. In ciò giace la principale ragione per cui gli stati arabi appoggiarono l’influenza sovietica in Medioriente. La nazione trainante del blocco arabo era l’Egitto, culturalmente, politicamente ed economicamente superiore al resto del mondo arabo. Durante il regno di Farouk, l’Egitto riuscì ad occupare Gaza nella Guerra di Indipendenza, che amministrò militarmente sino al 1967. Ciononostante il nazionalismo arabo chiedeva la completa indipendenza dell’Egitto da ogni interferenza inglese. Il leader del movimento nazionalista era Gamal Abdel Nasser, che diventò il presidente dell’Egitto dopo il putsch del 1952. La sua politica ideologica si basava su elementi socialisti, in funzione anti-britannica, mescolati al nazionalismo e ad elementi di pan-arabismo. Gli orientamenti anti-colonialisti e la progressiva instaurazione di una capitalismo di stato fecero avvicinare l’Egitto all’Unione Sovietica, benché non ne sia mai diventato satellite. Negli anni ‘50 Nasser incomincio’ la sua politica di nazionalizzazione delle grandi imprese che terminò con la nazionalizzazione del canale di Suez, che causò la Guerra di Suez.
    Nel luglio 1956, Nasser annunciò la nazionalizzazione del Canale di Suez, alla quale seguì una serie di provvedimenti che isolavano le navi israeliane e limitavano l’importazione di prodotti stranieri. La mossa politica aveva due scopi: da una parte Nasser mirava ad isolare Israele dal contetso mediorientale per impedirle di avere rapporti commerciali nell’area perfino nei porti neutrali; dall’altra Nasser mirava ad impedire alla Gran Bretagna di perseguire le porprie politiche nella regione. La Gran Bretagna era strettamente alleata ai regni hashemiti di Giordania ed Iraq e stava tentando di condurre nella propria sfera di influenza anche Siria e Libano. Nasser tentava chiaramente di interrompere la politica di affiliazione Britannica, preferendo l’appoggio sovietico, che gli garantiva supporto militare attraverso la Cecoslovacchia e la Bulgaria. In ottobre, Gran Bretagna, Francia ed Israele decisero di muovere guerra all’Egitto, terminando le ostilità in dicembre per le pressioni diplomatiche degli Stati Uniti e di molti altri memebri NATO, che temevano una reazione sovietica ed un conseguente confronto militare su vasta scala nella regione ed in Europa. Nonostante il successo della campagna militare in sé, le potenze occidentali dovettero ritirarsi, dando all’Egitto l’impressione di esser state sconfitte. Le conseguenze furono principalemnte due: sul piano interno dell’Egitto, Nasser era considerato un liberatore, che ha respinto l’attacco imeprialista; sul piano internazionale dell’area mediorientale, Israele fu definitivamente tacciata di colonialismo in quanto colpevole di connivenza col nemico occidentale. Successivamente, Egitto ed altri stati arabi ingaggiarono altre due guerre per la distruzione di Israele.
    La seconda occasione di distruzione di Israele fu la Guerra dei Sei Giorni, il cui casus belli fu la chiusura dello stretto di Tiran il 22 maggio 1967. In realtà le ostitlità militari ebbero inizio mesi prima sia la confine siriano sia al confine girodano. Il 30 maggio, la Giordania firmò un accordo di collaborazione militare con l’Egitto, completamente soggiogato dall’ideologia pan-arabista, e le tensioni tra Israele e gli stati confinanti si intensificarono notevolmente. Il 5 giugno Israele colpì di sorpresa la flotta aerea egiziana e distruggendo gran parte degli armamenti. In sei giorni l’esercito israeliano sconfisse Siria, Giordania, Iraq ed Egitto, uniti contro lo stato ebraico ed occupò Gaza ed il Sinai sotto amministrazione egiziana, la Cisgiordania, sotto amministrazione giordana e le alture del Golan parte del territorio siriano. La Guerra fu una sconfitta totale e vergognosa che incise sul senso d’onore dei popoli arabi. Nonostante la chiara superiorità militare di Israele, gli Stati arabi erano uniti nel persistente disconoscimento dell’esistenza di Israele: al summit della Lega Araba a Khartoum tra l’agosto ed il settembre 1967, la linea politica stabilita fu costellata da tre NO e un SI: no al riconoscimento di Israele, no alle negoziazioni, no alla pace; sì ad uno stato palestinese. Per riprendersi dalla sconfitta gli stati arabi incominciarono con la propaganda ideologica contro Israele basata perlopiù sulla retorica anticoloniale, vista l’allora nascente politica di insediamento di cittadini israeliani nei territorî occupati. Denigrare Israele era una chiara strategia diplomatica accolta dopo che alle catastrofi militari seguirono le simpatie di molti stati occidentali verso Israele, precipuamente degli Stati Uniti. La Guerra ed i suoi risultati ebbero conseguenze rilevanti anche per la questione palestinese, che emerse proprio in quegli anni. L’organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ed il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), fondati nel 1960 come emanazione dell’ideologia nasserista, si staccarono dal movimento ideologico pan-arabista in quanto capirono che gli stati arabi erano in fondo poco interessati nella causa palestinese in sé e per sé considerata, quanto invece la sfruttavano per il perseguimento di politiche nazionalistiche. Le organizzazioni incominciarono ad compiere atti terrorstici contro in territorio israeliano e contro obiettivi israeliani ed ebraici nel mondo, internazionalizzando il conflitto attraverso il terrorismo. Comunque, la causa palestinese è sempre stata considerata necessaria alla retorica araba, in quanto carica di immagini che evocavano la lotta degli oppressi contro il colonialismo e il dominio straniero. Negli stessi anni, l’Algeria assisteva alle rivolte dell’FLN e la successiva sconfitta dei francesi, il che diede al resto del mondo arabo un esempio di come si potesse raggiungere l’ndipendenza. La Guerra contro Israele fu in questi anni presentata al mondo come una declinazione della lotta contro l’imperalismo, cioè la lotta dei palestinesi contro l’oppressore israeliano. Un ultimo tentativo militare di distruggere Israele fu compiuto negli anni successive, mentre la Guerra diplomatica si nutriva della logica della Guerra Fredda. Il successore di Nasser, Anwar Sadat, seguì la politica internaizonale del predecessore per i soli primi anni di governo, per poi cambiare completamete l’assetto dell’equilibrio di alleanze egiziano. Sadat aveva precise idee riguardo le alleanze e le relazioni internazionali, ma doveva prima guadagnare la credibilità delle masse egiziane ed arabe. Il grade atto che poteva portarlo alla fama era una Guerra contro il grande nemico, cioè Israele. Per tale ragione l’Egitto dichiarò una Guerra contro Israele nel 1973, che si rivelò una disfatta da entrambi i lati: l’Egitto non riuscì a liberare il Sinai ed Israele contò in pochi giorni molte casualità. La rivoluzione di Sadat si caratterizzò per due aspetti: in primo luogo per il rinnovamento del nazionalismo egiziano purgato di elementi pan-arabisti, in secondo luogo l’instaurazione di relazioni amichevoli con l’Occidente, in particular modo con gli Stati Uniti. Ma per poter affrontare appieno la rivoluzione “filo-occidentale” l’Egitto necessitava di normalizzare i rapporti con Israele. Dopo cinque anni, l’Egitto firmò un accordo di pace con Israele per diventare poi il secondo alleato degli Stati Uniti nel Medio Oriente, ed abbandonando il sostegno alla causa palestinese che avrebbe portato disordini interni come in Giordania ed in Libano. Ciononostante la campagna di demonizzazione cotro Israele era già approdata alle Nazioni Unite, trovando espressione in un documento che condannava Israele come Stato razzista.

    Adozione e Revoca della Risoluzione

    Dopo Quattro guerre e Quattro sconfitte, il mondo arabo pianificò la più grande vittoria contro lo stato ebraico all’Assemblea delle Nazioni Unite. La Risoluzione 3379 del Novembre 1975 equiparò il Sionismo al razzismo. Il documento segnò significative modifiche nelle relazioni arabo-israeliane. Il nemico non fu quindi identificato con lo stato, la cui ostinata esistenza era ormai un dato di fatto, bensì l’identificazione del nemico slittò alla base ideological dello Stato ebraico. Come si è trattato nel secondo paragrafo, Israele è frutto del Sionismo come movimento nazionale, quindi minare la stessa base ideologica sulla quale Israele è nata e dalla quale Israele trae la propria esistenza equivale ad attaccare la stessa esistenza dello stato ebraico. Poiché gli attacchi militari frontali ad Israele non sortirono alcun effetto, allora la Guerra cambiò strategia adottando la demonizzazione come arma privilegiata.
    Una analisi dei voti è necessaria per capire come la risoluzione sia il frutto di un determinato quadro ideologico che dev’esser collegato alla Guerra fredda, ai suoi schemi e ai suoi equilibri. Votarono a favore 72 Stati, contro 32, mentre gli astenuti furono 35. Tra la prima cateoria si possono essere individuati almeno tre blocchi: gli Stati arabi ed islamici, l’Unione Sovietica ed i suoi satelliti, e la stragrande maggioranza dei Paesi del terzo Mondo; nella seconda categoria si enumerano solo stati occidentali; mentre nella terza categoria si enumerano paesi del Terzo Mondo ed altri stati occidentali. Per ogni blocco si possono trovare delle ragioni di voto.
    Il blocco arabo era parte del movimento dei non-allineati fin dalla nascita a Bandung, come parte della politica estera nasserista. Gli stati non-allineati volevano promuovere una alternativa ai due blocchi che dominavano la Guerra Fredda riaffermando fermamente la loro indipendenza e le loro inclinazioni anti-colonialiste. Così diventarono i promotori del terzomondismo come corrente ideologica e culturale contro gli stati coloniali. Gli stati arabi volevano combattere il residuo coloniale cono ogni mezzo, e poiché Israele è da sempre stata percepita come una presenza coloniale, è normale che questa visione si sia espansa in tutto il terzo mondo, sensibile fin dagli anni ’70 alle questioni di indipendenza e auto-determinazione. In più la stessa visione era condivisa dagli stati islamici nei quali si stava sviluppando una certa letteratura islamica orientata all’interpretazione della storia come una serie di attacchi dell’Occidente contro l’Islam. Secondo la visione storica islamica, Israele era una creazione dei Crociati, che continuavano ad invadere le terre islamiche.
    Per quanto attiene al blocco sovietico, è chiaro come il Sionismo fosse intrinsecamente incompatibile con l’ideologia comunista sovietica che non poteva accettare che alcun nazionalismo si sviluppasse tra i propri confini. Lo scopo delle ideologie sovietiche era di annullare le differenze nazionali per poter realizzare l’ideale creazione dell’homo sovieticus. Peraltro molti ebrei sovietici erano entusiasti delle vittorie israeliane e simpatetici con la causa sionista, che portò ad una violenta repressione degli attivisti sionisti durante gli anni ’60 e ’70, in modo da scoraggiare gli ebrei ad abbracciare cause contro-rivoluzionarie. L’Unione Sovietica doveva poi combattere una guerra contro gli Stati Uniti che nel Medio Oriente contava Israele come il miglior alleato; infine era evidentemente naturale per i sovietici votare una risoluzione contro Israele. La mozione per la votazione della risoluzione fu proposta dagli Stati arabi, che scelsero di esprimere il sionismo in termini di razzismo, mentre il discorso politico sul sionismo si focalizzava sulla sua portata colonialista. Poiché il tentative era quello di denigrare Israele tra le nazioni, si è incominciato a screditare le sue basi ideologiche. Il colonialismo non ha prodotto solo sfruttamento economico, ma anche la disintegrazione dell’identità culturale indigena attraverso pratiche di discriminazione culturale e razziale. Per tale ragione nel periodo della decolonizzazione, i nuovi stati indipendenti si focalizzarono sull’importanza dell’identità. Questo approccio era il migliore per gettare discredito su Israele quale prodotto del colonialismo e, di conseguenza, quale espressione del razzismo contro gli arabi. Questo approccio fu spesso adottato in sede ONU, percui molte altre risoluzioni successive a quella del 1975 richiamavano i legami tra sionismo e razzismo tanto da avvicinare le attività e l’essenza politica di Israele a quella del Sudafrica dell’apartheid.
    La rezione di Israele fu tale da considerare la risluzione un mero pezzo di carta: il rappresentante di Israele alle Nazioni Unite, per tutta risposta all’adozione della risoluzione, ha simbolicamente strappato il foglio sula quale era stampata di fornte all’assemblea. Negli anni successive la situazione politica di Israele cambiò considerevolmente. Lo stato ebraico instaurò relazioni amichevoli con molti paesi del terzo mondo, soprattutto africani e sudamericani ed anche con l’Unione Sovietica, ma la risoluzione rimase in vigore fino alla fine della Guerra fredda.
    Nel 1991 il mondo cambiò. L’Impero Sovietico era al collasso, lo spirito di Bandung finito da un pezzo, l’Egitto aveva da tempo riconosciuta Israele e la Giordania si preparaval grande passo della pace, ed infine il terzomondismo caratterizzava ormai solo il neonato business delle ONG e degli attivisti dei diritti umani. Pertanto un nuovo equilibrio alle Naizoni Unite rese possible l’approvazione della risoluzione 86, il 16 dicembre di quell’anno, documento che revocava la risoluzione del 1975. I Paesi del blocco sovietico e del terzo mondo che votarono allora in favore della risoluzione, nel 1991 votarono in favore della revoca — 104 voti a favore (tra i quali la quasi totalità degli stati africani e sudamericani), 25 voti contro, 15 astensioni (tra cui l’Egitto).
    La durata in vigore di undici anni della risoluzione rappresenta un dardo ideologico scagliato ocntro lo Stato di Israele nell’ambito di una lotta diplomatica che pare continuare ancor oggi. E’ ontologicamente differente dalle altre risoluzioni e posizioni approvate in seno all’ONU contro il Sudafrica dell’apartheid in quanto stato razzista e segregaizonsita in quanto Israele non ha mai né istituzionalizzato né politicizzato pratiche di segregazione o discrimnazione razziale ed in secondo luogo la comunità internazzionale era unita nel condannare il Sudafrica. Israele è stata attaccata ideologicamente solo da alcuni stati che hanno avuto successo nello sfruttare lo scontro politico tra i due poli della Guerra fredda. La risoluzione, infine, rappresenta il punto di partenza della lotta ideologica del mondo arabo e islamico contro Israele in quanto maggiore sostanziazione della retorica araba contro Israele come risultato del colonialismo e come più grande e concreta manifestazione del discorso politico anti-israeliano. La lotta ideologica non finì con la revoca della risoluzione, ma continuò per tutti gli ani ’90 spostandosi dal fronte del dibattito ideologico a quello dei diritti umani. Verso la riadozione della risoluzione La risoluzione è stata da tempo revocata ma gli stati arabi ancora affermano la loro posizione sul Sionismo quale forma di razzismo, utilizzando la grammatica dei diritti umani come principale mezzo di comunicazione. Questa posizione sembra esser accettata da molte organizzazioni per i diritti civili che addirittura auspicano una riadozione della risoluzione.
    Il 15 Settembre 1994 al summit della Lega Araba al Cairo fu adottata la Carta Araba dei Diritti Umani, nella quale il Sionismo è non solo equiparato ad una forma di razzismo, bensì anche considerato come una minaccia alla pace mondiale. La Carta entrò in vigore il 30 gennaio 2008 e fu seguita da aspre critiche dell’Alto Commissario ONU per i diritti umani. Tra le varie incmpatibilità della Carta con gli standard internazionali, il Commissario trovò che la riaffermazione del sionismo come forma di razzismo on sia ocnforme alla risoluzione 46/86. Nonostante la revoca della risoluzione del 1975, e nonostante la posizione dela Commissario per i Diritti Umani, la Carta non è stata modificata.
    La posizione degli stati arabi, come dimosra la Carta, è la ripetizione della solita equazione sionismo è razzismo, ma in nuovi termini. Se il primo tentativo di denigrare Israele fu inquadrato nella logica della Guerra Fredda e espresso in termini di terzomondismo, ora la stessa posizione è convogliata in termini di diritti umani ed inquadrata in una logica di pace mondiale. Alle Nazioni Unite non ci potrebbe esser di nuovo lo stesso fortunato equilibrio di alleanze che portò all’approvazione della risoluzione del 1975, pertanto il campo di battaglia si è spostato sul discorso dei diritti umani, al quale l’intera comunità internazionale è sempre più sensibile.
    All’inizio del settembre 2001, a Durban, Sudafrica, fu organizzata sotto il patrocinio delle Nazioni Unite la Conferenza Mondiale contro il Razzismo, la Discrimnazione Razziale, la Xenofobia, e l’Intolleranza Correlata. Per contro si risolse in una tragicommedia di intolleraza e discriminazione. I partecipanti israeliani e le organizzazioni ebraiche furono esclusi dai lavori preparatori in Teheran nel settembre del 2000. Persino i partecipanti Bahai e Curdi non furona ammessi all’eventi e così quei paesi che saorno rivoltarsi contro l’oltraggioso comportamento delle autorità iraniane: Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Lo stesso trattamento spettò alle organizzazioni israeliane, ebraiche, curde e bahai l’anno successivo a Durban. Ciò che più turba è che in entrambi gli eventi circolarono molte vignette antisemite, senz’alcuna rimostranza da parte di nesusn partecipante né di altri rappresentant ONU. In quest’atmosfera esacerbata dalla seconda intifada si fece strada l’idea di riadottare la risoluzione antisionista. I documenti finali della Conferenza di Durban sanciscono che il sionismo è una pratica razzista e auspicano la riadozione della risoluzione. La strategia araba ed islamica ha cambiato il campo di battagli, ma sostanzialmente rimane la stessa. Lo scopo è la denigrazione di Israele, ma i modi della battaglia cambiano con il cambiare del mondo per abbracciare oggi il discorso sui diritti umani. Durban è il risultato più evidente dell’abuso ideologico della retorica antidiscriminatoria. La lotta ideologica contro Israele si muove verso il discorso sui diritti umani, ormai parte della cultura occidentale dal secondo dopoguerra, per poter attaccare le basi ideologiche dello stato ebraico. L’equiparazione del sionismo al razzismo è un’arma assai potente da utilizzare allo scopo di escludere Israele dalla comunità internzionale, in quanto equivale a sostenere che Israele è un regime razzista per evocare le immagini del noto caso sudafricano auspicando un simile isolamento. L’odierna attenzione ai diritti umani non è relegata alle azioni di qualche organizzazione, bensì ha effetti anche sulle relaizoni internaizonali. E’ per questo che la guerra anti-israeliana ora si serve della retorica dei diritti umani, per raggiungere l’auspicato effetto di totale estraniazione di Israele dalla comunità mondiale.

    Conclusione

    Gli stati arabi non hanno mai accettato l’esistenza di Israele. Dopo aver ostacolato l’immigrazione ebraica in Palestina ed aver attaccato la popolazione ebraica nella Palestina mandataria in quanto percepita come mandataria di politiche colonialiste britanniche, la lotta contro gli ebrei si concentrò su Israele, lo stato ebraico nato dalle attività politiche sioniste. La guearra contro Israele incominciò come guerra armata che si concretizzò in quattro episodî storici di guerra diretti a distruggere Israele. Negli anni 70, il blocco arabo era solidamente alleato all’Unione Sovietica e parte del movimento dei paesi non allineati; questo equilibrio nella comunità internazionale permise agli stati arabi di dichiarare una guerra diplomatica contro Israele, la cui vittoria principale è rintracciabile nell’approvazione della risoluzione ONU che equiparava Sionismo a razzismo. La guerra diplomatica è preordinata alla denigrazione di Israele e della sua nase ideologica fondante. La scelta di violenza politica rimane dominio di molte organizzazioni terroristiche palestinesi e non-palestinesi, mentre sul piano ideologico la lotta antiisraeliana si è spostata dal campo diplomatico al regno dei diritti umani. Dopo la fine della guerra fredda la lotta contro l’eredita’ coloniale ha instaurato un nuovo quadro di comprensione del terzomondismo, che ora è confluito nell’aura ideologica dei movimenti per i diritti umani. È in questo campo che rivive la lotta araba ed islamica contro Israele, attraverso la considerazione del Sionismo come una forma di razzismo. L’equazione anti-sionista non solo delegittiam Israele tra le nazioni, ma la demonizza di fornte alla comunita’ mondiale, il cui valore primo è la pace. L’attuale demonizzazione di Israele quale stato razzista in quanto fondato sul sionismo è il risultato della non-accettazione di Israele da parte degl istati arabi e la principale espressione della lotta diplomatica contro lo stato ebraico che utilizza e sfrutta strutture proprie della gramatica dei diritti umani. Permettere ad organizzazione governative e non-governative di denigrare Israele attraverso l’utilizzo di pacchetti retorici che hanno snaturato i concetti e principî basilari dei diritti umani e della giustizia internazionale, significa combattere la guerra a fianco degli stati arabi contro Israele. Gli standard morali ed etici che la comunità internazionale si propone di difendere sono in realtà stati da tempo corrotti per far posto ad una visione delle relazioni internazionali che segue le necessità ideologiche degli stati arabi. Non partecipare a Durban 2 signica riappropriarsi di quel senso originario dei diritti umani, del valore primigenio della giustizia tra i popoli.


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    Predefinito Rif: ISRAELE SIAMO NOI




    A chi appartiene Gerusalemme

    di Daniel Pipes

    Los Angeles Times, 21 luglio 2000


    Con l'avvio della fase finale dei negoziati tra Israele e i palestinesi, Gerusalemme è finalmente in gioco. La questione alla base è una contesa tra ebrei e musulmani in merito a chi è più accreditato ed ha legami più antichi e profondi con la Città Santa.

    Una rapida scorsa dei fatti mostra che c'è poco da litigare.

    Gerusalemme riveste una straordinaria importanza per gli ebrei. Essa occupa un posto speciale nella legge giudaica e permea la religione ebraica. Gli ebrei pregano rivolti verso Gerusalemme, lì piangono la distruzione del loro Tempio, e ripetono con struggimento la frase: "L'anno prossimo a Gerusalemme". Essa è l'unica capitale dello Stato ebraico antico o moderno.

    Al contrario, Gerusalemme riveste per i musulmani un interesse nettamente secondario: non viene una sola volta menzionata nel Corano o nella liturgia. Il Profeta Maometto non è mai stato nella città né ha avuto legami con essa. Gerusalemme non è mai stata capitale di nessuno Stato né tanto meno un centro nevralgico della cultura islamica.

    Piuttosto, è la Mecca la "Gerusalemme" dell'Islam. Quello è il luogo in cui i musulmani credono che Abramo stesse per sacrificare Ismaele; il luogo in cui Maometto visse la maggior parte della sua vita e dove si svolsero gli avvenimenti chiave dell'Islam. I musulmani pregano in direzione della Mecca cinque volte al giorno, e lì ai non-musulmani è vietato di mettervi piede.

    Se Gerusalemme riveste una minore importanza per l'Islam, per quale motivo i musulmani insistono a dire che essa è più importante per loro che per gli ebrei? La risposta è legata alla politica. I musulmani mostrano un interesse religioso verso Gerusalemme quando essa soddisfa i reali interessi. Se questi ultimi passano in secondo piano, così è anche per Gerusalemme. Questo è accaduto almeno cinque volte in quattordici secoli.

    Il Profeta. Quando Maometto cercò di convertire gli ebrei nel 620 d.C., egli adottò alcune pratiche ebraiche – un digiuno come quello dello Yom Kippur, un luogo di culto che somigliava a una sinagoga, prescrizioni alimentari come quelle kasherut, come anche delle preghiere simili al Tahanun rivolte verso Gerusalemme. Ma quando la maggior parte degli ebrei rifiutò di convertirsi, il Corano cambiò la direzione delle preghiere verso la Mecca e Gerusalemme perse la sua importanza per i musulmani.

    La dinastia ommayyade. Gerusalemme ritrovò la sua dignità alcuni decenni dopo, quando i governanti della dinastia ommayyade cercarono di accrescere l'importanza dei loro territori. Uno dei modi per ottenere ciò fu quello di edificare due monumentali strutture religiose a Gerusalemme: la Cupola della Roccia, nel 691 e la moschea di Al-Aqsa, nel 715.

    Allora gli Ommayyadi utilizzarono una stratagemma. Il Corano dice che Dio condusse Maometto "nottetempo, dalla sacra moschea della Mecca al luogo di culto più lontano (al-aqsa) che esiste". Quando (intorno al 621) venne rivelato questo brano, la frase "il luogo di culto più lontano che esiste" andava intesa come un giro di parole e non come un luogo specifico. Decenni dopo, gli Ommayyadi costruirono una moschea a Gerusalemme e la chiamarono Al-Aqsa. Da allora i musulmani compresero che il passaggio riguardante "il luogo di culto più lontano che esiste" si riferiva a Gerusalemme.

    Ma quando gli Ommayyadi caddero nel 750, Gerusalemme ricadde nella quasi oscurità.

    I crociati. La conquista da parte dei crociati di Gerusalemme, avvenuta nel 1099, rivelò dapprincipio una debole reazione musulmana. In seguito, quando si sviluppò una contro-crociata musulmana , fiorì un'intera letteratura che celebrava le virtù di Gerusalemme. Fu così che a quel tempo Gerusalemme iniziò ad essere considerata come la terza città santa dell'Islam.

    In seguito, quando nel 1187 tornò felicemente nelle mani musulmane, la città ricadde nella sua solita oscurità. Il numero di abitanti diminuì e caddero perfino le mura difensive.

    La conquista britannica. I musulmani ritrovarono interesse verso Gerusalemme solo nel 1917, quando le truppe britanniche raggiunsero la città. I leader palestinesi fecero di Gerusalemme l'argomento principe della loro campagna antisionista.

    Quando i giordani conquistarono la città vecchia nel 1948, com'era prevedibile, i musulmani persero nuovamente interesse nella città. Essa tornò ad essere una piccola città di provincia, degradata deliberatamente dai giordani, a favore della loro capitale Amman.

    Per ottenere un prestito bancario, per far installare una linea telefonica, o per assicurare un pacco postale occorreva recarsi ad Amman. La radio giordana trasmetteva il sermone del venerdì non da Al-Aqsa ma da una moschea minore di Amman. Gerusalemme scomparve anche dalla carta diplomatica araba: il patto dell'OLP del 1964 non la menzionava affatto. Nessun leader arabo (ad eccezione di Re Hussein, qualche volta) l'ha visitata.

    La conquista israeliana. Quando Israele conquistò la città nel giugno del 1967, i musulmani mostrarono nuovamente interesse verso Gerusalemme. Il patto dell'OLP del 1968 menzionava il nome di Gerusalemme. L'Iran rivoluzionario ha indetto un Jerusalem Day e ha impresso l'immagine della città sulle banconote. I soldi si riversarono nella città per edificare istituzioni caritative.

    Nel corso della storia è stata dunque la politica, più che i sentimenti religiosi, a muovere l'interesse musulmano verso Gerusalemme.


    A chi appartiene Gerusalemme :: Daniel Pipes
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    Predefinito Rif: ISRAELE SIAMO NOI




    "Ebreo" non è la stessa cosa di "pro-Israele"

    di Daniel Pipes

    18 agosto 2009


    È una cosa ovvia, ma va puntualizzato che:

    1. Non tutti gli ebrei sono sionisti. Alcuni credono nel socialismo universale, qualcuno sostiene i palestinesi, altri ritengono che solo Dio può creare uno Stato ebraico oppure di aver subito una delusione da quando nel 1977 la destra è arrivata per la prima volta al potere in Israele. Qualcuno detesta apertamente lo Stato ebraico altri pretendono che esso non esista e i più astuti si presentano come sionisti.

    2. Molti non-ebrei sono sionisti. Il sionismo cristiano iniziò nel XIX secolo in Gran Bretagna, incluse parecchie personalità americane di spicco, culminando con Lord Balfour ed Harry S. Truman e oggi, come scrissi nel 2003, "oltre alle Forze di difesa israeliane, i sionisti cristiani d'America possono costituire l'ultimo vantaggio strategico dello Stato ebraico".

    Pertanto, è inesatto presumere che gli ebrei siano sostenitori di Israele. Questa congettura comporta altresì due deplorevoli implicazioni: essa privilegia gli ebrei antisionisti ("Sono ebreo ma …") ed emargina i sionisti non-ebrei.

    Gli ebrei aderiscono a una fede, non a un movimento politico. Con riferimento alla politica, si deve parlare di "comunità pro-Israele" o di "sionisti", ma non di "ebrei".



    "Ebreo" non è la stessa cosa di "pro-Israele" :: Daniel Pipes

    Pezzo in lingua originale inglese: "Jewish" - Not the Same as "Pro-Israel"


    Nella foto il senatore Joseph Lieberman che parla nel 2008 al meeting nazionale dei Cristiani Uniti per Israele.
    Ultima modifica di Florian; 06-12-09 alle 13:12
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    Predefinito Rif: ISRAELE SIAMO NOI




    Democratici, repubblicani e Israele

    di Daniel Pipes

    New York Sun, 23 maggio 2006


    Le questioni mediorientali probabilmente giocheranno un importante ruolo senza precedenti nelle elezioni statunitensi di medio termine che si svolgeranno tra meno di sei mesi. Tre gli argomenti in cima all'agenda: l'andamento della guerra in Iraq, l'appropriata risposta alle ambizioni dell'Iran nucleare e il prezzo del carburante in forte aumento.

    Malgrado la loro importanza, tali questioni sono contingenti e gli elettori prenderanno delle decisioni in base a delle circostanze transitorie, senza delineare delle differenze ben precise tra i due maggiori partiti; qual è la posizione dei democratici riguardo all'Iraq, ad ogni modo, oppure quella dei repubblicani riguardo all'Iran? C'è una quarta questione mediorientale – il conflitto arabo-israeliano – che presenta una maggiore valenza elettorale, sebbene questo anno tale questione sia meno rilevante. È questo un argomento che contribuisce da sempre alla diversificazione dei due partiti.

    Il legame esistente tra gli Stati Uniti e Israele rappresenta "il rapporto speciale" per eccellenza nel mondo odierno come altresì esso costituisce il più straordinario legame esistente in politica internazionale. In parecchi settori – politica estera, cooperazione strategica, legami economici, accademici, religiosi e intervento nella politica interna di entrambi – i due paesi vantano dei rapporti eccellenti per non dire unici. Ciò si estende persino alla politica locale, come sostiene un articolo pubblicato nel 1994 dal quotidiano The New Yorker a volte "sembra che il Medio Oriente – o, ad ogni modo, Israele – sia una circoscrizione" della città di New York.

    Inoltre, un significativo numero di americani (ebrei, seguaci dei movimenti evangelici, arabi, musulmani, antisemiti, elettori di sinistra) vota conformemente alle linee politiche adottate nei confronti di Israele.

    I democratici e i repubblicani mutano posizione nella linea politica da adottare nei confronti di Israele fin dalla nascita dello Stato ebraico, avvenuta nel 1948,. Nella prima era (1948-70), i democratici simpatizzarono per Israele più di quanto fecero esplicitamente i repubblicani. Mentre i democratici davano importanza ai legami spirituali, i repubblicani tendevano a considerare Israele come uno Stato debole e responsabile della Guerra Fredda.

    La seconda era ebbe inizio nel 1970 e durò venti anni. In seguito alla straordinaria vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni, Richard Nixon, un repubblicano, arrivò a considerare lo Stato ebraico come una fabbrica militare e come un alleato vantaggioso. Questa nuova visione fece sì che i repubblicani vedessero di buon occhio Israele al pari dei democratici. Nell'osservare questo stato di cose, in un saggio pubblicato nel 1985 argomentai "quanto fosse statisticamente irrilevante la percentuale dei progressisti e dei conservatori che appoggiavano Israele piuttosto che la causa araba".

    Nel 1990, alla fine della Guerra Fredda, ebbe inizio una terza era. I democratici si raffreddarono nei confronti di Israele e i repubblicani lo presero ulteriormente in simpatia. La sinistra fece della causa palestinese il suo pezzo forte (si pensi alla Conferenza di Durban del 2001), mentre la destra si schierò maggiormente a livello politico e religioso con lo Stato ebraico.

    Questa tendenza divenne sempre più manifesta. Nel 2000, James Zogby, un attivista anti-israeliano, rilevò in un'indagine commissionata dalla sinistra che era in atto "una significativa differenza di vedute" in merito al conflitto arabo-israeliano, con i repubblicani molto più filo-israeliani rispetto ai democratici. Ad esempio, in risposta alla domanda: "Secondo voi, che posizione dovrebbe assumere il prossimo presidente nei confronti del Medio Oriente?'", il 22% dei repubblicani ha risposto che dovrebbe essere a favore di Israele, e solo il 7% dei democratici ha optato per questa risposta.

    Da un recente sondaggio condotto dalla Gallup emerge che il 72% dei repubblicani e il 47% dei democratici parteggiano per gli israeliani piuttosto che per i palestinesi. Un attento esame di questi dati evidenzia dei risultati più clamorosi con i repubblicani conservatori oltre cinque volte più favorevoli verso Israele rispetto ai democratici progressisti.

    La freddezza mostrata da parte dei democratici nei confronti di Israele si inserisce in uno schema più ampio di teorie cospirative riguardo i neocon e di attacchi anti-ebraici da parte di taluni luminari del partito come Jimmy Carter, Jesse Jackson, Cynthia McKinney e James Moran. Sher Zieve, uno studioso, arguisce che tra i democratici "l'antisemitismo è ed è stato in aumento" per qualche tempo.

    L'attuale tendenza sembra sempre più rafforzarsi, ed è accompagnata da una netta separazione tra ebrei e arabi/musulmani nella politica americana. Ciò mi induce a pensare che musulmani, arabi e altri ostili a Israele esprimeranno sempre più la loro preferenza elettorale a favore dei democratici, proprio come gli ebrei e coloro che sono ben disposti verso lo Stato ebraico preferiranno votare per il partito repubblicano. Da questo punto di vista, va osservato che i musulmani d'America ritengono di essere in diretta competizione con gli ebrei; Muqtedar Khan, del Brookings Institute, preconizza che i musulmani presenti negli Stati Uniti presto "non solo saranno in grado di prendere più voti, ma offriranno altresì di più della lobby ebraica e della maggior parte di altre lobby etniche".

    Questi sviluppi potrebbero avere delle importanti conseguenze nei rapporti tra gli Stati Uniti e Israele. La continuità della linea politica accettata da più parti in passato finirà e sarà rimpiazzata da un grosso cambiamento quando la Casa Bianca avrà un cambio di proprietario, passando da un partito all'altro. Quando il consenso politico verrà meno, Israele sarà il perdente.


    Democratici, repubblicani e Israele :: Daniel Pipes

    Pezzo in lingua originale inglese: Democrats, Republicans, and Israel
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    Predefinito Rif: ISRAELE SIAMO NOI

    IL NUOVO ANTISEMITISMO, di Fiamma Nirenstein - Parte Prima





    Il nuovo antisemitismo

    di Fiamma Nirenstein

    Liberal, ottobre 2003


    Nel 1967 ero una giovane comunista, come la maggior parte dei ragazzi italiani. Stufa del mio comportamento ribelle, la mia famiglia mi mandò in un kibbutz dell’alta Galilea, Neot Mordechai. Laggiù mi sentivo piuttosto contenta: il kibbutz dava ogni mese una certa somma di denaro per sostenere la lotta dei vietcong. Quando scoppiò la guerra dei Sei Giorni, Moshe Dayan parlò alla radio per darne l’annuncio. Chiesi ai miei compagni di Neot Mordechai che cosa volessero dire le sue parole. Mi risposero: Shtuiot, sciocchezze. Durante la guerra accompagnavo i bambini nei rifugi, scavavo trincee e mi addestravo in alcune semplici operazioni di autodifesa. Continuavamo a lavorare nell’orto, ma eravamo svelti a identificare i Mig e i Mirage che si inseguivano nel cielo sopra le alture del Golan. Quando tornai in Italia, i miei compagni di scuola non mi accolsero bene: alcuni mi guardarono come se non fossi più la stessa di prima, ma un nemico, una persona malvagia che presto sarebbe diventata un’imperialista. La mia vita stava per cambiare: allora non lo sapevo ancora, perché pensavo semplicemente che Israele avesse giustamente vinto una guerra dopo essere stato assalito e aver subito un numero incredibile di provocazioni e maltrattamenti. Ma presto mi accorsi che avevo perso l’innocenza dell’ebreo buono, di quell’ebreo speciale fatto secondo i loro desideri. Ora, in quanto ebrea, ero messa insieme con gli ebrei dello Stato di Israele e lentamente, ma inesorabilmente, venivo esclusa da tutta quella nobile schiera di personaggi come Bob Dylan, Woody Allen, Isaac Bashevis Singer, Philip Roth e Sigmund Freud, che santificava il mio giudaismo agli occhi della sinistra. Ho cercato per molto tempo di riconquistare quella santificazione, e la sinistra ha cercato di ridarmela, perché gli ebrei e la sinistra hanno disperatamente bisogno gli uni dell’altra. Ma ora, dopo che l’odierno antisemitismo ha calpestato qualsiasi buona intenzione, le cose si sono fatte chiare. In tutti questi anni, anche persone che, come me, hanno firmato petizioni per il ritiro dell’esercito israeliano dal Libano, sono diventate dei «fascisti inconsapevoli», come mi ha scritto un lettore in una lettera piena di insulti. In un libro sono stata definita semplicemente «una donna appassionata che si è innamorata di Israele, confondendo Gerusalemme con Firenze». Un palestinese mi ha detto che, se io vedo le cose in modo così diverso dalla maggior parte della gente, significa che il mio cervello non funziona bene. Sono stata anche definita una persona crudele e insensibile, che nega i diritti umani e alla quale non importa nulla della vita dei bambini palestinesi. La ragione di questi e di molti altri insulti e critiche mi è stata spiegata da uno scrittore israeliano molto famoso. Un paio di mesi fa, mentre stavamo parlando al telefono, mi ha detto: «Sei davvero diventata una persona di destra». Cosa? Di destra? Io? Una vecchia femminista, attivista dei diritti umani, addirittura comunista in gioventù? Soltanto perché ho raccontato il conflitto arabo-israeliano nel modo più accurato che potevo e perché talvolta mi sono identificata con un Paese continuamente attaccato dal terrorismo? È un fatto davvero interessante. Perché nel mondo contemporaneo, il mondo dei diritti umani, se una persona viene definita di destra, è stato compiuto il primo passo verso la sua delegittimazione.

    Ogni ebreo nato dopo l’Olocausto impara subito un messaggio molto chiaro: il male, per gli ebrei, è quasi sempre giunto dalla destra, in particolare dalla Chiesa, almeno per una buona parte della sua storia, e, naturalmente, dal nazismo e dal fascismo. L’Olocausto ha fatto ricadere il male sulla destra. E poiché gli ebrei sono il simbolo vivente di quanto possa essere malvagia la destra, legittimano la sinistra con la loro stessa semplice esistenza. Allo stesso tempo, la sinistra ha concesso la propria benedizione agli ebrei quali vittime par excellence, alleati sempre fedeli nella lotta per i diritti dei deboli contro i più forti. Quale ricompensa per il sostegno offertogli, come la possibilità di pubblicare libri e girare film, nonché per la reputazione di artisti, intellettuali e giudici morali che gli veniva riconosciuta, gli ebrei, persino durante le persecuzioni antisemite dell’Unione Sovietica, hanno dato alla sinistra il proprio appoggio morale, invitandola a unirsi a loro nel pianto di fronte ai monumenti dell’Olocausto. Oggi il gioco è inequivocabilmente finito. La sinistra si è dimostrata la vera culla dell’attuale antisemitismo. Quando parlo di antisemitismo, non mi riferisco alle legittime critiche rivolte contro lo Stato di Israele, bensì all’antisemitismo puro e semplice, talvolta accompagnato anche da critiche: criminalizzazione, stereotipi e menzogne specifiche o generiche, che da menzogne sugli ebrei (cospiratori, assetati di sangue, dominatori del mondo) hanno ampliato il loro raggio e sono diventate menzogne su Israele (Stato cospiratore e sfrenatamente violento), in modo addirittura brutale soprattutto a partire dalla seconda Intifada, nel settembre del 2000, e assumendo una ferocia sempre maggiore dall’inizio dell’operazione Chomat Magen, «Muro difensivo», quando l’esercito israeliano è rientrato nelle città palestinesi per rispondere agli attacchi terroristici. L’idea fondamentale dell’antisemitismo, oggi come sempre, è che gli ebrei abbiano un animo perverso che li rende diversi e inadatti, in quanto popolo moralmente inferiore, a diventare membri regolari della famiglia umana. Ora questa ideologia dell’Untermensch si è estesa a Israele in quanto Stato ebraico: un’entità straniera, separata, diversa, fondamentalmente malvagia, la cui esistenza nazionale viene lentamente ma inesorabilmente svuotata di significato e privata di giustificazione. Israele, proprio come il classico ebreo cattivo, non ha, secondo l’antisemitismo contemporaneo, diritto di nascita, ma è macchiato da un «peccato originale» commesso contro i palestinesi. La sua eroica storia è stata rovesciata e trasformata in una storia di arroganza. Oggi si parla molto più di Deir Yassin che della fondazione e della difesa del kibbutz Degania; molto più delle sofferenze dei profughi palestinesi che della sorpresa di vedere, nel 1948, cinque eserciti negare il diritto di esistenza appena decretato dalle Nazioni Unite; molto più del Lechi e dell’Irgun, le organizzazioni clandestine della resistenza ebraica, che dell’eroica battaglia combattuta sulla via di Gerusalemme. La caricatura dell’ebreo malvagio si è trasformata nella caricatura dello Stato malvagio. E ora il tradizionale ebreo col naso aquilino imbraccia un’arma e si diverte a uccidere i bambini arabi.

    Sulle prime pagine dei giornali europei abbiamo visto vignette che, ripetendo i classici stereotipi antisemiti, mostrano Sharon mentre divora bambini palestinesi e i soldati israeliani impegnati a minacciare culle di piccoli Gesù. Tutto questo nuovo antisemitismo, che si è materializzato sotto forma di una violenza fisica senza precedenti contro persone e simboli ebraici, nasce nel seno di organizzazioni che si dedicano ufficialmente alla salvaguardia dei diritti umani, e ha raggiunto il proprio apice nel summit delle Nazioni Unite tenuto recentemente a Durban, quando l’antisemitismo è ufficialmente diventato lo stendardo della nuova religione secolare del nostro tempo, la religione dei diritti umani, facendo così di Israele e degli ebrei il suo nemico dichiarato. Ma gli ebrei e in generale la comunità internazionale sono stati presi del tutto di sorpresa e non hanno denunciato la nuova ondata di antisemitismo. Nessuno si scandalizza se Israele viene ogni giorno accusato, senza alcun motivo, di eccessiva violenza, di atrocità e di crudeltà. Ognuno è tormentato e turbato per la necessità di sferrare dolorosi attacchi contro i covi dei terroristi, spesso nascosti in mezzo a famiglie e bambini. Tuttavia, ogni Paese ha il diritto di difendersi. Nel corso della storia, soltanto agli ebrei è stato negato questo diritto, e così avviene ancora oggi. Perché la guerra al terrorismo è spesso considerata un problema fondamentale che il mondo deve ancora risolvere (si pensi soltanto agli Usa, e alla loro guerra contro l’Afghanistan e l’Iraq), mentre Israele viene trattato come un imputato considerato già colpevole proprio per il fatto che lo combatte? Non è forse un segno di antisemitismo mostrare apertamente di essere convinti che gli ebrei debbano morire in silenzio? Perché Israele è ufficialmente accusato di violare i diritti umani da una speciale commissione di Ginevra, mentre Cina, Libia e Sudan non sono mai stati fatti oggetto di alcuna accusa? Perché a Israele è stato negato un posto fisso in un gruppo regionale delle Nazioni Unite, mentre la Siria siede nel Consiglio di Sicurezza senza che nessuno alzi nemmeno un dito in segno di protesta? Perché tutti possono partecipare a una guerra contro l’Iraq, ma a Israele è invece proibito di farlo, anche se è sempre stata direttamente minacciata di totale distruzione da parte di Saddam Hussein? Perché, quando Stati sovrani e organizzazioni di vario genere rivolgono minacce di morte a Israele, nessuno solleva la questione all’Onu? Avete mai visto l’Italia minacciata dalla Francia o dalla Spagna nello stesso modo in cui gli iraniani minacciano Israele, come quando i loro leader proclamano che distruggeranno Israele con una sola bomba atomica? E chi apre mai bocca sul fatto che una gran parte dei giornali, delle televisioni, delle radio e dei libri scolastici di tutto il mondo invitano a cacciare gli ebrei fuori da Israele e a ucciderli in qualsiasi parte del mondo con attentati terroristici? Nessuno nella comunità internazionale sembra considerarlo un problema. Israele è un unterstate, uno Stato di seconda categoria, al quale è negato il diritto fondamentale a un’esistenza onorevole e pacifica, riconosciuto a tutti gli altri Stati. Lo Stato ebraico non è uno Stato come tutti gli altri.

    Questo nuovo antisemitismo ha un volto che, come quello di Medusa, pietrifica chiunque lo osservi. La gente non vuole ammetterlo e neppure nominarlo perché in questo modo si svela sia l’identità dei suoi sostenitori sia il suo vero obiettivo. Persino gli stessi ebrei non vogliono chiamare un antisemita con il suo vero nome, temendo di frantumare vecchie alleanze. Perché la sinistra ha una propria idea molto precisa su cosa debba essere un ebreo, e se questi non segue le sue direttive, viene immediatamente rimproverato: come osi essere un ebreo diverso da come ti ho ordinato? Combattere il terrorismo? Eleggere Sharon? Ma sei pazzo? E qui la risposta degli ebrei e degli israeliani è sempre la stessa: siamo ancora molto timidi, molto desiderosi del vostro affetto. Perciò, invece di pretendere che Israele sia riconosciuta una nazione come tutte le altre e che gli ebrei diventino cittadini di pari gradi in tutto il mondo, preferiamo stare al vostro fianco, persino quando tirate fuori centinaia e centinaia di affermazioni antisemite. Preferiamo restare vicini a voi davanti a un monumento eretto in memoria dell’Olocausto, ascoltandovi deprecare il vecchio antisemitismo, mentre allo stesso tempo accusate Israele, e perciò gli ebrei, di essere dei killer razzisti. Facciamo un esempio che è diventato famoso in tutto il mondo e che risale a quando Paolo Mieli è stato nominato - seppur brevemente - presidente della Rai. Un incarico di grande importanza, perché la Rai è un impero che influenza profondamente l’opinione pubblica italiana e controlla miliardi di dollari. Mieli è un cognome ebraico e la stessa notte della sua nomina, la sede della Rai è stata imbrattata di graffiti. Sopra l’insegna «Rai» è stata scritta la parola raus, e attorno alla lettera «a» di Rai è stata disegnata una stella di David, trasformando il signifcato dell’acronimo «Rai» da «Radio televisione italiana» in «Radio televisione israeliana». Si tratta di un esempio perfetto di ciò di cui stiamo parlando: raus e la stella di David sono i simboli classici del tradizionale disprezzo e odio antisemitico, mentre la versione «Radio televisione israeliana», mettendo Israele al centro del quadro, è una chiara dimostrazione di come Israele sia il punto focale dell’odio antisemita di sinistra. Sorprendentemente, o forse prevedibilmente, una così sfacciata manifestazione di antisemitismo ha suscitato pochissime reazioni sia da parte delle autorità italiane sia da parte della comunità ebraica italiana.

    Ecco un altro episodio significativo: un gruppo di professori della prestigiosa università di Ca’ Foscari a Venezia ha firmato una petizione per boicottare i professori e i ricercatori israeliani. Il testo di questa petizione è del tutto irrilevante, ma le reazioni che ha suscitato nella comunità ebraica sono molto interessanti. Un suo autorevole membro, quando gli è stata chiesta la sua opinione, ha detto: «Stanno facendo un grosso errore. Questi professori non si accorgono che, con il loro boicottaggio, stanno dando una mano alla politica di Sharon». Una reazione così assurda è la prova tangibile dell’incapacità, all’interno del mondo ebraico, di comprendere questo genere totalmente nuovo di antisemitismo, che ha come suo obiettivo principale lo Stato di Israele. Un altro esempio ancora è offerto da una lettera di un gruppo di professori dell’università di Bologna, indirizzata ai «loro amici ebrei» e pubblicata con un altissimo numero di firme a sottoscrizione. Eccone un passaggio: «Abbiamo sempre considerato il popolo ebraico come un popolo intelligente, sensibile, forte, forse, più di tanti altri perché selezionato nella sofferenza e nelle persecuzioni, nelle umiliazioni subite per secoli, nei pogrom e, per ultimo, nei campi di sterminio nazisti. Abbiamo avuto compagni di scuola e amici ebrei, colleghi di lavoro da noi stimati, e anche allievi israeliani a cui abbiamo trasmesso i nostri insegnamenti portandoli alla laurea, e che oggi esercitano la loro professione in Israele. Siamo spinti a scrivervi perché sentiamo purtroppo che la nostra stima e il nostro affetto per voi, per il popolo ebraico, si sta trasformando in dolorosa rabbia ... tante altre persone, dentro e fuori la nostra università, che hanno stima per il vostro popolo oggi provano i nostri stessi sentimenti. È necessario che vi rendiate conto che oggi state facendo ai palestinesi quello che a voi è stato fatto nei secoli passati ... possibile che non vi accorgiate che state fomentando contro voi stessi un odio immenso?». Questa lettera è un perfetto riassunto di tutte le caratteristiche del nuovo antisemitismo. C’è la definizione pre-sionista del popolo ebraico come di un popolo che soffre, anzi che deve soffrire per sua stessa natura; un popolo destinato a sopportare le più terribili persecuzioni senza nemmeno alzare un dito e che, perciò, è degno di compassione e solidarietà. È ovvio che uno Stato di Israele solido, democratico, militarmente forte ed economicamente prospero è l’antitesi di questo stereotipo. Il «nuovo ebreo», che cerca di non soffrire e che, soprattutto, può e vuole difendersi, perde immediatamente tutto il suo fascino agli occhi della sinistra.


    - Fine Parte Prima -
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    SADNESS IS REBELLION

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    Predefinito Rif: ISRAELE SIAMO NOI

    IL NUOVO ANTISEMITISMO, di Fiamma Nirenstein - Seconda e Ultima Parte



    Ma fino a quando la mappa del Medio Oriente non è stata colorata di rosso dalla guerra fredda e Israele non è stato dichiarato la longa manus dell’imperialismo americano, la situazione era diversa. Il nuovo Stato di Israele, fino alla guerra del 1967, era costruito sulla base di un’ideologia che permetteva o addirittura obbligava la sinistra a essere orgogliosa degli ebrei e gli ebrei a esserlo della sinistra, anche quando gli israeliani stavano combattendo e vincendo aspre guerre. Gli ebrei che erano sopravvissuti alla persecuzione nazifascista, la persecuzione della destra, avevano fondato uno Stato socialista ispirato ai valori della sinistra, il lavoro e il collettivismo, e in questo modo avevano nuovamente santificato la sinistra come il rifugio di tutte le vittime. In cambio, agli ebrei fu garantita la legittimazione. Ma, di fatto, gli ebrei erano straordinariamente importanti per la sinistra. Il popolo israeliano era un’accusa vivente contro l’antisemitismo che aveva scatenato la Shoah, l’antisemitismo nazi-fascista; e ora stava addirittura costruendo fattorie collettive e dando vita a un sindacato onnipotente! Questo, per certi aspetti, fece assolvere l’antisemitismo stalinista, o perlomeno gli diede un’importanza minore di quella che ebbe realmente. Gli ebrei divennero indispensabili alla sinistra: osservate il tono paternalistico e pieno di compassione dei professori bolognesi: «Perfavore, cari amici ebrei, tornate indietro. Mettetevi di nuovo insieme a noi. Malediciamo insieme Israele e celebriamo lo Shoah Day». Ma la contraddizione è diventata persino ontologicamente insopportabile: infatti, come si può piangere insieme ai sopravvissuti per l’uccisione degli ebrei da parte dei nazisti, quando gli ebrei di oggi sono accusati di essere loro stessi dei nazisti? In un programma radiofonico trasmesso in Europa, qualcuno ha detto che, dopo la diffusione delle immagini di Muhammed al-Dura, l’Europa ha potuto finalmente dimenticare la famosa fotografia del ragazzino con le mani in alto nel ghetto di Varsavia. Il significato di quest’affermazione, spesso ripetuta in altre forme, è la cancellazione della memoria dell’Olocausto per mezzo di un’identificazione tra Israele e il nazismo, vale a dire con il razzismo, il genocidio, la crudele eliminazione dei civili, delle donne e dei bambini, con un’esplosione assolutamente ingiustificata di violenza e degli istinti più bassi e brutali. Significa pretendere di credere ciecamente, senza fare alcuna indagine, alla versione palestinese di un episodio molto controverso, così come di molti altri fatti. Significa dare per scontate le «atrocità» di cui parlano sempre i portavoce palestinesi, e ignorare qualsiasi prova concreta che non avvalla la loro versione dei fatti. Certo, la gente può, e lo ha sempre fatto, prendere come oro colato i pregiudizi sugli ebrei: ognuno è libero di pensare ciò che vuole. Ma noi ebrei dobbiamo semplicemente riservarci il diritto morale di considerare responsabile delle sue parole chi la pensa in quel modo; ai nostri occhi, questa persona sarà un autentico antisemita. Perciò gli dovremo dire: se tu menti o ricorri a pregiudizi e stereotipi parlando di Israele sei un antisemita e noi ti combatteremo. Non dobbiamo farci intimidire dai professori che, nella loro lettera, ci dicono: «Vi abbiamo aiutato, voi poveri ebrei, privi di tutto, un popolo senza nazione, a rimanere in vita durante la Diaspora e la fondazione di Israele. Senza di noi non siete nulla. Perciò state attenti: se persistete nel vostro tradimento vi annienteremo. Se non sapete qual è il vostro posto non esistete; e il vostro posto non è da nessuna parte». Sostengono che la loro sia una legittima critica alla Stato di Israele; ma la verità è che buona parte di queste critiche sono soltanto delle menzogne, come quando Suha Arafat ha affermato che gli israeliani avevano avvelenato le acque palestinesi, o quando lo stesso Yasser Arafat ha detto che Israele impiegava uranio impoverito contro il popolo palestinese, e che le donne-soldato israeliane si mostravano nude davanti ai guerriglieri palestinesi per confonderli. Lo stesso vale quando si dice che l’esercito israeliano spara deliberatamente contro i bambini o i giornalisti.

    Come giornalista, non posso passare sotto silenzio il grande aiuto dato dai mass media a questo nuovo antisemitismo. Fin dall’inizio dell’Intifada noi, giornalisti combattenti per la libertà cresciuti nei campi di Che Guevara e dei fedayin, abbiamo dato del conflitto israelo-palestinese un resoconto che è senza dubbio il più sbilanciato e prevenuto che si sia mai visto in tutta la storia del giornalismo. Ecco i principali fattori che rendono distorta l’informazione sull’Intifada:

    1) Mancanza di profondità storica nell’attribuzione delle responsabilità del suo scoppio: in altre parole, l’incapacità di raccontare in modo adeguato la storia dell’offerta israeliana per uno Stato palestinese e del rifiuto di Arafat che, in sostanza, non è altro che il rifiuto di accettare l’esistenza di Israele come Stato ebraico, e si inserisce nella scia di ormai quasi settant’anni di rifiuti arabi alla ripartizione del territorio di Israele tra arabi ed ebrei, come consigliato dagli inglesi nel 1936, deciso dalle Nazioni Unite nel 1947 e sempre accettato dai rappresentanti ebrei.

    2) Incapacità, fin dai primi scontri ai check point, di stabilire la responsabilità delle prime morti in conseguenza del fatto che, a differenza della prima Intifada, nella seconda l’esercito israeliano ha dovuto affrontare combattenti armati nascosti in mezzo a una folla disarmata.

    3) Incapacità di riconoscere l’enorme influenza delle pressioni culturali esercitate sui palestinesi, a partire dal sistematico indottrinamento condotto dalle scuole e dai mass media palestinesi, con lo scopo di denigrare gli ebrei e gli israeliani e di idealizzare i più brutali atti terroristici.

    4) La piatta descrizione della morte dei bambini palestinesi senza soffermarsi in alcun modo sulle circostanze in cui è avvenuta. L’equiparazione tra le vittime civili israeliane e palestinesi, come se il terrorismo e la guerra che lo combatte fossero la stessa cosa, e come se le uccisioni mirate equivalessero a una deplorevole e triste conseguenza di un nuovo e difficile genere di lotta.

    5) L’uso delle fonti palestinesi per verificare la realtà dei fatti, come se le fonti palestinesi fossero le più affidabili. Sto pensando a Jenin, ai resoconti non confermati di episodi che sono passati sulla carta stampata o alla televisione come verità assoluta. Al contrario, le fonti israeliane, che sono molto spesso affidabili per la presenza nel Paese di un giornalismo aggressivo, libero e aperto, nonché per l’altrettanto determinata battaglia contro le politiche del governo cambattuta dai partiti d’opposizione, dagli obiettori di coscienza, dai commentatori televisivi e dai giornalisti, sono considerate servili, piene di pregiudizi e non degne di attenzione.

    6) La manipolazione dell’ordine in cui vengono date le notizie e la manipolazione delle stesse notizie. I titoli forniscono il numero dei palestinesi uccisi o feriti e la maggior parte degli articoli, almeno in Europa, prima di raccontare gli scontri a fuoco e le loro cause, si dilungano sull’età e la storia famigliare dei terroristi. Motivazioni e scopi delle azioni condotte dall’esercito israeliano, come quella di catturare i terroristi, distruggere le fabbriche d’armi, i nascondigli e le basi d’attacco contro Israele, sono raramente menzionati. Al contrario, le operazioni israeliane sono spesso presentate come del tutto superflue, strane, crudeli e inutili.

    7) La manipolazione del linguaggio, sfruttando il vantaggio della grande confusione che regna circa la definizione dei concetti di «terrorismo» e «terrorista». Anche questa è una vecchia questione, legata alla nozione di combattente per la libertà, così cara alla mia generazione. Tempo fa, stavo facendo alcune interviste presso un check point. Mi è stato presto chiaro che l’uso della parola «terrorista» suonava nelle orecchie di tutti i miei interlocutori palestinesi come un peccato politico e semantico di capitale gravità. La stampa lo sa benissimo: l’occupazione è la causa di tutto, il terrorismo è chiamato resistenza e, in se stesso, non esiste affatto. I terroristi che uccidono donne e bambini sono chiamati militanti o combattenti. Un atto di terrorismo è spesso definito uno «scontro a fuoco», anche quando si tratta soltanto di bambini e vecchie signore freddate a colpi di mitra dentro la loro macchina su un’autostrada. È pure interessante notare che un giovane shahid è motivo di profondo orgoglio per la lotta palestinese, ma se domandate come si fa a mandare a morire un bambino di dodici anni o per quale motivo questi ragazzini vengono indottrinati a compiere simili atti, la risposta è: «Ma andiamo, un bambino non può essere un terrorista. Come può un ragazzino di dodici anni essere un terrorista?». Questo è probabilmente il punto fondamentale: dato che è in atto un dibattito infuocato sulla definizione di terrorismo, si accetta comunemente che il terrorismo sia un modo di combattere. Questo è un regalo semantico e anche materiale del nuovo antisemitismo, secondo il quale è naturale che un ebreo sia morto. Detto più precisamente, la scelta intenzionale di obiettivi civili allo scopo di innescare la paura e distruggere il morale del nemico non viene considerato un peccato morale nei confronti di Israele. Non scatena l’indignazione del mondo, e anche quando lo fa, nasconde tra le sue pieghe un certa simpatia per gli aggressori terroristi. Ciò che la stampa europea non riesce a capire, o non vuole, è che il terrorismo è un mezzo di combattimento da condannare e da proibire, indipendentemente dagli specifici obiettivi politici che cerca di realizzare.

    8) Infine, i media hanno diffuso il davvero stravagante concetto che i coloni, donne e bambini compresi, non siano dei veri e propri esseri umani. Sono presentati come delle pedine in un gioco pericoloso, al quale hanno volontariamente scelto di partecipare. La loro morte è un fatto praticamente naturale e del tutto logico. In un certo senso, se la sono voluta. Al contrario, quando viene ucciso un comandante di Hamas, sebbene pure lui, ovviamente, «se la sia voluta», si apre un dibattito morale e filosofico per condannare la perfidia con cui si eseguono sommarie condanne a morte. Sarebbe un dibattito certamente legittimo, se non fosse per uno scandaloso uso dei due pesi e delle due misure da parte della stampa mondiale.

    9) Infine, non bisogna dimenticare che non si parla quasi mai della censura e della corruzione che regna all’interno dell’Autorità palestinese, così come dell’eliminazione fisica dei suoi nemici politici.

    *****


    Tutto ciò di cui abbiamo parlato finora ci porta direttamente verso una precisa destinazione: Durban. Qui, i movimenti dei diritti umani, gli stessi che sono poi scesi nelle strade per manifestare contro la guerra in Iraq, hanno scelto Israele come nemico e obiettivo principale. Questa scelta rappresenta un grande successo per la propaganda palestinese, ma anche un grave segnale di debolezza da parte di questi stessi movimenti. L’immagine che risulta è quella di una sinistra ideologicamente e politicamente all’angolo, che ha scelto di adottare come universale una battaglia molto controversa e specifica, pesantemente contrassegnata dal terrorismo. Una sinistra che invece di affrontare il sistema di globalizzazione capitalistico, prende come suo principale obiettivo lo Stato di Israele. In parole povere, la sinistra ha deciso di far pagare a Israele ciò che a suo giudizio dovrebbe pagare l’America. Non è una cosa da veri codardi? Inoltre, ci vorrebbe un intero libro per raccontare con precisione la questione di come le Nazioni Unite, con la loro scandalosa politica, hanno contribuito a questo sviluppo, e di come l’Europa lo ha alimentato a causa del suo antico senso di colpa nei confronti di Israele e del suo odio per gli Stati Uniti. Denunciare questo nuovo antisemitismo dei diritti umani è un compito psicologicamente difficilissimo per Israele e per gli ebrei della Diaspora. E lo è tanto di più perché quello tra gli ebrei e la sinistra è un divorzio che quest’ultima non desidera affatto. La sinistra vuole continuare a essere considerata il paladino dei buoni ebrei. Pretende di piangere per gli ebrei uccisi nella Shoah, spalla a spalla con gli ebrei. E lo fa perché questo le dà l’autorizzazione morale per parlare delle «atrocità» di Israele. Dopo aver scritto qualche saggio sulle «atrocità» commesse da Israele, il bravo uomo di sinistra europeo tornerà indietro e ti parlerà con passione dell’affascinante cultura shtetl e della prelibatezza della cucina degli ebrei del Marocco. Fino a quando non romperemo il silenzio, noi ebrei daremo alla sinistra l’autorizzazione di negare il nostro diritto a una nazione, e a difendere il nostro popolo da un antisemitismo senza precedenti. Proprio nello stesso momento in cui maledice Israele, la sinistra dei diritti umani, del pacifismo, della protesta contro la pena di morte, la guerra e le discriminazioni razziali o sessuali, elogia anche i terroristi suicidi e si compiace per caricature di Sharon degne dello Sturmer. Ma nessuno dei suoi esponenti verrà mai in Israele per fare lo scudo umano seduto in un bar o a bordo di un bus. Tuttavia, questo nuovo antisemitismo ha una caratteristica singolare: permette la conversione. In altre parole, questo tipo di antisemitismo, a differenza dell’antisemitismo nazista e analogamente all’antisemitismo teologico, vi offre la possibilità di rinunciare al diavolo (ossia Israele, o talvolta Sharon). Chiunque proclami la sua indignata condanna sul comportamento di Israele può rimettere piede nella società civile, quella del common sense, della conversazioni amichevoli, dei gruppi di persone oneste, piene di buona volontà, che combattono in nome dei diritti umani.

    Se vogliamo ottenere qualcosa, se decidiamo che è giunto il momento di combattere, dobbiamo sbarazzarci delle imposture e degli inganni del politicamente corretto. Dobbiamo saper dire che la libera stampa fallisce la sua missione quando mente, e che sta effettivamente mentendo. Dobbiamo dire che tutti i diritti umani sono violati quando a un popolo è negato il diritto all’autodifesa, e che questo diritto a Israele è effettivamente negato. I diritti umani sono calpestati anche quando una nazione viene sottoposta alla diffamazione sistematica e resa automaticamente un obiettivo legittimo per i terroristi. Non dobbiamo più accettare ciò che abbiamo accettato fin dal giorno in cui è nato il nostro Stato, vale a dire che debba essere considerato come uno Stato diverso e a sé stante all’interno della comunità internazionale. Un altro punto importante: tra le varie forme di antisemitismo oggi in voga, una riguarda la confusione tra «israeliano» ed «ebreo». Apparentemente, è sbagliato insinuare che gli ebrei agiscano nell’interesse dello Stato di Israele e non in quello dello Stato in cui vivono. Più un Paese confonde i due termini, più è considerato antisemita, e quindi ci si immaginerebbe che gli ebrei combattano questo pregiudizio. Ma è un grave errore. Poiché lo Stato di Israele, e insieme a esso gli ebrei, sono stati vittime del peggior genere di pregiudizi, gli ebrei dovrebbero considerare apertamente il loro essere identificati con Israele come un prestigio e un onore. Dovrebbero dichiarare con orgoglio questa identificazione. Se è vero che Israele è l’obiettivo principale degli attacchi antisemiti, è proprio qui che dobbiamo concentrare la nostra attenzione. Dobbiamo giudicare il carattere morale della persona con la quale stiamo parlando in base a questo test: se menti su Israele, se lo ricopri di pregiudizi, sei un antisemita. Se sei prevenuto nei confronti di Israele, sei contro gli ebrei. Naturalmente questo non significa che sia proibito criticare Israele e le sue politiche. Ben poco, tuttavia, di quello che si sente dire su Israele ha qualcosa a che fare con una lucida critica. Pregiudizi e partiti presi, e non la figura di Sharon, sono la ragione principale delle critiche. Questi autoproclamatisi critici non sono affatto quei devoti intercessori a favore degli ebrei che pretendono di essere. Perciò dobbiamo dire loro: da ora in poi non potete più usare liberamente il lasciapassare dei diritti umani; non potete più sfruttare falsi stereotipi. Dovete dimostrare concretamente quello che affermate: che l’esercito assalta senza pietà poveri villaggi arabi che non hanno niente a che fare con il terrorismo; che uccide di proposito i bambini, e che si diverte a far fuori i giornalisti. Non ci riuscite? Avete definito gli eventi di Jenin un massacro? Allora siete degli antisemiti, proprio come i vecchi antisemiti che fate finta di odiare. Dovete ancora convincermi di non esser antisemiti, ora che sappiamo che non condannate il terrorismo, e che non avete mai detto una parola contro le caricature degli ebrei dal naso ricurvo, con una borsa piena di dollari in una mano e una mitragliatrice nell’altra.

    Israele è rimasto scioccato dalla nuova ondata di antisemitismo. Tutte le teorie secondo le quali l’antisemitismo classico sarebbe diminuito con la creazione di Israele, e infine scomparso del tutto, sono state smentite. Per di più, Israele è diventato, di fatto, la somma di tutto il male, la prova che «i protocolli dei Savi Sion» avevano ragione e che le accuse di omicidio rituale dei bambini erano vere. I palestinesi sono trasformati in un nuovo Gesù messo in croce, e la guerra in Iraq o in Afghanistan scatenata dagli Stati Uniti fa parte del piano ebraico per il dominio del pianeta. Gli ebrei di tutto il mondo sono minacciati, picchiati e persino uccisi per fargli pagare il prezzo dell'esistenza di Israele. Israele e gli ebrei oggi hanno una sola certezza: ora che dispongono di propri mezzi di difesa, una nuova Shoah non è più possibile. Tuttavia, dobbiamo passare dall'idea di una possibile eliminazione fisica degli ebrei a quella di una loro possibile eliminazione morale. L'unico modo per affrontare questa minaccia è combattere senza paura, sul nostro stesso terreno, usando tutte le armi storiche ed etiche che Israele possiede. Nessuna vergogna, nessun timore e nessun senso di colpa. Israele ha la possibilità di dimostrare ciò che è veramente: l'avamposto nella lotta al terrorismo e il baluardo della democrazia. Non è una cosa da poco. Ma noi ebrei ci comportiamo come vittime e non cogliamo questa possibilità perchè significherebbe metterci in conflitto con i nostri vecchi alleati, rinunciando alla loro legittimazione. Dobbiamo renderci conto che questa legittimazione si trova nelle nostre mani, anche se non l'abbiamo mai fatta valere. La parola d'ordine degli ebrei dovrebbe essere «orgoglio ebraico», nel senso di orgoglio per la nostra storia e per la nostra identità nazionale, ovunque ci troviamo. Orgoglio ebraico significa che dobbiamo reclamare l'esclusiva identità del popolo ebraico e il suo diritto di esistere. Dobbiamo comportarci come se questo diritto non ci fosse mai stato riconosciuto perchè oggi, ancora una volta, non lo è più. Nel difendere quest'identità dobbiamo essere, come dice Hillel Halkin, i più tenaci e i più resistenti di tutti, e allo stesso tempo i più liberali. Nessuna sinistra e nessuna destra. Non daremo alla sinistra il potere di decidere dove dobbiamo stare. Decideremo le nostre alleanze da soli, in base alla situazione concreta dei nostri potenziali partner.



    : : Fiamma Nirenstein - Il nuovo antisemitismo : :
    Ultima modifica di Florian; 06-12-09 alle 13:13
    SADNESS IS REBELLION

 

 

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