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  1. #11
    Banda Müntzer-Epifanio
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    Predefinito Rif: LA RETORICA DELLA CADUTA DEL MURO E DEL COMUNISMO

    [Questo è un testo scritto circa un anno fa e pubblicato nel calendario dei compagni del Collettivo Tazebao. Sembra prevedere con triste lucidità la valanga di infamità e menzogne che in questi giorni inesorabilmente viene proposta a reti unificate e nei giornali a proposito del ventennale della caduta del muro di Berlino. Occasione per rinvigorire il mare di falsità e calunnie con cui da sempre l'"informazione" borghese descrive l’esperienza storica del movimento comunista internazionale. Ci sembra che a questa canea si possa rispondere molto efficacemente con una illuminante citazione, di cui non si potrà certo contestare la natura filocomunista, e che puntualmente è caduta nell'oblio:
    “Quando crollò il muro di Berlino, i tedeschi dell’est immaginavano una vita di libertà in cui vi fosse abbondanza di beni di consumo e un termine ai sacrifici. Dieci anni dopo, un significativo 51% afferma che si era più felici all’epoca del comunismo”. (USA Today, 11 ottobre 1999, p. 1)]

    Vent’anni fa, il 9 novembre del 1989, con l’evento simbolico della caduta del muro di Berlino, la borghesia proclamava la morte del comunismo e della lotta di classe. In realtà, i paesi socialisti dell’Europa orientale erano stati minato dall’interno dal cancro del revisionismo moderno che aveva negato la transizione al comunismo e aveva proceduto, sotto le bandiere della “destalinizzazione”, alla reintroduzione dei rapporti economici e sociali di tipo borghese. La vittoria del revisionismo fu dunque una vittoria del capitalismo che si proclamò come ordine naturale e immutabile tra gli uomini. Ma già allora, in Perù, le masse rivoluzionarie, sotto la guida del Partito Comunista, imbracciavano nuovamente la bandiera dell’Ottobre Sovietico combattendo, con la guerra popolare di lunga durata, il regime filoyankee. Oggi, nella situazione di crisi economica e di conseguente guerra imperialista, la lotta di classe e il comunismo rappresentano ancora, assieme al moto anticolonialista dei popoli oppressi, le bestie nere del capitalismo. Come spiegare, altrimenti, la messa fuori legge a livello internazionale delle organizzazioni comuniste tramite la loro inclusione, insieme ai movimenti di liberazione nazionale, nelle liste del “terrorismo” stilate da USA e UE? Come spiegare l’aumento dei prigionieri comunisti in tutto il mondo, spesso sottoposti all’isolamento carcerario, alla tortura o addirittura all’omicidio legale o extralegale? Come spiegare il fatto che governi i quali, con ipocrisia, continuano a definirsi comunisti , censurino la storia rivoluzionaria del proprio popolo come sta facendo la Cina socialimperialista rispetto al maoismo e alla grande Rivoluzione Culturale Proletaria? La verità è che il comunismo fa ancora molta paura perché l’essenza della realtà è a contraddizione e ogni contraddizione del sistema capitalista apre il sentiero al suo superamento storico, al comunismo.
    Perché, come dissero Marx ed Engels, il comunismo è il movimento reale che abolisce l’esistente.

    I compagni del Collettivo Tazebao – per la propaganda comunista

    1989 – 2009 Viva il comunismo e la libertà

  2. #12
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    Predefinito CIFRE DA CAPOGIRO........UNA CIFRA ENORME

    Il declino globale degli stipendi
    in busta 5mila euro in meno l'anno
    di MAURIZIO RICCI

    Corteo del 1 maggio

    ROMA - La lotta di classe? C'è stata e l'hanno stravinta i capitalisti. In Italia e negli altri Paesi industrializzati, gli ultimi 25 anni hanno visto la quota dei profitti sulla ricchezza nazionale salire a razzo, amputando quella dei salari, e arrivare a livelli impensabili ("insoliti", preferiscono dire gli economisti). Secondo un recente studio pubblicato dalla Bri, la Banca dei regolamenti internazionali, nel 1983, all'apogeo della Prima Repubblica, la quota del prodotto interno lordo italiano, intascata alla voce profitti, era pari al 23,12 per cento.

    Di converso, quella destinata ai lavoratori superava i tre quarti. Più o meno, la stessa situazione del 1960, prima del "miracolo economico". L'allargamento della fetta del capitale comincia subito dopo, nel 1985. Ma per il vero salto bisogna aspettare la metà degli anni '90: i profitti mangiano il 29 per cento della torta nel 1994, oltre il 31 per cento nel 1995. E la fetta dei padroni, grandi e piccoli, non si restringe più: raggiunge un massimo del 32,7 per cento nel 2001 e, nel 2005 era al 31,34 per cento del Pil, quasi un terzo. Ai lavoratori, quell'anno, è rimasto in tasca poco più del 68 per cento della ricchezza nazionale.
    Otto punti in meno, rispetto al 76 per cento di vent'anni prima.

    Una cifra enorme, uno scivolamento tettonico.


    Il declino globale degli stipendi in busta 5mila euro in meno l'anno - economia - Repubblica.it

  3. #13
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    Predefinito Rif: LA RETORICA DELLA CADUTA DEL MURO E DEL COMUNISMO

    Retorica stucchevole ed anzi vomitevole quella che si consuma nel ventennale della caduta del muro. Monopolio assoluto del punto di vista capitalistico e occidentalistico che divide il mondo in società aperte e società chiuse e guarda il futuro come un percorso unilineare verso la democrazia di mercato.

    andatevi ad ascoltare, se non lo conoscete già, l'inno nazionale della DDR. Davvero bellissimo. Inoltre mi ricorda quel bel film che è stato Good Bye Lenin.

  4. #14
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    Predefinito Rif: LA RETORICA DELLA CADUTA DEL MURO E DEL COMUNISMO

    Io non ho guardato nelle varie TV le commemorazioni, dico solamente che, avendo avuto e avendo a che fare con numerose "badanti" dell'est europeo, ripeto quello che mi dicono tutte loro: ai tempi del comunismo, si stava meglio, molto meglio di adesso. Sia chiaro, non era il paradiso dei lavoratori, quello non lo è mai stato, ma adesso, con il liberal capitalismo, è un inferno.

  5. #15
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    Predefinito Rif: LA RETORICA DELLA CADUTA DEL MURO E DEL COMUNISMO

    Slavoj Zizek

    Vent’anni dopo il muro


    Chi scendeva in piazza nel 1989 aspirava a un “socialismo dal volto umano”. Ma il realismo capitalista, si chiede Slavoj Zizek, è davvero l’unica risposta all’utopia socialista?
    Parlare degli avvenimenti di vent’anni fa come di un “miracolo” è diventato un luogo comune. Si è avverato un sogno, è successa una cosa inimmaginabile, una cosa che sembrava impossibile appena due mesi prima: libere elezioni, disintegrazione dei regimi comunisti, crollati come un castello di carte. In Polonia chi poteva immaginare delle libere elezioni con Lech Walesa presidente?

    Un miracolo ancora più grande, però, è avvenuto un paio d’anni dopo, quando elezioni libere e democratiche hanno riportato al potere gli ex comunisti e Walesa è diventato improvvisamente molto meno popolare del generale Wojciech Jaruzelski, lo stesso che aveva schiacciato Solidarnosc con un colpo di stato militare.

    La spiegazione comune di questo secondo ribaltamento parla di aspettative “immature” della popolazione, che aveva un’idea irrealistica del capitalismo: volevano la botte piena e la moglie ubriaca, volevano le libertà e le ricchezze del capitalismo democratico, ma senza pagare il prezzo di vivere in una “società del rischio”, cioè senza perdere la sicurezza e la stabilità (più o meno) garantite dai regimi comunisti.

    Come hanno osservato i sarcastici commentatori occidentali, la nobile lotta per la libertà e la giustizia si è rivelata una specie di corsa frenetica alle banane e alla pornografia. Finito l’entusiasmo del giorno della vittoria, il mattino dopo la gente ha dovuto farsi passare la sbronza e sottoporsi a un doloroso processo di apprendimento delle regole della nuova realtà, cioè del prezzo che si paga per la libertà politica ed economica.

    L’inevitabile delusione, quando è arrivata, ha scatenato tre reazioni, opposte o sovrapposte: la nostalgia per i “bei vecchi tempi” del comunismo, il populismo nazionalista di destra e la nuova paranoia anticomunista. Le prime due sono facili da capire. La nostalgia del comunismo non va presa troppo sul serio: più che esprimere un vero desiderio di tornare alla grigia realtà del socialismo, è una forma di lutto, un modo garbato di sbarazzarsi del passato.

    Nostalgia del passato
    Quanto all’ascesa del populismo di destra, non è un’esclusiva dell’est europeo, ma una caratteristica comune a tutti i paesi intrappolati nel vortice della globalizzazione. Lo strano revival dell’anticomunismo è più interessante perché dà una risposta semplice alla domanda: “Se il capitalismo è davvero migliore del socialismo, perché la nostra vita fa ancora schifo?”. La spiegazione è che non viviamo davvero nel capitalismo, perché in realtà comandano ancora i comunisti, travestiti da padroni e manager.

    È ovvio che la maggioranza dei cittadini dell’Europa orientale che protestavano contro i regimi comunisti non chiedeva il capitalismo: voleva solidarietà e qualche forma di giustizia, magari rozza; voleva la libertà di vivere senza controlli da parte dello stato, di riunirsi e di parlare come preferiva; voleva una vita semplice, onesta e sincera, finalmente libera dall’indottrinamento ideologico e dalla cinica ipocrisia dominante. Come fecero notare molti analisti perspicaci, gli ideali che spingevano le persone in piazza facevano riferimento proprio all’ideologia socialista al potere: si aspirava a una cosa la cui migliore definizione è “socialismo dal volto umano”.

    Ma il realismo capitalista è davvero l’unica risposta all’utopia socialista? Dopo la caduta del muro di Berlino è davvero arrivata l’era della maturità capitalistica che ha messo fine a tutte le utopie? E se anche quell’era si fosse fondata su un’utopia?

    Il 9 novembre 1989 ha annunciato l’arrivo dei “felici anni novanta”, l’utopia della fine della storia proposta da Francis Fukuyama, la convinzione che la democrazia liberale avesse vinto, che la ricerca fosse terminata, che l’avvento di una comunità planetaria globale e liberale fosse dietro l’angolo, e che gli unici ostacoli al grande lieto fine hollywoodiano fossero semplici sacche locali di resistenza, dove i governanti non avevano ancora capito che era suonata la loro ora. Invece l’11 settembre è il simbolo della fine dei felici anni novanta clintoniani e annuncia l’era successiva, in cui nuovi muri spuntano da tutte le parti: tra Israele e Cisgiordania, attorno all’Unione europea, lungo il confine Stati Uniti-Messico, ma anche all’interno degli stati.

    A quanto pare, insomma, l’utopia di Fukuyama è morta due volte. L’11 settembre 2001 è crollata l’utopia politica liberaldemocratica, e il crac finanziario del 2008 ha annunciato la fine della sua dimensione economica. Nel momento in cui il liberismo si presenta come antiutopia incarnata e il neoliberismo si propone come contrassegno della nuova era, in cui l’umanità ha ormai abbandonato i progetti che sono stati responsabili degli orrori totalitari del novecento, è sempre più chiaro che il vero periodo dell’utopia sono stati gli anni novanta, con la loro fede che l’umanità avesse finalmente trovato la ricetta del perfetto ordine socioeconomico.

    L’esperienza di questi ultimi decenni dimostra che il mercato non è un meccanismo benigno: funziona nel migliore dei modi se è lasciato in pace a fare il suo lavoro, ma per funzionare ha bisogno di un bel po’ di violenza extramercato. La reazione dei liberisti fondamentalisti di fronte alle devastanti conseguenze dell’applicazione delle loro ricette è tipica degli utopisti “totalitari”: danno la colpa del fallimento ai compromessi accettati da chi ha messo in atto le loro idee (c’è ancora troppo intervento dello stato nel mercato eccetera), e pretendono che la dottrina del libero mercato sia attuata in modo ancor più radicale.

    I nuovi pericolosi utopisti

    E oggi, a che punto siamo? Vale la pena ricordare la sorte di Viktor Kravcenko, il diplomatico sovietico che nel 1944 chiese asilo politico in occidente mentre si trovava a New York e scrisse il famoso Ho scelto la libertà, la prima autobiografia sugli orrori dello stalinismo. Il libro comincia con un resoconto dettagliato della collettivizzazione forzata in Ucraina e della carestia di massa che devastò il paese. La parte più nota della sua storia finisce a Parigi nel 1949, quando Kravcenko vinse trionfalmente il processo contro i suoi accusatori sovietici, che portarono in tribunale perfino la sua ex moglie perché testimoniasse che era corrotto, alcolizzato e colpevole di violenze domestiche.

    Quel che è meno noto è che subito dopo la sua vittoria, mentre il mondo lo accoglieva come un eroe della guerra fredda, Kravcenko era sempre più preoccupato per la caccia alle streghe anticomunista promossa da McCarthy negli Stati Uniti e dichiarò più volte che quel modo di combattere lo stalinismo cominciava a somigliare troppo al nemico che voleva sconfiggere. Sempre più consapevole delle ingiustizie del mondo occidentale, Kravcenko fu travolto dall’ossessione di voler cambiare radicalmente anche le società democratiche.

    E così, dopo aver scritto un seguito assai meno famoso di Ho scelto la libertà, significativamente intitolato Ho scelto la giustizia, si gettò in una crociata per una nuova organizzazione della produzione industriale, che sfruttasse di meno i lavoratori. La lotta lo condusse in Bolivia, dove investì (e perse) tutti i suoi soldi per organizzare delle cooperative contadine. Schiacciato dal peso dei fallimenti, Kravcenko si ritirò a vita privata e si suicidò sparandosi nella sua casa di New York.

    Oggi i nuovi Kravcenko si trovano ovunque: dagli Stati Uniti all’India, dall’America Latina all’Africa, dalla Cina al Giappone, dal Medio Oriente all’Europa occidentale e orientale. Sono diversi tra loro e parlano lingue diverse, ma sono più numerosi di quel che si pensa. E chi sta ancora al governo teme più di ogni altra cosa che le loro voci diventino sempre più forti e compatte.

    Questi novelli Kravcenko vedono che le circostanze ci stanno spingendo verso la catastrofe e sono disposti ad agire sfidando ogni probabilità d’insuccesso. Delusi dal comunismo del novecento, sono pronti a ricominciare da zero e a reinventare su basi nuove la ricerca della giustizia. I loro nemici li trattano come pericolosi utopisti, ma sono gli unici a essersi svegliati davvero dal sogno utopico in cui molti di noi sono ancora immersi. Sono loro, e non i nostalgici del socialismo reale, la vera speranza della sinistra.

    Slavoj Zizek è un filosofo e studioso di psicoanalisi sloveno. Il suo ultimo libro è In difesa delle cause perse (Ponte alle Grazie 2009).

    Viva la Comune

  6. #16
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    Predefinito Rif: LA RETORICA DELLA CADUTA DEL MURO E DEL COMUNISMO

    Citazione Originariamente Scritto da Gilbert Visualizza Messaggio
    In questo giorno un pensiero commosso va a tutti i caduti per mano bolscevica, dalla santa famiglia imperiale degli Zar fino ai caduti ancora oggi in Cina, a Cuba e in tutti i luoghi dove il mostro trinaciuto continua a mietere vittime innocenti.

    Ora e sempre morte il comunismo, viva la libertà, viva la Germania tornata libera e unita !
    1- Niki II era un farabutto; Alexa si faceva sbattere dal sozzone Rasputin; lo zaretto un inutile tarato. Le zarinette era insulese sciacquette tutte gnè-gnè. Ma carucce. Io le avrei salvate. E date in usufrutto a quei poveracci di mugìki cui toccava trapanarsi grasse e irsute bàbushke mentre i cicsbei di Wrangel se la spassavano con Anastasja & sorelline.
    2- E' vero! A cuba ci sono orrori. A GUANTANAMO!
    3- E mmo' beccati ste canzoni della DDR.
    4- ES LEBE DIE DDR!
    WIR SIND NICHT TOT!
    WIR WAREN UND BLEIBEN IMMER ROT!

    YouTube - Thälmannlied - Thälmann ist niemals gefallen
    YouTube - commandantes-Bandiera rossa
    YouTube - Commandantes - Marsch der Antifaschisten
    YouTube - Deutsche Demokratische Republik - DDR
    YouTube - DDR Heimatlied
    YouTube - Kampflied gegen den Faschismus
    Ultima modifica di ARMINIUS; 10-11-09 alle 22:35

  7. #17
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    Predefinito Rif: LA RETORICA DELLA CADUTA DEL MURO E DEL COMUNISMO

    Vorrei ricordare ke alla fine della II G. Imperialista la BRD ricevette miliardi di $$$$ col piano Marshall. La DDR fu spolpata viva dall'URSS. E dovette pagare i risarcimenti di guerra pure per la BRD. I sovietici si portaro via pure i binari dei treni. Eppure a metà degli anni '70 era diventata il 7. paese più industrializzato del ondo quando dall'italia partivano milioni di straccioni in cerca di lavoro al'estero (avete mai visto il film Pane e Cioccolata con Nino Manfredi?).
    P.S. Thaelmann finì male: internato a Dora, si mise a fare il Kapo del Lager.
    Forse per questo i nazi non lo fucilarono. Pare sia morto sotto un bombardamento alleato.
    Ultima modifica di ARMINIUS; 10-11-09 alle 22:43

  8. #18
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    Predefinito Rif: LA RETORICA DELLA CADUTA DEL MURO E DEL COMUNISMO

    DI FULVIO GRIMALDI


    Da giorni ormai ci scassano la minchia, come bene dicono in Sicilia, con le celebrazioni del ventennale della caduta del “Muro di Berlino”. Stamane alla radio, nella trasmissione sportiva, ho sentito pure i subumani della cronaca calcistica (fatta eccezione per il grande Oliviero Beha) delirare sulla caduta del muro e sulle magnifiche sorti e progressive che quella demolizione avrebbe realizzato a est del muro. Il muro fu abbattuto da una folla di ubriachi di illusioni, ingenuità e astuti inganni. Lungi da chiunque l’idea che questa valutazione significhi l’identificazione con quei detriti del “socialismo reale” che furono i Brezhnev, i Cernienko e, peggio, i Gorbaciov. Semmai comporta un meritato rispetto e riconoscimento per la DDR che, nel mondo di quel “socialismo” della nefasta coesistenza e spartizione di genti con il capitalismo imperialista, faceva un po’ parte a sé. A Togliatti o Berlinguer, questi prelati dell’inquisizione e del compatibilità controrivoluzionaria, i dirigenti della DDR stavano come canguri a conigli.

    A Lenin e Gramsci avrebbero fatto meno ribrezzo di quei padri del bipartisan a perdere. Lo sanno bene gli abitanti della Germania Est che confrontano oggi la loro situazione sociale derelitta, appena superiore a quella degli altri socialismi esteuropei sbaraccati e desertificati dalle voraci mafie messe su dalle “democrazie” occidentali, con la pensione a cinquant’anni, la scuola e la sanità gratuite, la piena occupazione, la casa, casetta se volete, garantita e, last but not least, il Berliner Ensemble, Bertold Brecht o Christa Wolff. Guardatevi “Goodbye Lenin“.

    Feci con mio figlio Oliviero un viaggio nella DDR e verso il muro che stava pencolando. Cosa che tutti vi tacciono, compresi i subumani degli spurghi calcistici, è il fatto che dalla Germania Est già da anni si poteva transitare verso ovest, a visitare parenti, amici, ricordi. E viceversa. E’ vero che lungo le autostrade da Dresda – polverizzata piena di umanità e vuota di soldati da quel bel campione della democrazia e dei diritti umani che era Churchill, una specie di orco cannibale – a Berlino ogni qualche chilometro ci toccava nettare il parabrezza dalla fuliggine di un apparato industriale che ogni vantaggio assicurava al paese fuorchè la tutela dell’ambiente e dei polmoni. D’altra parte continuavamo a incrociare la divertente “Trabant” che era di fibra sintetica (geniale), sparava fetori dalla marmitta, ma durava l’intera vita del possessore. Qui o la cambi ogni due anni, l’auto, o ti sputano appresso. Questione di accumulazione o di qua o di là. A Berlino Ovest, nel Kurfuerstendamm, andammo a cercare il numero 173 dove aveva vissuto mio nonno, fatto fuori dalla fame nel 1943. C’era stata la ricostruzione democristiana: una forca caudina di negozi di lusso, grandi magazzini, chincaglierie per gonzi. La volgarità fatta Berlino. Ci rifugiammo tra gli eterni tigli di Unter den Linden, a est, dopo la Porta di Brandenburgo, e venimmo vezzeggiati da un quartiere neoclassico tenuto come un roseto a Kew Gardens. Non solo, in vicoli, che lì si chiamano Gassen, in piazzette e recessi attorno al Potsdamer Platz, oggi stuprati in nome della Volkswagen e di altre multinazionali e banche dai macigni terroristici dell’architetto regimista Renzo Piano, venimmo accolti da caldi localini all’antica, dove si chiacchierava, poetava, spettacolava, beveva in letizia e armonia. E poi anche tutto il resto era come quando ero ragazzo, non aveva subito lo sderenamento da frenesia innovativa, perlopiù indotta da scaltri imbonitori della speculazione. Belli ed eterni i sanpietrini di tutte le strade su cui sobbalzavamo senza dover temere ulteriori rapine dalle nostre tasche di contribuenti per riasfaltare, mettiamo, la Salerno-Reggio Calabria. Sentimentalismo? Chissà.

    Quel muro fu eretto nel 1961 da Kruschev e dai dirigenti della DDR per porre un freno all’infiltrazione continua e massiccia di spie, provocatori, destabilizzatori, disinformatori, da parte dei servizi occidentali, principalmente Usa e di Bonn. Serviva anche a non permettere che cittadini dell’Est andassero a far soldi arruolandosi in quell’armata di prezzolati della reazione controrivoluzionaria e a impedire che, abbagliati dalle sirene del consumismo, dei farlocchi andassero a farsi gabbare dal tritacarne capitalista. Brutto muro, a volte delittuosamente insanguinato, comunque meno dei genocidi economici e militari che l’imperialismo andava perpetrando nel Sud del mondo, in fuga dal colonialismo. Muro da porsi almeno all’80 per cento sul groppone dei revanscisti occidentali. Muro infinitamente meno brutto dei democratici muri di oggi, tutti eretti dallo schieramento della “democrazia” e dei “diritti umani”. Vedi le foto. E un fiore di bellezza rispetto ai muri che i licantropi occidentali e i loro ascarucci (tipo sindaco di Padova) vanno costruendo intorno a popoli da incarcerare ed estinguere. Ma anche di muri, ai quali fanno mettere la calce a noi stessi, attorno alle nostre menti e al nostro cuore a forza di terrorismo della paura, della menzogna, delle guerre, degli attentati, del razzismo, dell’individualismo, del libero mercato. Potessimo avere un muro da fargli crollare addosso e seppellirli per sempre!

    Fulvio Grimaldi
    Fonte: MONDOCANE
    Link: http://fulviogrimaldi.blogspot.com/2009/11/muri.


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  9. #19
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    Predefinito Rif: LA RETORICA DELLA CADUTA DEL MURO E DEL COMUNISMO

    11/05/2009
    Quando l'Italia "temeva" l'unificazione tedesca - Testimonianza
    Negli scorsi mesi documenti diplomatici del Foreign Office hanno confermato l’opposizione di Margaret Thatcher e la freddezza di François Mitterrand all'unificazione tedesca del 1990. Meno nota è una vicenda che sei anni prima provocò una piccola crisi diplomatica tra Bonn e Roma proprio sul futuro delle due Germanie. Da allora è trascorso molto tempo, ma gli eventi di quell’anno, come mi ha raccontato di recente l’allora ambasciatore d’Italia nella Repubblica Federale Luigi Vittorio Ferraris, nascondono non poche lezioni sul rapporto italo-tedesco, sulle idiosincrasie dei due paesi, sui punti di forza e debolezza nelle relazioni bilaterali. Ecco la sua testimonianza.



    Era il 1984: in Italia al potere era Bettino Craxi, presidente del consiglio di una maggioranza composta tra gli altri da socialisti e democristiani. Il 13 settembre, durante un convegno della Festa dell'Unità a Roma, l'allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti riprese una vecchia battuta di François Mauriac che diceva più o meno così: Amiamo talmente la Germania da preferire che ve ne siano due. Disse esattamente Andreotti: “Noi siamo tutti d'accordo che le due Germanie abbiano dei buoni rapporti (...) Però sia chiaro che non bisogna esagerare in questa direzione, cioè bisogna riconoscere che il pangermanesimo è qualcosa che deve essere superato. Esistono due Stati germanici e due Stati germanici devono rimanere”.



    Le parole del ministro degli Esteri scatenarono le proteste ufficiali del governo federale. Ferraris, allora ambasciatore a Bonn, fu convocato all’Auswärtiges Amt a un’ora insolita: le 8 del mattino. "Il ministro Hans-Dietrich Genscher – mi ha raccontato di recente l’ex diplomatico – fu cortese, ma molto fermo nel protestare per la presa di posizione di Andreotti. L’aspetto che più fece arrabbiare i tedeschi fu l'argomento del pangermanesimo che ai loro occhi riportava alla mente l'espansionismo e il militarismo prussiano. A colpire in particolare fu il fatto che queste parole provenissero da un democristiano italiano, un collega di partito dell'allora cancelliere Helmut Kohl".



    Ai tempi, l’unificazione tedesca non era certo d’attualità, ma i tedeschi dell’Ovest volevano che formalmente rimanesse in agenda. La stampa tedesca fu molto dura. La Frankfurter Allgemeine Zeitung scrisse: "Da tanto tempo nell'alleanza occidentale un politico al governo non ha fatto così tanto danno con così poche parole". Aggiunse Die Welt: quelle di Andreotti sono state “parole sbagliate nel posto sbagliato al momento sbagliato”. Ferraris era a Bonn già da qualche anno, molto apprezzato e rispettato dall’establishment tedesco. Riuscì a calmare le acque. Ma non dovette agire solo sul piano politico. La presa di posizione del ministro italiano scatenò anche la reazione di molti cittadini tedeschi.


    “Ricevetti più di seicento lettere in ambasciata. E decisi di rispondere a ognuna nel merito. Mi aiutò Silvio Fagiolo con la sua eccellente padronanza del tedesco”. Quest’ultimo, allora consigliere di ambasciata, è stato successivamente ambasciatore nella Repubblica Federale tra il 2001 e il 2005. Durante una recente conversazione Ferraris, che oggi ha 81 anni, mi ha descritto il tenore delle lettere. C’è chi rimproverava agli italiani di essere inaffidabili, ricordando “il tradimento del 1943”; chi minacciava ritorsioni e la cancellazione delle vacanze sulla riviera romagnola; chi temeva un netto rallentamento nel processo di integrazione europea a causa dello scontro tra due paesi fondatori.



    “La relazione tra Germania e Italia – commenta Ferraris a 25 anni di distanza da quegli avvenimenti – ha venti secoli di storia alle spalle, una caratteristica quasi unica in Europa. Risale alla battaglia di Teutoburgo e alla vittoria di Arminio contro i romani. Sono rapporti quelli italo-tedeschi molto complessi, più complessi di quelli tra la Germania e la stessa Francia, ma anche più inscindibili. Pensi a Federico Barbarossa, un eroe nazionale per i tedeschi, un invasore sanguinario per gli italiani; pensi al confronto tra Crispi e Bismarck; pensi ancora all’Italia che per secoli ha fatto parte della grande Deutsche Nation e quindi ai fortissimi legami che l’aristocrazia milanese o veneta ha tutt’ora con quella viennese”.



    Per certi versi, prosegue l'ex diplomatico, "la presa di posizione di Andreotti nasconde un pregiudizio anti-tedesco sempre strisciante in Italia. Molti italiani si interrogano continuamente sulla collocazione della Germania in Europa. Sono ossessionati dal Nazismo e dall’espansionismo prussiano. Sanno tutto di Luigi XIV, ma nulla di Federico II. Oggi vanno a Berlino come prima andavano all’Oktoberfest, ma ignorano o quasi il resto del paese. Così come la letteratura tedesca: quanti oggi in Italia hanno letto Theodor Fontane? D’altro canto, quando a Versailles nel 1919 si discusse del destino della Germania Vittorio Emanuele Orlando era fuori dalla sala, alle prese con la questione di Fiume”.



    Certamente, continua Ferraris, "si parla di Italia in Germania molto più di quanto non si parli di Germania in Italia. I tedeschi considerano gli italiani fondamentalmente inaffidabili. Mi ha detto un giorno il cancelliere Helmut Schmidt che in Italia si pratica eine selektive Anwendung des Gesetzes, un’applicazione selettiva della legge. Detto ciò, credo che negli ultimi trent’anni l’immagine degli italiani sia migliorata. Certo non vi ha contribuito la nostra vita politica così profondamente diversa da quella tedesca. Ma le nostre imprese hanno dimostrato qualità ed efficienza, mentre i nostri immigrati si sono distinti in modo particolare”.



    Le celebrazioni per la Caduta del Muro sono l’occasione in Germania per fare il punto sull’unificazione e sul ruolo internazionale della Repubblica Federale. Il paese oscilla tra il desiderio di ritrovare un proprio ruolo a livello mondiale e la consapevolezza dei suoi limiti nazionali in un mondo sempre più dominato dalle nuove superpotenze emergenti. In questo contesto, il futuro del rapporto con l’Europa e con l’Italia è aperto. Memore delle oltre seicento lettere che ricevette nel 1984, Ferraris trae alcune lezioni, forse utili per il futuro: “I tedeschi apprezzano la franchezza; accettano le critiche; amano la serietà”.



    IL SOLE 24 ORE

 

 
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