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    Predefinito LEGGERE INSIEME DONOSO CORTES / 6

    CAPITOLO SETTIMO

    La Chiesa cattolica ha trionfato sulla società malgrado gli stessi ostacoli incontrati e con gli stessi mezzi soprannaturali che consentirono a nostro Signor Gesù Cristo di trionfare sul mondo.


    La Chiesa cattolica, considerata come istituzione religiosa, ha esercitato sulla società lo stesso influsso esercitato sul mondo dal cattolicesimo come dottrina, lo stesso influsso esercitato da nostro Signor Gesù Cristo sull'uomo. Infatti nostro Signor Gesù Cristo, la sua dottrina e la Chiesa sono tre manifestazioni differenti di una stessa realtà, che è l'azione divina, che opera in maniera soprannaturale e simultanea nell'uomo e in tutte le sue facoltà, nella società e in tutte le sue istituzioni. Nostro Signor Gesù Cristo, il cattolicesimo e la Chiesa cattolica sono la stessa parola, la parola di Dio che risuona perpetuamente nei cieli.

    Questa parola, nelle sue diverse incarnazioni, ha dovuto superare gli stessi ostacoli e ha trionfato con gli stessi mezzi. I profeti di Israele avevano annunciato la venuta del Signore nella pienezza dei tempi, avevano scritto la sua vita, avevano annunciato le sue tremende sofferenze, avevano detto della sua passione, avevano descritto le sue fatiche, avevano contato una per una le gocce che avrebbero formato il mare delle sue lacrime, avevano visto la sua angoscia e il suo disprezzo, avevano descritto la sua passione e la sua morte; ma nonostante tutto, il popolo di Israele non lo riconobbe quando giunse e, dimentico del monito dei profeti, fece sì che si compissero tutte le profezie. La vita del Signore fu santissima; la sua bocca era stata l'unica bocca umana che avesse osato pronunciare alla presenza degli uomini queste parole, insensatamente blasfeme o ineffabilmente divine: «Chi mi convincerà di peccato?». E nonostante queste parole, che nessun uomo aveva mai pronunciato prima e che nessuno più pronuncerà in seguito, il mondo non lo riconobbe e lo colmò di ignominie. La sua dottrina era meravigliosa e vera, a tal punto che tutto era come investito dalla sua soavità e dai suoi benigni fulgori. Ogni parola che dolcemente usciva dalle sue labbra santissime era una rivelazione portentosa, ogni rivelazione era una verità sublime, ogni verità una speranza o una consolazione. E nonostante tutto, la gente di Israele allontanò la luce dai propri occhi e rimase insensibile a quelle consolazioni e a quelle speranze. Egli operò miracoli mai visti dagli uomini e mai uditi dalle genti, e nonostante tutto lo sfuggirono terrorizzati, come se fosse un lebbroso o un essere maledetto da Dio, dalle genti e dagli uomini. Persino uno dei suoi apostoli, da Lui amato, rimase insensibile al dolce richiamo del suo dolcissimo amore e precipitò nell'abisso del tradimento dall'altezza dell'apostolato.

    La Chiesa di Gesù Cristo era stata annunciata da grandi profeti e rappresentata in simboli e allegorie fin dall'inizio dei tempi. Il suo stesso divino fondatore, nel momento stesso in cui gettava le fondamenta del suo immortale edificio e plasmava in una forma meravigliosa le sue divine gerarchie, rese nota agli apostoli la sua storia futura, annunciando loro le grandi tribolazioni e le persecuzioni senza precedenti che si sarebbero scatenate contro di essa; vide sfilare a uno a uno, come in sanguinosa processione, i suoi confessori e i suoi martiri. Disse che le potestà del mondo e dell'inferno si sarebbero schierate contro di essa, per odio contro di Lui, stipulando patti terribili e sacrileghe alleanze, e disse in qual modo essa avrebbe trionfato con la sua grazia su tutte le potestà del mondo e dell'inferno. Spinse il suo sguardo sovrano sull'intiero corso dei tempi e annunciò la fine di tutte le cose e l'immortalità della sua Chiesa, trasformata in Gerusalemme celeste, vestita di luce e di pietre sfolgoranti, piena di gloria, pervasa da profumi di soavissima fragranza. E tuttavia il mondo, che la vide sempre perseguitata e sempre trionfante, che ha potuto conoscere e ha conosciuto le sue vittorie su tutte le sue tribolazioni, le offre perpetuamente nuove vittorie con nuove tribolazioni, realizzando così ciecamente la grande profezia, pur dimenticando profeti e profezie. La Chiesa è perfetta e santissima così come fu perfetto e santissimo il suo divino fondatore. Anch'essa, e solo essa, pronuncia di fronte al mondo quelle parole mai udite: «Chi mi convincerà di errore? Chi mi convincerà di peccato?». E nonostante codeste misteriose parole che essa solo pronuncia, il mondo né la smentisce né la segue se non per ingiuriarla. La sua dottrina è meravigliosa e verace perché è la dottrina insegnata dal grande Maestro di ogni verità e dal grande Artefice di ogni meraviglia, e tuttavia il mondo permane nell'errore ed ascolta con attenzione l'eloquenza vana di sofisti lascivi e di oscuri istrioni. Essa ha ricevuto dal suo divino fondatore il potere di operare miracoli e li operò (essa stessa era un miracolo perpetuo), e tuttavia il mondo la chiama superstizione vana e vergognosa e gli uomini e le genti si fanno scherno di essa. I suoi stessi figli, cosi intensamente amati, colpiscono con mano sacrilega il volto della loro Madre dolcissima ed abbandonano il santo focolare che protesse la loro infanzia, cercando in una nuova famiglia e in un nuovo focolare non so quali turpi delizie e quali immondi amori: in questo modo percorre l'annunciato cammino della sua dolorosa passione, sconosciuta al mondo e disconosciuta dai dottori dell'eresia.

    Un aspetto singolare e meraviglioso della Chiesa è che, imitando perfettamente nostro Signor Gesù Cristo, i suoi dolori non le sono inflitti nonostante i prodigi che opera, la vita che conduce, le verità che insegna e le testimonianze inconfutabili che accreditano la divinità della sua missione; ma anzi, al contrario, è vittima di queste tribolazioni proprio a causa di queste testimonianze inconfutabili, delle verità che insegna, della vita santissima che conduce e dei miracoli che compie. Immaginate per un momento di sopprimere questa vita, queste verità, questi prodigi e queste testimonianze inconfutabili ed avrete soppresso in una sola volta tutti i suoi patimenti, tutte le sue lacrime, tutte le sue disgrazie e tutte le sue rinunzie.

    Nelle verità da essa proclamate è contenuto il mistero della sua sofferenza, nella forza soprannaturale che la assiste è il mistero della sua vittoria; e queste due cose unite spiegano insieme le sue vittorie e i suoi patimenti.

    La forza soprannaturale della grazia viene perpetuamente comunicata ai fedeli attraverso il ministero dei sacerdoti e l'amministrazione dei sacramenti; e questa forza soprannaturale, cosi trasmessa ai fedeli, membri della società civile e della Chiesa, ha creato il profondissimo abisso esistente persino da un punto di vista politico e sociale tra le società antiche e le società cattoliche. L'unica differenza che intercorre tra esse, tutto sommato, è costituita dal fatto che le une sono formate da cattolici e le altre da pagani; che le prime annoverano uomini mossi dai loro istinti naturali e le altre uomini che, più o meno sordi ai richiami della propria natura, obbediscono più o meno perfettamente alla spinta soprannaturale e divina della grazia. Ciò spiega la differenza esistente tra le istituzioni politiche e sociali delle società antiche e quelle nate spontaneamente nelle società cattoliche; infatti le istituzioni sono l'espressione sociale delle idee comuni, le idee comuni sono il risultato collettivo delle idee individuali, e queste sono la forma intellettuale della vita e dei sentimenti dell'uomo; ne consegue che l'uomo pagano e l'uomo cattolico non vivono né intendono allo stesso modo, dato che l'uno rappresenta una umanità prevaricatrice e diseredata e l'altro rappresenta una umanità redenta. Le istituzioni antiche e quelle moderne non sono espressione di due società diverse ma piuttosto espressione di due differenti umanità. Per questo, nel momento in cui le società cattoliche trasgrediscono e perdono la loro condizione di grazia, il paganesimo vi fa irruzione e le idee, i costumi, le istituzioni e le società stesse tornano ad essere pagane.

    Se prescindete per un momento da questa forza soprannaturale e invisibile, grazie alla quale il cattolicesimo ha trasformato tutto ciò che è visibile e naturale in maniera lenta e silenziosa, con un processo misterioso e nascosto, tutte le cose naturali e soprannaturali, visibili e invisibili non hanno più spiegazione e voi non vedete che tenebre. Tutte le possibili spiegazioni da voi formulate diventano ipotesi false, che non spiegano niente e sono esse stesse inspiegabili.

    Non v'è spettacolo più triste che vedere un uomo di ingegno che affronta l'impossibile e assurda impresa di spiegare la realtà visibile attraverso realtà visibili e la realtà naturale con l'ausilio di realtà naturali; ne consegue che, essendo le cose visibili e naturali, in quanto naturali e visibili, una stessa cosa, l'assurdità del procedimento è pari a quella di chi voglia spiegare un fatto o una cosa facendo ricorso allo stesso fatto o alla cosa stessa. È incorso in questo gravissimo errore un uomo veramente illustre e di grandi capacità, i cui scritti impongono un rispetto profondo e i cui discorsi suscitano grande ammirazione e le cui doti morali sono superiori ai suoi scritti, ai suoi discorsi e al suo talento. Guizot supera tutti gli scrittori contemporanei nell'arte di esaminare con serenità le questioni più intricate. Il suo giudizio in genere è imparziale e sicuro, chiara la sua maniera di esprimersi, sobrio il suo stile e severamente modesto il suo linguaggio; la sua stessa eloquenza è subordinata alla ragione, e se la prima è alta, la seconda è altissima. Tutte le volte che Guizot si accinge ad esaminare una questione, per quanto ardua essa sia, sa trovarne sempre e con abilità la soluzione migliore. Quando descrive i fenomeni che osserva, sembra ricrearli più che descriverli. Nel caso in cui affronti controversie di partito riesce sempre ad assegnare a ciascuno, con squisita compiacenza, la parte di errore e di verità che gli compete, e tuttavia non sembra che assegni a ciascuno ciò che gli compete ma che a ciascuno competa quella certa parte solo perché gli è stata assegnata da Guizot. Generalmente le sue discussioni assumono il valore di insegnamenti impartiti da un uomo naturalmente investito di un magistero eminente. Quando parla di religione, il suo linguaggio è solenne, rispettoso e austero, oserei dire quasi ai limiti della riverenza. La parte che egli riconosce alla religione nell'opera di restaurazione sociale è grande, in conformità d'altronde con la persona che la riconosce e con l'istituzione che riceve questo riconoscimento. Nessuno può dire se Guizot consideri la religione come regina e signora delle altre istituzioni; l'unica cosa che si può dire è che ai suoi occhi essa è una regina alla quale è stata concessa l'amnistia, che anche nei giorni del suo onore conserva i segni di una passata condizione di cattività.

    Guizot è dotato di una capacità eminente di vedere chiaramente tutto quel che vede, di vedere tutto quel che è visibile, distinguendo ogni cosa con nitidezza. Il punto debole del suo intelletto consiste nel non vedere in qual modo queste cose visibili e diverse formino tra loro un insieme gerarchico e armonioso, animato da una forza invisibile. Questo suo grande difetto, al pari di quella sua capacità eminente, è riscontrabile nel libro in cui ha trattato in modo esauriente della civiltà europea; Guizot ha visto tutto ciò che esiste in questa civiltà così complessa e feconda; tutto, meno la civiltà stessa. Chi voglia cercare gli elementi molteplici e vari che la compongono, li cerchi pure nel suo libro, li troverà; chi invece voglia conoscere la poderosa unità che costituisce il principio vitale che liberamente circola attraverso le robuste membra di questo corpo sociale sano e robusto, si rivolga ad altri testi, perché nel suo libro non ne troverà traccia.

    Guizot ha visto chiaramente tutti gli elementi visibili della civiltà e tutto ciò che in essi vi è di visibile; qualsiasi elemento soggetto alla verifica dei sensi è stato da lui esaminato in modo soddisfacente. Vi era un elemento, tuttavia, visibile e invisibile nello stesso tempo: la Chiesa. La Chiesa operava sulla società in modo analogo agli altri elementi politici e sociali, ma anche in modo esclusivamente proprio. L'influsso della Chiesa, considerata come istituzione nata nel tempo e limitata nello spazio, era visibile e limitato come l'influsso esercitato dalle altre istituzioni circoscritte nello spazio e figlie del tempo. Considerata invece come istituzione divina, la Chiesa possiede una smisurata forza soprannaturale che, non soggetta alle leggi del tempo né a quelle dello spazio, opera su tutto e dappertutto, in modo silenzioso, segretissimo e soprannaturale. Ciò risponde a tal punto a verità che nella critica confusione di tutti gli elementi sociali, la Chiesa dette a tutti gli altri qualcosa di esclusivamente suo, pur conservando, essa sola impenetrabile alla confusione, sempre la sua identità assoluta. Quando la società romana venne a contatto con essa, pur continuando a essere romana come prima, fu qualcosa di più che prima: fu cattolica. I popoli germanici, pur continuando a essere germanici come prima, furono qualcosa di più: furono cattolici. Le istituzioni politiche e sociali, pur non rinunciando alla natura loro propria, acquistarono una natura che prima era loro estranea: la natura cattolica. E il cattolicesimo non era una forma vana, perché non dette a nessuna istituzione forma alcuna: era al contrario qualcosa di intimo e di essenziale, e per questo infuse in tutte le istituzioni qualcosa di intimo e di profondo. Il cattolicesimo lasciava immuni le forme e trasformava le essenze. E mentre manteneva intatte le forme e trasformava le essenze, conservava integra la propria essenza e riceveva dalla società tutte le forme. La Chiesa fu feudale nella stessa misura in cui il feudalesimo fu cattolico; ma la Chiesa non riceveva l'equivalente di ciò che dava: quel che essa riceveva, infatti, era puramente esteriore e accidentale, mentre quel che essa dava era interiore, intimo. e perenne com'è l'essenza.

    Ne consegue che nell'insieme della civiltà europea, che al pari e più delle altre civiltà è contemporaneamente unità e varietà, tutti gli altri elementi combinati e uniti le dettero la varietà, mentre solo la Chiesa le dette l'unità e con l'unità le concesse ciò che possiede di peculiare e quanto di più essenziale vi è in una istituzione, il suo stesso nome. La civiltà europea non si chiamò germanica, o romana, o assolutista o feudale: si chiamò e si chiama civiltà «cattolica».

    Il cattolicesimo inoltre non è solamente uno dei molteplici elementi costitutivi di quella mirabile civiltà, come pensa Guizot. È più, molto di più: è quella civiltà stessa. È singolare: Guizot vede tutto ciò che è limitato nel tempo e circoscritto nello spazio e non vede ciò che supera lo spazio e il tempo; vede quel che è vicino e quel che è meno vicino, ma non vede ciò che si trova dovunque. In un corpo organizzato e vivente vede le membra che lo compongono e non vede la vita che c'è in quelle membra.

    Se prescindete per un istante dalla virtù divina, dalla forza soprannaturale insita nella Chiesa e considerate questa come una istituzione umana che si rafforza e si estende grazie a mezzi puramente umani e naturali, Guizot ha ragione. L'influsso della dottrina della Chiesa non può oltrepassare i limiti naturali che egli le assegna con la sua ragione sovrana. Tuttavia la difficoltà sussisterà per l'evidenza del fatto che questi limiti li ha oltrepassati. Esiste un'indubbia contraddizione tra la storia che insegna che li ha oltrepassati e la ragione secondo la quale non può oltrepassarli: contraddizione che è necessario risolvere facendo ricorso a una formula superiore e a una conciliazione suprema che metta d'accordo i fatti con i principi e la ragione con la storia. Questa formula deve esser situata al di fuori della storia e della ragione, al di fuori del naturale e del visibile; essa si trova, infatti, in ciò che di invisibile, di soprannaturale e di divino è nella santa Chiesa cattolica. Ed è in virtù di questo aspetto divino, soprannaturale e imponderabile che essa si è imposta sul mondo, ha avuto ragione degli ostacoli più invincibili, ha potuto piegare le intelligenze ribelli e i cuori superbi, ha superato le vicissitudini umane e ha assicurato il suo imperio sulle genti.

    Chi non tenga conto della sua virtù soprannaturale e divina non potrà mai intendere il suo influsso, le sue vittorie, le sue afflizioni, e chi non saprà comprenderla, non comprenderà mai quel che di intimo, di essenziale e di profondo vi è nella civiltà europea.
    Ultima modifica di Florian; 06-12-09 alle 10:04
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    Predefinito Rif: LEGGERE INSIEME DONOSO CORTES / 6

    LIBRO SECONDO

    PROBLEMI E SOLUZIONI INTORNO ALL'ORDINE UNIVERSALE





    CAPITOLO PRIMO

    Sul libero arbitrio dell'uomo.


    Al di fuori dell'azione di Dio resta solamente l'azione dell'uomo; al di fuori della provvidenza divina resta solamente la libertà umana. Dalla combinazione di tale libertà con la provvidenza deriva la varia e complessa trama della storia.

    Il libero arbitrio dell'uomo è il capolavoro della creazione e anche - mi sia consentita l'espressione - il più portentoso prodigio divino. Ad esso si rapportano invariabilmente tutte le cose, per cui la stessa creazione sarebbe inspiegabile senza l'uomo, e l'uomo sarebbe inspiegabile senza la sua libertà. La libertà dell'uomo spiega contemporaneamente l'uomo e tutte le cose. Non è facile tuttavia spiegare questa libertà altissima, inviolabile e santa a tal punto che Colui che la diede non la può togliere, questa libertà con la quale l'uomo può opporsi a Chi gliela diede e vincerlo, opponendo una resistenza invincibile e riportando perfino una vittoria tremenda. È difficile spiegare in che modo, nonostante questa vittoria dell'uomo su Dio, Dio risulti vincitore e l'uomo vinto, pur essendo la vittoria dell'uomo una vera vittoria e la sconfitta di Dio una vera sconfitta. Che vittoria è questa, cui necessariamente segue la morte del vincitore? Che sconfitta è questa, che porta alla glorificazione del vinto? Che significato ha un paradiso, che premia una sconfitta e un inferno che punisce una vittoria? Se è vero che nella mia sconfitta è la causa della mia ricompensa e nella mia vittoria la mia condanna, perché disprezzo per natura tutto quel che mi salva e desidero per natura tutto quel che mi danna?

    Domande alle quali nei secoli dei grandi dottori si sono dedicati gli intelletti più insigni e alle quali oggi guardano con disprezzo i petulanti sofisti, incapaci di sollevare da terra le formidabili armi con cui si batterono facilmente e umilmente quei santi dottori delle epoche cattoliche. Oggi sembra follia imperdonabile vagliare umilmente e con l'apporto della grazia divina gli eccelsi disegni di Dio così profondamente avvolti nel mistero; come se l'uomo potesse giungere a qualche minima vera conoscenza senza comprendere niente di questi profondi misteri e di questi eccelsi disegni. Tutte le grandi questioni su Dio sembrano oggi sterili e oziose; come se fosse possibile occuparsi di Dio, che è intelletto e verità, senza guadagnarci in verità e in intelletto.

    Affrontando ora la tremenda questione che costituisce l'argomento di questo capitolo e che cercherò di contenere in limiti strettissimi, dirò che la no
    zione di libero arbitrio che generalmente si possiede è del tutto errata. Il libero arbitrio non consiste, come generalmente si crede, nella facoltà di scegliere il bene e il male, che allettano con due sollecitazioni opposte. Se il libero arbitrio consistesse in questa facoltà, dovrebbero necessariamente aversi due conseguenze evidentemente assurde, una relativa all'uomo e l'altra relativa a Dio. La conseguenza relativa all'uomo consiste nel fatto che perderebbe in libertà quel che acquisterebbe in perfezione, dato che non può crescere in perfezione senza sottomettersi all'imperio di ciò che lo sprona al bene, e non può sottomettersi all'imperio del bene senza affrancarsi dall'imperio del male; in altre parole si sottoporrebbe al primo nella stessa misura in cui si affrancherebbe dal secondo. Ne consegue che, alterando più o meno, secondo il grado della sua perfezione, l'equilibrio esistente tra queste due spinte contrarie, diminuisce la sua libertà, cioè la sua facoltà di scegliere nella stessa misura in cui è alterato tale equilibrio. Poiché la somma perfezione consiste nell'annullamento di una di queste due spinte, e poiché la libertà perfetta presuppone la piena facoltà di scegliere tra due spinte contrarie, è chiaro che tra perfezione e libertà dell'uomo esiste un'evidente contraddizione e un'incompatibilità assoluta. L'assurdità di tale conseguenza è data dal fatto che, essendo l'uomo libero e dovendo essere perfetto, non può mantenere la propria libertà senza rinunciare alla propria perfezione e non può essere perfetto senza rinunciare a essere libero.

    La conseguenza relativa a Dio consiste nel fatto che, non essendo Egli sottoposto a stimoli contrari, manca del tutto di libertà, se si suppone che la libertà consista nella piena facoltà di scegliere tra sollecitazioni contrarie. Perché Dio fosse libero era necessario che potesse scegliere tra il bene e il male, tra la santità e il peccato. Tra la natura di Dio e la libertà così concepita esiste una fondamentale contraddizione, un'incompatibilità assoluta. Essendo assurdo supporre, da una parte, che Dio non possa essere libero essendo Dio, e che non possa essere Dio essendo libero, e, dall'altra, che l'uomo possa raggiungere la perfezione solamente rinunciando alla propria libertà e possa essere libero solamente rinunciando ad essere perfetto, ne consegue che la nozione di libertà che ci sta occupando è del tutto falsa, contraddittoria e assurda.

    L'errore che io combatto consiste nel supporre che la libertà consista nella facoltà di scelta, mentre in realtà non è altro che la facoltà di volere, che a sua volta presuppone la facoltà di intendere. Ogni essere dotato di intelletto e di volontà è libero, e la sua libertà non è una cosa distinta dalla volontà e dall'intelletto, è anzi queste due cose congiunte in una. Dire che un essere è dotato di intelletto e di volontà e dire che un altro è libero, significa attribuire a entrambi la stessa cosa espressa in due modi diversi.

    Se la libertà consiste nella facoltà di intendere e di volere, la libertà perfetta sarà costituita dall'intendere e dal volere perfettamente; ma dal momento che solo Dio intende e vuole perfettamente, ne segue che solo Dio è perfettamente libero.

    Se la libertà sta nell'intendere e nel volere, l'uomo è libero, in quanto dotato di volontà e di intelligenza; ma non è perfettamente libero, poiché non possiede un intelletto infinito e perfetto e una volontà perfetta e infinita.

    L'imperfezione del suo intelletto è data dalla sua incapacità di comprendere tutto ciò che dovrebbe e dalla facilità con la quale cade in errore. L'imperfezione della sua volontà sta nel rifiuto di volere quanto dovrebbe volere e nella sua possibilità di venir sollecitata e vinta dal male. Ne consegue che la sua libertà non è perfetta proprio perché può lasciarsi vincere dal male e dall'errore; in altri termini, l'imperfezione della libertà umana deriva proprio da quella facoltà di scelta che secondo l'opinione comune costituisce il fondamento della sua perfezione assoluta.

    Quando l'uomo fu creato da Dio, comprendeva il bene e pertanto lo desiderava e proprio perché lo desiderava lo realizzava, e realizzando il bene ambito dalla sua volontà e compreso dal suo intelletto, era libero. Che questo e non altro sia il significato cristiano della libertà si vede dalle parole evangeliche: «Cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos». (Gv. 8, 32) L'unica differenza tra la libertà dell'uomo e quella di Dio era la stessa che poteva esserci tra una cosa precaria e deperibile e una cosa duratura e permanente; tra una cosa che per natura è limitata e una cosa che per natura non ha limiti.

    Quando la donna prestò curiosa attenzione alla voce dell'angelo caduto, il suo intelletto cominciò immediatamente ad annebbiarsi e la sua volontà a cedere; allontanatasi da Dio, suo sostegno, fu colta da improvvisa debolezza. In quello stesso istante la sua libertà, che non era altra cosa dalla sua volontà e dal suo intelletto, rimase menomata. Nell'istante stesso in cui la donna passò dalla colpevole contemplazione all'atto peccaminoso, il suo intelletto subì un grande oscuramento e la sua volontà un profondo calo di forze; la donna coinvolse l'uomo smarrito, e la libertà umana cadde in un tristissimo avvilimento.

    Alcuni confondono la nozione di libertà con quella di indipendenza sovrana e si domandano perché si dice che l'uomo fu reso schiavo quando cadde sotto la potestà del demonio, mentre nello stesso tempo si afferma che era libero quando dipendeva in modo assoluto da Dio. La risposta è che non si può asserire che l'uomo sia schiavo solamente perché non appartiene completamente a se stesso: in questo caso sarebbe schiavo sempre, perché non appartiene mai a se stesso in modo indipendente e sovrano. Si dice giustamente che l'uomo è schiavo solo quando cade nelle mani di un usurpatore e si afferma che è libero quando obbedisce solo al suo legittimo signore. È schiavo chi si assoggetta a un tiranno; è tiranno chi esercita un potere usurpato; è libero chi obbedisce volontariamente all'autorità legittima. Altri non riescono a capire in che modo la grazia, per cui ci venne concessa la libertà e la redenzione, si concili con la libertà e la redenzione stessa, sembrando loro che solo Dio agisca in questa misteriosa opera, mentre l'uomo rimarrebbe passivo. Ebbene, anche questo è un errore, perché a tale grande mistero prendono parte Dio e l'uomo: Dio opera e l'uomo coopera. Per questa ragione, Dio ci dà solamente la grazia sufficiente a muovere la volontà con delicatezza. Non volendo opprimerla, Egli si accontenta di attirarla a sé con soavissimi richiami. L'uomo, da parte sua, quando porge ascolto al richiamo della grazia, risponde con soavità e compiacimento incomparabili; e quando la docile volontà dell'uomo, lusingata dal richiamo, si unisce alla soavissima volontà di Dio, che si compiace di chiamarla, allora la grazia da sufficiente diventa efficace in virtù dell'incontro di queste due soavissime volontà.

    A quanti pensano che la libertà sia assenza di ogni sollecitazione alla volontà dell'uomo, risponderò che involontariamente cadono in uno di questi due assurdi: supporre che un essere ragionevole possa agire senza motivo, o supporre che un essere irragionevole possa essere libero.

    Se quanto è stato detto fino a questo punto risponde a verità, la facoltà di scelta concessa all'uomo, lungi dall'essere la condizione necessaria della libertà, ne è il pericolo, essendo ad essa congenita la possibilità di abbandonare il bene e di cadere nell'errore, di venir meno all'obbedienza dovuta a Dio per cadere sotto la potestà dei tiranni. Tutti gli sforzi dell'uomo dovrebbero essere vòlti, con l'aiuto della grazia, al completo abbandono di tale facoltà fino a perderla del tutto, se ciò fosse possibile, con il perpetuo disuso. Solamente colui che perde questa facoltà può intendere il bene, valerlao e realizzarlo; e solo colui che la perde è perfettamente libero, e solo chi è libero è perfetto, e solo chi è perfetto è felice; per questo questa facoltà né Dio, né i santi, né gli angeli.
    Ultima modifica di Florian; 06-12-09 alle 10:03
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    Predefinito Rif: LEGGERE INSIEME DONOSO CORTES / 6

    CAPITOLO SECONDO

    Risposta alle argomentazioni contrarie al libero arbitrio.


    Premesso che la possibilità di scegliere non indica una perfezione dell'uomo ma piuttosto un pericolo insito nel libero arbitrio di cui egli è dotato, e che tale facoltà è madre della sua trasgressione e della sua caduta, e che solo in essa è il segreto del peccato, della dannazione e della morte, non possiamo fare a meno di domandarci in che modo possa conciliarsi con l'infinita bontà del Dio infinito questo dono funestissimo, gravido di sventure e di catastrofi, e se dobbiamo ritenere misericordiosa o, invece, mossa dall'ira la mano che ci fece tale dono. Se veramente fosse mossa dall'ira, c'è da domandarsi perché ci dette la vita, e perché volle aggiungerle un fardello casi pesante, se fosse misericordiosa.

    In verità non so se considerarla una mano giusta o solamente forte: se è giusta, quale colpa ho commesso io prima di esistere, per meritarmi il suo castigo? Se è forte, perché non mi calpesta e non mi distrugge? Se è vero che io ho peccato per il dono ricevuto, chi è il vero autore del mio peccato? e se la mia dannazione deriva dal peccato che io commisi per la predisposizione al peccato che mi fu data, chi è il vero autore della mia dannazione e del mio inferno? Essere misterioso e tremendo, che non so se benedire o detestare, dimmi se cadrò prostrato ai tuoi piedi come Giobbe e a te rivolgerò, fino a ottenere il tuo perdono, le mie fervide preghiere e i miei amari singhiozzi o se riprenderò contro di te la guerra dei titani. Sfinge misteriosa, io non so né come placarti né come vincerti; io non so se debbo incamminarmi per il sentiero dei tuoi nemici o per il sentiero dei tuoi servi. Non so nemmeno come ti chiami. Se è vero, come dicono, che tu sei onnisciente, dimmi almeno in quali dei tuoi libri suggellati hai scritto il tuo nome, affinché io sappia come devo chiamarti: i tuoi nomi, infatti, sono contraddittori quanto lo sei tu. Coloro che si salvano ti chiamano Dio, coloro che si dannano, tiranno.

    In questo modo parla, con lo sguardo infuocato rivolto a Dio, il demone dell'orgoglio e delle bestemmie. Vittima di una demenza inconcepibile e di una aberrazione inspiegabile, l'uomo, creatura di Dio, cita in tribunale quello stesso Dio che gli ha dato il tribunale in cui prende posto, la ragione con cui l'uomo deve giudicarlo e persino la voce con cui lo sfida. Le bestemmie chiamano altre bestemmie, come un abisso chiama l'abisso; così la bestemmia che induce l'uomo a citare Dio in tribunale finisce nella bestemmia della condanna o in quella dell'assoluzione. Sia che lo assolva sia che lo condanni, l'uomo che invece di adorare Dio lo giudica è blasfemo. Sventurati i superbi che lo accusano e beati gli umili che lo adorano, perché egli verrà dagli uni e dagli altri: dagli uni, in qualità di accusato, nel giorno del processo; dagli altri, come adorato, nel giorno dell'adorazione. Egli risponde sempre a coloro che lo chiamano: agli uni, tuttavia, risponderà con la sua ira, agli altri con la sua misericordia.

    Non mi si venga a dire che questa dottrina porta all'assurdo, negando alla ragione umana qualsiasi capacità e attitudine a intendere le cose divine e portando di conseguenza alla condanna implicita dei teologi, dei santi dottori, e persino della stessa Chiesa, che delle cose di Dio dissertarono con grande intelletto nelle epoche passate. Questa dottrina nega la competenza della ragione non illuminata dalla fede a intendere le cose che sono materia di rivelazione e di fede, in quanto soprannaturali. Quando la ragione affronta le cose di Dio senza l'apporto della fede, tratta di Dio e con Dio come un giudice supremo ch~ non consente né appello né ricorso contro le sentenze da lui emesse. In questa supposizione, la sua sentenza, di condanna o di assoluzione, è una bestemmia; e non tanto perché affermi o neghi l'esistenza di Dio, quanto piuttosto perché la ragione umana si serve di tale sentenza per riaffermare se stessa implicitamente, dato che, sia nella condanna sia nell'assoluzione, riafferma di sé sempre la stessa cosa: la propria indipendenza e la propria sovranità. Quando la santa Chiesa afferma o nega qualcosa su Dio, afferma o nega cose dette da Dio stesso. Quando i più alti teologi e i santi dottori si addentrano con la ragione nell'abisso oscuro delle cose divine, sono sempre colti da un segretissimo terrore e non vi si inoltrano mai se prima la fede non ha preparato loro il cammino. Il loro proposito non è quello di scoprire in Dio meraviglie e segreti ignorati dalla fede ma solamente di unire il lume della ragione umana con quello divino, allo scopo di vedere da una diversa posizione le stesse meraviglie e gli stessi segreti; non cercano in Dio cose nuove ma le stesse cose in due modi differenti; e queste due diverse maniere di conoscerlo assumono il valore di due differenti modi di adorarlo.

    È bene sapere che ogni mistero rivelato dalla fede e proposto dalla Chiesa riunisce in sé, in virtù di una ammirevole disposizione divina, due qualità abitualmente inconciliabili: l'oscurità e l'evidenza. I misteri cattolici sono paragonabili a corpi luminosi e al tempo stesso opachi, che tutto illuminano e tuttavia non possono essere rischiarati da niente, neppure dalla loro stessa luce, e la loro luce non può essere offuscata dalla loro stessa ombra, poiché sono perpetuamente oscuri e perpetuamente luminosi. Al tempo stesso che proiettano la loro luce su tutto l'universo, conservano per sé la propria ombra; tutto illuminano ma non possono essere illuminati. Tutto penetrano eppure sono impenetrabili. Sembra assurdo ammetterne l'esistenza ma lo è molto di più negarla: per colui che li ammette, l'unica oscurità è rappresentata dalla sua; per colui che li nega, il giorno si trasforma in notte e tutto intorno a lui sarà avvolto dalle tenebre. Nonostante ciò gli uomini, nella loro cecità smisurata, preferiscono negarli piuttosto che ammetterli; la luce per essi diventa intollerabile se proviene da una regione oscura e, vittime del proprio smisurato orgoglio, condannano la propria vista all'eterna oscurità, poiché considerano maggior disgrazia le ombre che si addensano in un solo mistero di quelle che si diffondono su tutti gli orizzonti.

    Senza allontanarci dagli eccelsi misteri che sono argomento di questo capitolo, sarà facile dimostrare ciò che affermiamo. Se ignorate il perché di questo dono tremendo che ci consente di scegliere tra il bene e il male, tra la santità e il peccato, tra la vita e la morte, potete anche negarlo, sia pure per un istante: in quell'istante avrete reso impossibile la creazione angelica e la creazione umana. Se la mancanza di perfezione della libertà è determinata da questa facoltà di scelta, con la soppressione di questa facoltà la libertà sarà perfetta. La libertà perfetta è il risultato della perfezione simultanea della volontà e dell'intelletto. Questa perfezione simultanea è posseduta solamente da Dio; se la si concede anche alla creatura, allora Dio e la creatura sono la stessa cosa: tutto è Dio o niente è Dio; e ciò conduce al panteismo o all'ateismo, che sono un'identica cosa espressa in due modi differenti. L'imperfezione è talmente congenita alla creatura, e la perfezione è talmente congenita a Dio che il negarle è una contraddizione sostanziale, un'assurdità evidente. Dire che Dio non è perfetto equivale a dire che non esiste; asserire che la creatura è perfetta significa negarne l'esistenza. Ne consegue che la negazione di un mistero superiore è contraria alla ragione umana; infatti lasciando l'uno per l'altra si lascia l'oscuro per l'impossibile.

    Come tutto è falso, contraddittorio e assurdo nella negazione razionalista, tutto è semplice, naturale e logico nella affermazione cattolica. Il cattolicesimo afferma che Dio ha una perfezione assoluta e che gli esseri creati sono perfetti di perfezione relativa e imperfetti di una imperfezione assoluta; sono perfetti e imperfetti in misura tanto elevata che la loro imperfezione assoluta, che li separa infinitamente da Dio, costituisce la loro perfezione relativa, grazie alla quale realizzano perfettamente i loro diversi compiti, e tutti insieme formano la perfetta armonia dell'universo. Secondo il nostro punto di vista, la perfezione assoluta di Dio consiste nella sua libertà sovrana, cioè nell'intendere perfettamente il bene e nel volerlo con volontà perfetta. L'imperfezione assoluta di tutti gli altri esseri intelligenti e liberi è determinata dal non intendere e dal non volere il bene in una misura tale da non poter più intendere il male e volere il male compreso dal loro intelletto. La loro perfezione relativa consiste in questa stessa imperfezione assoluta, cui si deve, da una parte, il loro essere differenti da Dio per natura e, dall'altra, la loro facoltà di unirsi a Dio, loro fine, in virtù di uno sforzo di volontà coadiuvata dalla grazia. E poiché gli esseri intelligenti e liberi sono ordinati in gerarchie, saranno imperfetti in maniera gerarchica. Si assomigliano tra loro perché tutti sono imperfetti; si differenziano tra loro per i diversi gradi della loro imperfezione. L'angelo è diverso dall'uomo solamente perché l'imperfezione comune ai due è maggiore nell'uomo e minore nell'angelo, in conformità alla loro diversa collocazione nell'immensa scala degli esseri. Al momento della creazione entrambi furono dotati della stessa facoltà di intendere e di volere il male e di realizzare il male che intendevano: in ciò consiste la loro somiglianza. Tuttavia nella natura angelica questa imperfezione durò solo un momento, mentre nella natura umana perdura sempre: in ciò si differenziano. Per l'angelo ci fu un momento terribile e solenne in cui gli fu concesso di scegliere tra il bene e il male; in quel tremendo istante le schiere degli angeli si divisero: alcune si inchinarono a Dio, le altre si levarono in tumulto e gli si ribellarono. A questa deliberazione suprema e istantanea fece seguito una sentenza istantanea e suprema: gli angeli ribelli furono condannati, gli angeli fedeli furono confermati nella grazia.

    L'uomo, più debole dell'angelo per intelletto e volontà, poiché non era uno spirito puro come l'angelo, ricevette una libertà più precaria e imperfetta, e questa mancanza di perfezione avrebbe avuto la stessa durata della sua vita. Qui traspare in tutto il suo infinito splendore l'indicibile perfezione dei disegni divini. Dio vide prima di ogni principio la bellezza e la convenienza delle gerarchie e per questo volle istituire una gerarchia tra gli esseri intelligenti e liberi. Vide d'altronde eternamente quanto fosse conveniente e bella nel Creatore una certa uguaglianza nei confronti di tutte le sue creature e operò in maniera casi eccelsa da associare organicamente la bellezza della uguaglianza con la bellezza della gerarchia. A rendere possibile la gerarchia, distribuì in maniera disuguale i suoi doni, e affinché si realizzasse l'uguaglianza pretese di più da colui cui aveva concesso di più e meno da colui cui aveva dato di meno, sicché ci fosse maggior rigore con chi aveva ricevuto maggiori doni e maggior clemenza con chi aveva ricevuto meno doni. Poiché la nativa eccellenza dell'angelo era maggiore, senza speranza e senza rimedio fu la sua caduta, istantaneo il castigo ed eterna la condanna; poiché era minore la nativa eccellenza dell'uomo, egli non cadde :;e non per venire rialzato, non prevaricò se non per essere redento. La sentenza emessa da Dio nei suoi riguardi non sarà inappellabile, né irrimediabile la sua condanna se non nell'istante, noto a Dio solo, in cui la prevaricazione angelica e quella umana abbiano lo stesso peso sulla bilancia divina, potendo raggiungere la seconda, col ripetersi, la gravità della prima. In questo modo l'uomo non potrà mai rimproverare Dio per averlo fatto uomo e non angelo, e l'angelo non potrà rimproverargli di non averlo fatto uomo.

    Signore, nessun essere può rimanere insensibile allo spettacolo della tua giustizia, e non vi è grandezza che possa uguagliare quella della tua misericordia, né bilancia più equa della tua, né metro più giusto di quello con cui tu misuri il mio operato. Nessun matematico, Signore, conosce meglio di te i numeri e le loro misteriose armonie. Quanto perfetti sono i prodigi compiuti da te! Quanto perfette, oltre che armoniosamente belle, sono le cose della tua creazione! Apri, Signore, il mio intelletto affinché possa comprendere qualcosa dei tuoi disegni, qualcosa di ciò che eternamente comprendi e qualcosa di ciò che eternamente realizzi, poiché non sa nulla colui che non conosce Te, e colui che conosce Te conosce tutto.

    Se l'uomo non può rimproverare a Dio di non averlo fatto angelo o di non averlo creato perfetto, non potrebbe almeno domandargli se non gli fosse convenuto di più non essere nato? Non potrebbe domandargli perché lo creò così come è? Infatti se Dio avesse consultato l'uomo, questi non avrebbe accettato la vita con la facoltà di perderla: l'inferno lo atterrisce più di ogni cosa.

    L'uomo per natura sa soltanto bestemmiare: quando fa domande, bestemmia, se lo stesso Dio che deve dargli la risposta non gli suggerisce la domanda; se fa una richiesta, bestemmia, se lo stesso Dio che deve concedergli ciò che chiede non gli suggerisce la richiesta e il modo di farla. L'uomo non ha mai saputo né che cosa chiedere né come chiederla hnché Dio stesso, venuto nel mondo e fatto si uomo, non gli insegnò il Padre nostro, affinché, come un bambino, lo imparasse a memoria.

    C'è da domandarsi che cosa intenda l'uomo quando dice a Dio: «Non sarebbe stato meglio per me non essere nato?». Esisteva forse prima di esistere? E allora che significa la sua domanda, se prima di esistere non esisteva? L'uomo può farsi un'idea di tutto ciò che esula dalla sua ragione e per questo può farsi un'idea di tutti i misteri; solamente di ciò che non esiste non può avere alcuna idea; per questo, non può farsi alcuna idea del nulla. Il suicida non vuole cessare di esistere ma piuttosto smettere di soffrire, assumendo un'altra forma di essere. L'uomo dunque non esprime nessuna idea quando si domanda: «Perché esisto?». Può esprimere una idea solamente quando si domanda: «Perché sono quello che sono?», che significa: «Perché esisto con la possibilità di perdermi?», la quale è una domanda assurda, da qualsiasi punto la si osservi. Infatti, dal momento che ogni creatura, per il semplice fatto di essere tale, è imperfetta e che la facoltà di perdersi costituisce l'imperfezione caratteristica degli uomini, chi esprime tale domanda è come se domandasse perché l'uomo è una creatura o anche, in altre parole, perché l'uomo non è il Dio che creò l'uomo. Quod absurdum.

    Che se invece tale domanda non dev'essere interpretata come s'è fatto sopra, ma tende a conoscere perché Dio non salva l'uomo vincendo la sua facoltà di perdersi, allora l'assurdo è certamente più evidente. Non si comprende infatti che significato avrebbe la facoltà di perdersi concessa a uno che non deve perdersi mai o quale sarebbe lo scopo finale della vita nel tempo, se l'uomo dovesse necessariamente salvarsi, e posto ciò, perché l'uomo non cominci e si perpetui nel paradiso. La ragione non può comprendere una salvezza che sia nello stesso tempo necessaria e futura, dal momento che il futuro è strettamente legato al contingente e, per natura, è presente ciò che per natura è necessario.

    Se l'uomo avesse dovuto passare, senza transizione, dal nulla all'eternità e avesse dovuto vivere, a partire dal suo primo istante di vita, una vita gloriosa, non avrebbero avuto alcun significato il tempo e lo spazio e la creazione fatta per l'uomo, suo re. Se il suo vero regno deve essere al di fuori di questo mondo, non ha senso il mondo. Se il suo vero regno non dev'essere nel tempo, non ha senso il tempo. Se il suo vero regno dev'essere al di fuori dello spazio, non ha senso lo spazio. Ne consegue che in tale congettura l'assurdo, determinato dalla contraddizione esistente tra la necessità di salvarci e la possibilità di perderci, sfocia nell'assurdità di sopprimere di colpo il tempo e lo spazio: il che equivale alla soppressione logica di tutte le cose create con l'uomo, per l'uomo e a causa dell'uomo. L'uomo non può sostituire un'idea divina con un'idea umana, perché in tal caso l'intero edificio della creazione precipita, sotterrando se stesso sotto le proprie gigantesche macerie.

    Osservando la questione da una angolazione diversa, si può affermare che quando l'uomo reclama il diritto assoluto di salvarsi senza rinunciare alla facoltà di perdersi, incorre in un'assurdità maggiore di quando muove causa a Dio perché gli concede la facoltà di perdersi. In quest'ultima controversia intenta causa per essere Dio, nell'altra la intenta per avere, pur essendo uomo, gli attributi della divinità.

    Infine, se si considera con attenzione quest'ultimo gravissimo assunto, risulterà evidente che non era consono alla divina eccellenza salvare l'angelo e l'uomo senza un loro merito antecedente. In Dio tutto è ragionevole: la sua giustizia, la sua bontà, la sua misericordia. Egli è infinitamente giusto, infinitamente buono e infinitamente misericordioso, ma è pure infinitamente ragionevole. Ne consegue che non si può attribuire a Dio, senza incorrere in bestemmia, né bontà, né misericordia, né giustizia che non trovino il loro fondamento nella sovrana ragione, la quale sola fa sì che la bontà sia vera bontà, la misericordia vera misericordia e la giustizia vera giustizia. La bontà non sottoposta al raziocinio è pavidità; la misericordia che non si lascia guidare dalla ragione è debolezza; la giustizia non conforme alla ragione è vendetta; e Dio è buono, misericordioso e giusto; non è né debole, né vendicativo, né pavido. Ammesso ciò, ne consegue che non si può chiedere a Dio la nostra salvezza senza alcun nostro merito anteriore, dal momento che ciò che si pretende è un'azione immotivata, un effetto privo di causa. È decisamente contraddittorio che l'uomo chieda a Dio, in nome della sua infinita bontà, quelle stesse cose che quotidianamente condanna nell'uomo in base alla sua ragione limitata e che consideri misericordioso e giusto a livello divino tutto ciò che quotidianamente a livello umano reputa capriccio di donnette o stravaganza di tiranni.

    Per quanto riguarda l'inferno, la sua esistenza è necessaria e indispensabile affinché sia possibile quel perfetto equilibrio che Dio ha posto in tutte le cose, e che si trova in maniera sostanziale nelle sue divine perfezioni. L'inferno come castigo si trova in perfetto equilibrio con la gloria considerata come premio; solamente la facoltà di dannarsi può equilibrare nell'uomo la facoltà di salvarsi. Affinché la giustizia e la misericordia di Dio fossero ugualmente infinite, era necessario che esistessero simultaneamente l'inferno come termine della prima e la gloria come termine della seconda. La gloria presuppone l'inferno in modo tale che senza l'inferno la gloria non può essere né giustificata né concepita: l'una cosa suppone l'altra, come la conseguenza suppone il proprio principio e il principio la propria conseguenza. Orbene, se colui che afferma essere la conseguenza insita nel suo principio e il principio contenere la sua conseguenza, in realtà non asserisce due cose differenti ma la stessa cosa, ne consegue che colui che sostiene che l'inferno presuppone il paradiso e il paradiso l'inferno, in realtà non afferma due cose diverse ma la stessa cosa. Sussiste dunque la necessità logica di affermare queste due proposizioni o di negarle entrambe in modo assoluto; tuttavia, prima di negarle è indispensabile sapere che cosa si nega. Negandole, si nega nell'uomo la facoltà di salvarsi e la facoltà di dannarsi, mentre si nega in Dio la sua infinita giustizia e la sua infinita misericordia. A queste negazioni personali, se così vogliamo chiamarle, si aggiunge un'altra negazione reale, cioè la negazione della virtù e del peccato, del bene e del male, del premio e del castigo; e poiché tali negazioni sfociano necessariamente nella negazione di tutte le leggi del mondo morale, la negazione dell'inferno comporta logicamente quella del mondo morale e di tutte le sue leggi. Né si dica che l'uomo potrebbe salvarsi senza andare in paradiso e perdersi senza andare all'inferno; infatti tutto ciò che non è né paradiso né inferno non è né pena né premio, né perdizione né salvezza. Giustizia e misericordia divine o sono infinite o non esistono; essendo infinite, debbono portare, da una parte, all'estremo castigo e, dall'altra, al premio più grande, altrimenti sono vane, il che equivale a dire inesistenti.

    Da questa laboriosa argomentazione si deduce, da una parte, che la facoltà di salvarsi presuppone necessariamente quella di dannarsi e, dall'altra, che il paradiso presuppone necessariamente l'inferno; ne consegue che colui che bestemmia contro Dio perché ha creato l'inferno, bestemmia pure contro Dio perché ha creato il paradiso e che colui che chiede di essere liberato dalla facoltà di dannar si chiede pure di essere privato della facoltà di salvarsi.
    Ultima modifica di Florian; 06-12-09 alle 10:00
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    Predefinito Rif: LEGGERE INSIEME DONOSO CORTES / 6

    CAPITOLO TERZO

    Manicheismo. Manicheismo proudhoniano.


    Quale che sia la spiegazione che possa darsi del libero arbitrio dell'uomo, non vi è dubbio che esso rappresenterà sempre uno dei nostri misteri più grandi e terribili; in ogni caso dobbiamo ammettere che la facoltà data all'uomo di scegliere tra il bene e il male, tra l'ordine e il caos, e di turbare, sia pure accidentalmente, le grandi armonie stabilite da Dio in tutte le cose della creazione, è una facoltà tremenda e in certo senso inconcepibile, se la si considera in sé e a prescindere da qualsiasi relazione con ciò che la limita e la contiene. Il libero arbitrio dell'uomo è un dono cosi eccelso e cosi straordinario da sembrare, a ben guardarne gli effetti, più un'abdicazione da parte di Dio che una grazia.

    Volgete lo sguardo a tutto lo scorrere dei tempi e vedrete quanto sono torbide e fangose le acque del fiume in cui l'umanità sta navigando: c'è Adamo sedizioso e ribelle e Caino il fratricida e dietro viene la moltitudine delle genti senza Dio e senza legge, blasfeme, lascive, incestuose e adultere; i pochi difensori di Dio e della sua gloria si dimenticano della sua magnificenza e tutti insieme fanno tumulto su un grande naviglio senza capitano, che scende per la torbida corrente del gran fiume, con un terribile e furente clamore come di ciurma ammutinata. E non sanno dove vanno né da dove provengono, né come si chiama il naviglio che li trasporta né il vento che li sospinge. Quando di tanto in tanto si alza una voce lugubremente profetica che dice: «Guai ai naviganti, guai al naviglio!», i naviganti non le prestano attenzione e il naviglio continua nella sua folle deriva; le bufere imperversano con forza sempre maggiore e la nave comincia a cigolare e continuano le danze lubriche e i banchetti fastosi, le risate frenetiche e l'insensato clamore fino a quando non giunge un momento solennissimo in cui tutto cessa: i banchetti fastosi, le risate frenetiche, le danze lubriche, l'insensato clamore, il cigolio della nave e il fragore della tempesta. Le acque hanno sommerso tutto, il silenzio regna sulle acque e l'ira di Dio sulle acque silenziose.

    Dio si accinge a ricostruire ma la nuova opera divina viene nuovamente distrutta dalla libertà umana. A Noè nasce un figlio, che disonora il padre; il padre maledice il figlio e in lui tutta la sua generazione, che sarà maledetta fino alla pienezza dei tempi. Dopo il diluvio ricomincia la storia antidiluviana: i figli di Dio tornano a combattere i figli degli uomini; di fronte alla città divina si riedifica la città del mondo. Nell'una si rende culto alla libertà e nell'altra alla Provvidenza; tra la libertà e la Provvidenza, tra Dio e l'uomo si ripete quella gigantesca battaglia, le cui immani vicissitudini costituiscono il perpetuo argomento della storia. I seguaci di Dio sono ovunque sconfitti; persino il nome di Dio, incomunicabile e santo, cade in un profondo oblio e gli uomini, in preda alla frenesia della propria vittoria, uniscono le proprie forze nell'intento di innalzare una dimora così alta che consenta loro di vivere al di sopra delle nubi. Il fuoco del cielo avvolge la superba dimora, e Dio, adirato, confonde le lingue parlate dalle genti; le genti si disperdono per il mondo, crescono e si moltiplicano, riempiendo tutte le zone e tutte le regioni; qui costruiscono grandi e popolose città, là, piene di superbia, fondano imperi giganteschi; orde abbrptite e feroci vagano con insolente pigrizia per foreste immense e deserti sconfinati. Il mondo è dilaniato dalle discordie e come assordato dal grande frastuono delle guerre. Gli imperi cadono gli uni sugli altri, le città sulle città, le nazioni sulle nazioni, le razze sulle razze, le tribù sulle tribù; la terra tutta brucia in un rogo immenso. Nel mondo regna l'abominio della desolazione. Dove sta il Dio forte? Perché abbandona così il campo alla libertà umana, regina e signora della terra? Perché tollera questa ribellione universale e questo tumulto immane, e l'imposizione di nuovi idoli, l'imperversare delle stragi, l'accumularsi delle macerie?

    Un giorno Dio chiamò un uomo giusto e gli disse: «Io ti farò padre di una posterità numerosa come i granelli della sabbia del mare e come le stelle del cielo; dalla tua felicissima razza nascerà un giorno il Salvatore delle genti. lo stesso la governerò con la mia provvidenza e, affinché non venga meno, dirò ai miei angeli che la portino sul palmo delle loro mani. Io opererò per essa prodigi ed essa testimonierà alle genti la mia onnipotenza». E le sue opere furono conformi alle sue parole. Per il suo popolo che si trovava in schiavitù suscitò liberatori; trasse miracolosamente dall'Egitto e dette un focolare e una patria a un popolo che non aveva né focolare né patria. Soffriva la fame e lo saziò; soffriva la sete e dalle rocce obbedienti al suo volere scaturì l'acqua; gli si misero contro grandi moltitudini di nemici e l'ira di Dio le disperse come nubi. Sospese ai salici di Babilonia le sue ce tre dolenti, lo riscattò e volse i suoi sguardi verso Gerusalemme la santa, la predestinata, la bella. Gli dette giudici incorruttibili che gli assicurarono la pace e la giustizia, re timorati di Dio e famosi per prudenza, gloria e saggezza; gli inviò come suoi ambasciatori profeti che gli rivelassero i suoi eccelsi disegni e gli descrivessero come presenti le cose future. Eppure questo popolo carnale e duro dimenticò i suoi miracoli, ricusò i suoi avvertimenti, abbandonò il suo tempio, bestemmiò, cadde in idolatria, oltraggiò il suo nome impronunciabile, suppliziò i suoi profeti e si consumò in discordie e ribellioni.

    Trascorsero, frattanto, le settimane profetiche di Daniele e venne colui che doveva venire, inviato dal Padre a redimere il mondo e a confortare te genti; ma quando lo videro così povero, così buono e così umile, disprezzarono la sua umiltà, insultarono la sua povertà, derisero la sua mitezza, se ne scandalizzarono, lo vestirono di vesti di scherno e, agitati segretamente dalle furie dell'inferno, gli fecero bere fino alla feccia il calice dell'ignominia sulla croce, dopo avergli fatto bere il calice dell'infamia nel Pretorio.

    Crocifisso dai giudei, chiamò i gentili e i gentili risposero al suo appello; ma anche in seguito il mondo proseguì lungo il cammino della perdizione, avvolto come prima dalle ombre di morte. La sua Chiesa santissima ereditò dal suo divino fondatore e maestro il privilegio della persecuzione e degli oltraggi e fu ingiuriata e perseguitata da popoli, re e imperatori. Dal suo stesso seno germogliarono quelle grandi eresie che già attorniarono la sua culla a guisa di mostri pronti a divorarla. Invano si prostrarono ai piedi dell'Ercole divino: la tremenda battaglia tra l'Ercole divino e l'Ercole umano, tra Dio e l'uomo, ricomincia; uguale è la furia che la contraddistingue e vari gli esiti; il campo di battaglia si estende nei continenti da un mare all'altro, nel mare da un continente all'altro, e nel mondo da un estremo all'altro. Le schiere vincitrici in Europa sono vinte in Asia, e quelle sconfitte in Africa trionfano in America. Non vi è uomo che, consapevole o no, non sia soldato in questa battaglia e che non sia in parte responsabile della sconfitta o della vittoria. Il forzato avvinto in catene come il re dall' alto del suo trono partecipano alla stessa battaglia, così come il povero e il ricco, il sano e l'infermo, il sapiente é l'ignorante, il libero e il prigioniero, il vecchio e il giovane, il civile e il selvaggio. Ogni parola pronunciata dall'uomo obbedisce all'ispirazione di Dio o a quella del mondo e proclama inevitabilmente, in modo implicito o esplicito ma sempre con chiarezza, la gloria dell'uno o il trionfo dell'altro. In questa singolare milizia tutti combattiamo per reclutamento obbligatorio; in essa non vi è posto né per i sostituti né per i volontari; qui non vi sono esenzioni per il sesso o per l'età; qui non si ascolta colui che dice di essere figlio di una vedova povera, né la madre di un paralitico, né la moglie di un invalido. Di questa milizia sono soldati tutti coloro che sono nati.

    E non dirmi che non vuoi combattere, perché nel momento stesso in cui me lo dici stai già combattendo; né che non sai per chi parteggiare, ché nel momento stesso in cui dici questo hai già preso posizione; e non dirmi neppure che vuoi tenerti neutrale, perché nel momento stesso in cui pensi di esserlo già non lo sei più, né puoi dichiarare che te ne starai in disparte con indifferenza, poiché nel momento stesso in cui hai pronunciato tali parole, già hai fatto la tua scelta. Non sprecare le tue energie nel cercare un asilo sicuro che ti protegga dai rischi della guerra, perché ti stancherai inutilmente: questa guerra ha le dimensioni dello spazio e la durata del tempo. Solamente nell'eternità, patria dei giusti, potrai riposarti, perché solo lì non si conoscono battaglie: ma non potrai pretendere che ti vengano spalancate le porte dell'eternità se prima non avrai mostrato le tue cicatrici; quelle porte vengono aperte solamente a coloro che quaggiù presero parte ai combattimenti del Signore e a coloro che, come il Signore, vengono sottoposti al martirio della croce.

    Osservando lo spettacolo offertoci dalla storia vediamo che l'uomo, non assistito dalla fede, è inevitabilmente portato a uno di questi due manicheismi: a quello antico, sostenitore di un principio del bene e di uno del male, incarnati da due divinità tra le quali vige solamente la legge della guerra; o a quello proudhoniano, secondo il quale Dio è il male e l'uomo è il bene, tra il potere umano e il potere divino c'è rivalità, e l'unico dovere dell'uomo consiste nel vincere Dio, suo nemico.
    Dallo spettacolo della lotta perpetua che affligge il mondo si ricavano naturalmente questi due sistemi manichei, dei quali l'uno serba maggiori reminiscenze delle antiche tradizioni, l'altro invece è più affine alle moderne dottrine; e si deve pure ammettere che a considerare il fatto palese di questa gigantesca battaglia e prescindendo dalla meravigliosa armonia che informa l'insieme delle cose umane e divine, quelle visibili e quelle invisibili, create e non create, tale fatto è spiegato in modo soddisfacente da ognuno dei due sistemi.

    La difficoltà non consiste nella spiegazione di un fatto qualsiasi considerato in se stesso. Ogni fatto, in base a tale considerazione, può essere sufficientemente spiegato da cento ipotesi diverse. La difficoltà consiste nel soddisfare la condizione metafisica di ogni spiegazione, secondo la quale, perché la spiegazione di un fatto palese sia valida, è necessario che con essa non siano inspiegabili o non rimangano inspiegati altri fatti altrettanto evidenti.

    Qualunque sistema manicheo è in grado di spiegare tutto ciò che per sua natura comporta un dualismo - e una battaglia lo comporta -; ma non può spiegare ciò che per natura è uno; e la ragione, anche senza l'apporto della fede, è in grado di dimostrare che Dio non esiste o che, se esiste, è uno. Qualunque sistema manicheo può spiegare la battaglia ma nessuno può dirci a chi toccherà la vittoria definitiva, poiché la vittoria definitiva del male sul bene o del bene sul male suppone la soppressione definitiva dell'uno o dell'altro, e non può essere definitivamente soppresso ciò che esiste in modo sostanziale e necessario. Ne consegue che nella battaglia stessa, che sembrava sufficientemente spiegata, vi è qualcosa di inspiegabile, dal momento che è inspiegabile ogni battaglia in cui sia impossibile una vittoria definitiva.

    Passando ora dall'assurdità comune a ogni spiegazione addotta da sistemi manichei all'assurdità insita particolarmente nella spiegazione offerta dal manicheismo proudhoniano, risulterà evidente che all'assurdità generale che caratterizza ogni manicheismo vanno qui aggiunte tutte le possibili assurdità particolari e che nella formulazione di tale sistema vi sono persino cose indegne della maestà dell'assurdo. Infatti quando il cittadino Proudhon chiama bene il male e male il bene, non dice una cosa assurda: l'assurdo richiede maggiore ingegno; dice soltanto una buffonata. L'assurdo non consiste semplicemente nel dirla ma nel dirla senza alcun riferimento oggettivo. Dal momento in cui si afferma che il bene e il male coesistono localmente e sostanzialmente nell'uomo e in Dio, diventa ozioso ricercare dove si trovi il male e dove il bene. L'uomo chiamerà Dio il male e se stesso il bene, e Dio chiamerà se stesso il bene e l'uomo il male. Il bene e il male saranno dappertutto e in nessun luogo. L'unico problema consiste allora nell'indagare di chi sarà la vittoria finale. Orbene, dato che in questa ipotesi il male e il bene sono due cose del tutto indifferenti, non c'era motivo di incorrere nella ridicola ingenuità di contraddire il comune sentimento del genere umano. L'assurdità peculiare del cittadino Proudhon è che il suo è un dualismo costituito da tre elementi e formante una unità assoluta, da cui si deduce che il suo è un assurdo matematico, più che religioso. Dio è il male e l'uomo è il bene: questo è il dualismo manicheo; ma nell'uomo, che è il bene, vi è una forza essenzialmente istintiva e un'altra essenzialmente logica; in virtù della prima è Dio, mentre per la seconda è uomo; sicché le due unità si scompongono in tre, pur continuando a essere due, perché fuori dell'uomo e di Dio non esiste né bene sostanziale né male sostanziale; non esiste lotta, non esiste nulla. Vediamo ora in che modo le due unità, che poi sono tre, si trasformino in una sola unità, pur continuando a essere due e tre unità. L'unità sta in Dio, perché oltre a essere Dio, è uomo, per la potenza istintiva che è nell'uomo. L'unità sta nell'uomo, perché essendo uomo per la sua potenza logica, è Dio in virtù della sua potenza istintiva: per cui l'uomo è al tempo stesso uomo e Dio. Da tutto ciò si deduce che il dualismo, pur continuando a essere dualismo, è trinità; che la trinità, pur continuando a essere trinità, è dualismo; che il dualismo e la trinità, pur non cessando di essere ciò che sono, sono unità; e che l'unità, che è unità senza cessare di essere trinità e dualismo senza cessare di essere trinità, è in due parti.

    Anche se il cittadino Proudhon dicesse - cosa che non dice - di essere un inviato e dimostrasse poi - cosa che non può dimostrare - che la sua missione è divina, la teoria appena esposta dovrebbe essere ugualmente respinta perché assurda e impossibile. La unione personale del male e del bene, considerati esistenze sostanziali, è impossibile e illogica in quanto implica una contraddizione evidente. Nella varietà personale e nell'unità sostanziale che costituiscono il Dio uno e trino del cristiano, così come nell'unità personale e nella varietà sostanziale che costituiscono il Figlio fatto uomo secondo il dogma cattolico, vi è un'oscurità profondissima, ma non un'impossibilità logica, non essendovi contraddizione nei termini. Anche se vi è molto di oscuro, non vi è nulla di contraddittorio dal punto di vista razionale nell'affermare che tre persone hanno per fondamento una stessa sostanza, così come è oscuro ma non contraddittorio sostenere che tre diverse sostanze trovano sostegno in una stessa persona. È invece radicalmente impossibile, essendo evidente l'assurdità e tangibile la contraddizione, affermare, dopo avere asserito la sostanziale esistenza del male e del bene, che il male e il bene sostanzialmente esistenti trovano sostegno in una stessa persona. Cosa che veramente stupisce: l'uomo non può sfuggire all'oscurità cattolica senza condannare se stesso a un'oscurità ancora più impenetrabile, né può evitare quel che offusca la sua ragione senza incorrere in quello che la nega, contraddicendola.

    Non si creda che il mondo segua le orme del razionalismo malgrado le sue assurde contraddizioni e le sue profonde oscurità; le segue invece proprio a causa di queste oscurità profonde e di queste assurde contraddizioni. La ragione segue l'errore dovunque vada, così come una madre premurosa segue dappertutto, persino nell'abisso più profondo, il frutto amato del suo amore, il figlio delle sue viscere. L'errore le darà la morte; ma che importa a una madre morire per mano del figlio?
    SADNESS IS REBELLION

 

 

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